Home

Mori's Humor Page
Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Poggio Bracciolini
LE FACEZIE

| I - XXX | XXXI - LX | LXI - XC | XCI - CXX | CXXI - CL |

| CLI - CLXXX | CLXXXI - CCXX | CCXXI - CCL | CCLI - CCLXXII |

INDICE DEI TITOLI

riga

FACEZIE DA LXI a XC

riga

LXI

DI GUGLIELMO CHE AVEVA UN AFFARE ABBONDANTE

Nella città di Terranova eravi un uomo che aveva nome Guglielmo, che facea il falegname ed era assai ben provvisto dalla natura. E la moglie fortunata narrò la cosa alle vicine, e quando questa morì, condusse egli in moglie una giovinetta ingenua, che avea nome Antonia, e che quando fu sposa seppe dai vicini che arma potente possedesse il marito. Nella prima notte che ella fu col marito tremava assai, e voleva sfuggirlo né voleva lasciar fare. E l'uomo capì di che cosa avesse timore la ragazza, e per consolarla le disse che ciò che ella aveva udito dire era vero, ma che egli ne aveva due, uno più grande e uno più piccolo: «E di questo», soggiunse, «per non farti male, mi servirò questa notte; e vedrai che ti farà bene; poi se ti piacerà proveremo col più grande». La ragazza acconsentì e cedette senza pianto e senza dolore all'uomo. E dopo un mese, fattasi più franca e più audace, una notte, mentre accarezzava suo marito: «Amico mio», gli disse, «se ora ti volessi servire di quell'altro ch'è più grande? « E l'uomo, che ne avea quasi quanto un asino, rise dell'appetito della donna; e da lui una volta udii narrare, in compagnia, questa storia.

LXII

RISPOSTA D'UNA DONNA DI PISA

Fuvvi una donna di Pisa, detta Sambacharia, che fu assai pronta alla risposta. Un giorno le si avvicinò un burlone e per prendersi giuoco di lei le disse: «I1 prepuzio dell'asino vi saluta». Ed essa pronta: «Oh! sembri appunto un suo ambasciatore». E, questo detto, gli volse le spalle.

LXIII

DETTO DI UNA MATRONA CHE VIDE ALLA FINESTRA
LE VESTI DI UNA CORTIGIANA

Una donna di mal affare aveva una mattina messe fuori dalla finestra le vestimenta che il ganzo le aveva donate. Una matrona che le vide nel passare: «Ecco» disse, «una donna che fa, come il ragno, la sua tela col culo, e mostra a tutti l'opera sua».

LXIV

AVVERTIMENTO DI UN TALE

Uno de' miei compaesani, nel tempo della vendemmia, fu pregato da un tale di dargli a prestito qualche tino. Ed egli rispose: «Se dò a mangiar tutto l'anno a mia moglie faccio questo per servirmene in Carnevale». E lo avvisò con questa risposta che non ponno chiedersi ad alcuno le cose che gli siano necessarie.

LXV

DETTO DI UN DI PERUGIA A SUA MOGLIE

Quelli di Perugia hanno fama di buoni e lieti uomini. Una donna di nome Petruccia pregò il marito di comprarle un par di scarpe nuove per andare il dì dopo alla festa. E il marito acconsentì, e al mattino prima di andarsene le disse di cuocergli una gallina pel pranzo. La moglie, preparato il pollo' uscì sulla porta, e vide passare un giovane che ella amava moltissimo, e, rientrata in casa, gli fe' cenno di seguirla, allora che il marito era lontano; e per non por tempo in mezzo, ascesa la scala, si gittò per terra, così che dalla porta potevasi vedere. E si fe' venir sopra il giovane, e strettolo con le cosce e co' piedi se la godevano allegramente. I1 marito, frattanto, che credeva che la moglie fosse di già ita alla festa e non tornasse a casa che tardi, invitò un amico a pranzo, dicendogli che sua moglie non vi sarebbe stata. Giunti in casa, entrò pel primo il marito, e vista in cima alla scala la donna che moveva i piedi al disopra del giovane: «Ohé! Petruccia», le disse, «pel culo dell'asino! (è la maniera di bestemmiare) se gli è così che tu cammini, non consumerai mai le scarpe!».

LXVI

GRAZIOSISSIMO DETTO DI UN GIOVANE

Una villana lamentavasi un giorno che le sue oche non fossero in buono stato e diceva ch'esse eran state stregate dalle parole di una vicina, la quale, avendole lodate, non aggiunse: Dio ve le benedica, come il volgo suol dire. E un giovane, che udì questo lamento: «Ora comprendo», disse, «come la mia anitrella stia male e in questi giorni si sia fatta assai debole. Dopo che l'altro giorno la trovarono bella, e non vi aggiunsero

questa benedizione, credo che sia stata stregata perché non sollevò più la testa. Benedicila dunque, ti prego, perché riprenda il vigore di prima ».

LXVII

DI UNO STOLTO CHE, UDENDO UNO CHE IMITAVA LA SUA VOCE, CREDETTE D'ESSERE LUI STESSO CHE PARLAVA

I1 padre d'un amico mio aveva relazione con la moglie di un uomo sciocco e balbuziente. Una volta ch'egli andava alla casa di lei, credendo che il marito fosse fuori, picchiò forte alla porta; e, simulando la voce del marito, chiamò la donna ad aprirgli. E quell'uomo sciocco, che era in casa, udita quella voce, prese a dire: «Va' dunque, apri, Giovanna; fallo entrare, Giovanna; perché mi par d'esser io che batto».

LVII

D'UN UOMO DEL CONTADO CHE AVEVA UN'OCA DA VENDERE

Un giovane del contado che recava a Firenze un'oca per venderla, s'incontrò in una donna che gli parve allegra e che ridendo gli chiese quanto costasse l'oca Ed egli: «La potrete pagar con poco». «Quanto?», chiese la donna. «Lasciatevi fare una volta sola». «Tu scherzi», disse la donna, «ma entra in casa e parleremo del prezzo». E entrato, rimanendo egli nello stesso avviso, la donna acconsentì. Ma dopo, poiché essa eragli stata di sopra, quando volle l'oca, egli la negò: «perché» e' diceva, «non foste voi che vi lasciaste fare, bensì voi che faceste». E così rinnovando la pugna, il giovane si giovò perfettamente della cosa. E la donna, com'erano convenuti, tornò a chiedergli l'oca e il giovane ricusò, dicendo che ora erano entrambi in pari condizione, e questa volta non si era essa guadagnata l'oca, ma avealo risarcito dell'affronto che gli aveva fatto; poiché la prima volta era stato di sotto. E la contesa durava a lungo, quando sopraggiunse il marito, che chiese la ragion dell'alterco. «Io», disse la moglie, volevo prepararti lautissima cena se questo maledett'uomo non l'impedisse. Aveva egli convenuto di darmi l'oca per venti soldi; poi, quando fu dentro me ne chiese due di più, «Eh! » disse il marito, «sarà per così poco turbata la nostra cena! prenditi, ecco i ventidue soldi!» Così il villano ebbe il denaro e la donna.

LXIX

DI UN AVARO CHE BEVVE IL PISCIO

Uno de' nostri colleghi della Curia, notissimo avaro, veniva, mentre i servi mangiavano, a bere il loro vino, per vedere se fosse abbastanza annacquato; e diceva di far ciò per vigilare che essi avessero sempre buon vino. Se ne accorsero alcuni e concertarono di mettere in tavola del piscio fresco in luogo del vino, in quell'ora nella quale aspettavano la sua venuta. Venne egli come di consueto, e bevve il piscio, e se ne andò sputando e vomitando, facendo gran rumore e uscendo in molte minacce contro chi gli aveva giocato quel tiro. E i servi finirono la cena fra le risa, e chi aveva immaginato lo scherzo me lo raccontò poi, che rideva ancora.

LXX

D'UN PASTORE CHE FECE FALSA CONFESSIONE

Un guardiano di pecore, di que' luoghi nel Napoletano ne' quali una volta eravi il brigantaggio, andò una volta a dire i suoi peccati ad un confessore, cadde a' piedi del sacerdote dicendogli, in lagrime: «Perdonatemi, padre, perché ho io gravemente peccato». E il prete gli disse di narrare questi peccati, ed egli ripeté più volte quelle parole come se avesse commesso peccato nefando, ed esortato dal sacerdote, disse che in giorno di digiuno, avendo fatto il cacio, gli caddero in bocca alcune gocce di latte che egli non aveva sputate. Ma il sacerdote, che conosceva i costumi del paese del penitente, sorrise, e poiché questi gli aveva detto che aveva commesso gravi peccati, non credette che ciò fosse soltanto per non aver osservata la quaresima e lo richiese se altra cosa più grave vi fosse. Negò il mandriano, e il prete gli chiese, se mai egli con altri pastori, com'è frequente in quelle regioni, non avesse spogliato ed assassinato qualche viandante. «Spessissimo», rispose il penitente, «ed in entrambe le cose sono come gli altri assai esperimentato; ma ciò», soggiunse, «presso di noi è cosa comune, che non turba la coscienza». E per quanto il confessore gli rimproverasse quei peccati come delitti gravissimi, egli tenne sempre come cosa di niun conto rubare ed assassinare un uomo, cose che presso di loro son quasi nell'uso, e credette che solo del latte dovea chieder perdono. Cattivissima cosa essendo l'abito del peccato, che fa credere piccole cose anche quelle che sono gravissime.

LXVIII

DI UN GIOCATORE CHE FU MESSO IN PRIGIONE

A Terranova sono stabilite alcune pene per coloro che giocano a, dadi. Uno che io conosco fu preso su1 fatto, e caduto in pena, fu condotto in prigione. E quando gli si chiedeva perché fosse egli ivi chiuso, rispondeva: «Questo podestà nostro mi pose in carcere perché m'ero giocato il mio denaro. Che cosa avrebbe egli fatto se mi fossi giocato il suo? «

LXXII

DI UN PADRE CHE RIMPROVERAVA IL FIGLIO UBRIACO

Un padre, che molto spesso aveva rimproverata l'ubriachezza del figlio, visto una volta un ubriaco sulla strada, che giaceva turpemente, con tutte le cose scoperte, con una frotta di monelli intorno che l'irridevano, invitò il figliuolo ad assistere a così triste spettacolo, sperando che questo esempio, dal vizio dell'ubriachezza correggere lo potesse. Ma questo, veduto l'ubriaco, disse: «Ti prego, padre mio, di dirmi dov'è che si vende tal vino, per cui questo si è fatto ubriaco, perché di esso possa io gustar la dolcezza». E si mostrò commosso non dalla bruttezza dell'ubriaco, ma dal desiderio del vino.

LXXIII

DI UN GIOVANE DI PERUGIA

Anche Ispina, di Perugia, era un giovane di nobil casato, ma talmente dissoluto, ch'era di vergogna a tutti gli altri della famiglia. Simone Ceccolo, che era suo parente, uomo vecchio, di grande autorità e prudenza, lo chiamò un giorno a sé e con molti argomenti lo consigliò a mutar vita, facendogli brutta mostra de' vizi e lodandogli la virtù. Quando ebbe il vecchio finito: «Simone», disse il giovane, «voi avete parlato con eleganza e con precisione, come ad uomo eloquente si conviene; ma io su questo argomento udii ben cento e più eleganti sermoni, e pur tuttavia non volli mai alcuna cosa fare di ciò che essi dicevano». Non giovò più a quel di prima l'esempio, di quello che a costui un discorso.

LXXIV

DEL DUCA D'ANGIO, CHE MOSTRO' A RIDOLFO
UN RICCO TESORO

In compagnia di dotte persone si parlava un giorno della vanità di coloro che pongono tante cure a cercare ed a comprare le pietre preziose. E uno disse: «A ragione Ridolfo di Camerino mostrò al Duca d'Angiò la sua stoltezza a questo riguardo, quando ei viaggiava pel regno di Napoli. Un dì che Ridolfo era andato a visitare il duca negli accampamenti, mostrògli questi un tesoro molto prezioso, nel quale erano brillanti, perle, zafliri e tutte quelle pietre che si hanno in gran pregio. E Ridolfo, vedutele, chiese quanto quelle pietre costassero e a che fossero buone; il duca rispose ch'esse avevano gran valore, ma che nessun utile davano. E allora Ridolfo: Vi mostrerò, gli disse, due pietre che mi costano dieci fiorini e che mi dànno duecento fiorini l'anno; e condusse il duca, di questa cosa meravigliato, a un molino che egli aveva fatto costruire e gli mostrò due pietre da macina, dicendogli che queste per utilità e per valore le sue pietre preziose superavano».

LXXV

DELLO STESSO RIDOLFO

Questo stesso, ad un di Camerino, che per vedere il mondo voleva viaggiare, disse di andare fino a Macerata. E quando questi fu ritornato: «Tu», gli disse, «hai veduto tutto il mondo; perché», aggiunse egli, «nel mondo non vi sono che colline e vallate, montagne e pianure, terre coltivate ed incolte' boschi e foreste, e tutte queste cose in quel piccolo spazio sono contenute».

LXXVI

MOTTO ALLEGRO DI UN PERUGINO

Un Perugino aveva una botte di vino squisito, ma era essa assai piccola botte. Una volta un tale gli mandò a chieder del vino per un fanciullo con un vaso molto grande, ed egli, preso fra le mani il vaso, lo fiutò e disse: «Oh, come pute questo vaso! giammai io vi metterò dentro il mio vino. Va' dunque e riportalo a colui che t'ha mandato».

LXXVII

CONTESA DI DUE CORTIGIANE PER UNA PEZZA DI TELA

Due donne romane, che io ho conosciuto, di diversa età e bellezza, andarono un giorno alla casa di uno della Curia per dargli piacere e per averne guadagno. Questi sopra una di esse ripeté il colpo, sull'altra giocò una volta sola e perché non si reputasse rifiutata e perché tornasse da lui con la compagna; e quando se ne andarono, dié loro in dono una pezza di tela di lino, non indicando come dovessero farsi le parti. Quando furono per dividerla, sorse contesa fra le femmine, perché una ne volea metà perché in due eran esse venute. Entrambe diversi argomenti recarono, e una affermava di aver sopportata maggior fatica, l'altra diceva che tutte e due eran pari. Dalle parole vennero a' colpi e a combattimento di unghie e di capelli. S'interposero dapprima i vicini, poi i mariti, che ignoravano la ragion del litigio, e ognuna di esse asseriva che l'altra aveala per prima offesa. E poiché gli uomini fecer sue le cause delle donne, la lotta di queste passò a quelli, e la cosa venne a sassi ed a bastoni fino a che l'intervento de' passanti calmò la lotta. E gli uomini, tornati alle loro case, ignari delle cause della lite, serbaronsi rancore com'è dei romani. La tela è ancora presso un tale, come cosa non ancora decisa, ma di nascosto le donne trattano per dividerla. Si chiede dagli uomini della legge come sia il diritto.

LXXVIII

IL GALLO E LA VOLPE

La volpe una volta avea fame, e per ingannar le galline, che sotto la scorta del gallo erano ascese su di un albero al quale essa giungere non poteva, si fe' incontro cortesemente al gallo e lo salutò con affetto: «Che fai tu là in alto?», gli chiese. «Non hai dunque apprese le recenti no velle che per noi son tanto gradite?» «No», rispose il gallo, «dimmele». «Venni apposta e in fretta per dirtele. Si è fatto un gran congresso di animali, dove essi hanno statuita una perpetua pace fra di loro, così che non v'è più nulla a temere, né potremo più tenderci insidie, né farci ingiuria, ma godremo invece tutti pace e buona amicizia; ognuno d'ora innanzi potrà andar sicuro, anche solo, dove vorrà. Discendi adunque e festeggiamo insieme questo giorno». Ma il gallo, che aveva conosciuto l'inganno della volpe: «Tu, le disse, «m'hai recata grata novella e te ne ringrazio», e così dicendo sorse su le zampe e allungò il collo come chi guarda lontano e si meravigli: «E tu che guardi dunque?», chiese la volpe. «Guardo», rispose il gallo, «a due cani che vengono correndo a questa volta con le fauci spalancate». E allora la volpe tremante: «A rivederci», disse, «ché bisogna ch'io scappi innanzi ch'essi qui giungano»; e prese di fatti a fuggire. «Oh!»,disse il gallo, «perché te ne vai dunque, o che temi? se la pace è fatta, non devi tu aver paura». «Dubito», rispose la volpe, «che questi cani non abbian notizia del decreto di pace». E così l'inganno fu tolto coll'inganno.

LXXIX

DETTO GRAZIOSO

Un tale, un po' troppo libero nel parlare, un giorno discorreva alquanto licenziosamente nel palazzo del Pontefice, e accompagnava con gesti espressivi le sue parole. Un amico che lo vide: «Che fai ?», gli chiese, «ma non temi d'esser preso per matto?» Ed egli: «Questo sarebbe davvero per me gran vantaggio: perché solo a quella condizione potrei venire nel favore di coloro che governano, poiché questo è il tempo degli stolti, e questi soltanto han le mani negli affari».

LXXX

DISPUTA TRA UN FIORENTINO E UN VENEZIANO

I Veneziani avean concluso col Duca di Milano un trattato di pace duraturo per dieci anni. In questo tempo scoppiò la prima guerra tra' Fiorentini e il Duca, e poiché pareva che quelli avessero la peggio, i Veneziani, mentre il Duca nulla temeva da loro, per paura che egli superiore nella guerra non rivolgesse su di loro le forze sue, ruppero il patto ed occuparono Brescia. Qualche tempo dopo un Veneto venne fuori a dire: «Voialtri ci dovete la libertà; se siete liberi, lo siete per opera nostra». E il Fiorentino, per ribattere la iattanza del Veneto: «Non foste voi che ci faceste liberi, fummo noi che vi facemmo diventar traditori».

LXXXI

COMPARAZIONE DI ANTONIO LUSCO

Ciriaco d'Ancona, uomo verboso e troppo loquace, un dì che noi eravamo insieme, deplorava la caduta e la distruzione dell'Impero Romano, e pareva che di ciò si affliggesse assai. Allora Antonio Lusco, uomo dottissimo, ch'era presente, ridendo dello sciocco dolore di costui, disse: «E' mi fa ricordare quell'uomo di Milano che un dì di festa udì di que' cantori da piazza che cantano alla plebe le geste degli eroi; cantava costui della morte di Rolando, che era morto da ben settecento anni in battaglia, e quell'uomo prese a piangere a calde lagrime; e quando andò a casa, la moglie, che lo vide mesto e piangente, lo richiese qual novità gli fosse accaduta: Ah! moglie mia, disse, son morto! Amico mio, disse la moglie, che avversità ti colse ? Vieni dunque e consolati a cena. Ed egli continuava a piangere né voleva prender cibo; finalmente cedette alle preghiere della moglie e disse la causa del suo dolore: Non sai tu, che nuova ho io oggi udita? Quale mai? chiese la donna. Egli è morto Rolando, che era il solo che difendesse i Cristiani. La moglie si consolò della sciocca afflizione dell'uomo e lo poté finalmente persuadere a cenare».

LXXXII

DI UN CANTORE CHE DISSE CHE AVREBBE CANTATA
LA MORTE DI ETTORE

Un altro de' presenti narrò un'altra storia di simile stoltezza: «Un mio vicino», disse, «un

uomo di corto intelletto, stava un giorno ad udire uno di que' cantori, il quale alla fine, per invitare il pubblico ad udirlo di nuovo, disse che il dì dopo avrebbe cantata la morte di Ettore. I1 nostro uomo, pria che il cantor se ne andasse, gli diede del denaro perché e' non uccidesse tanto presto Ettore, uomo così forte alla guerra. E il cantore rimise la morte d'Ettore all'altro giorno. E lo sciocco continuò a dargli denaro, sempre per allungar la vita all'Eroe. E quando fu a secco di monete, dové con gran dolore e con molto pianto ascoltar finalmente la narrazione della morte».

LXXXIII

DI UNA DONNA CHE SI MOSTRO' QUASI MORTA AL MARITO

Un buon uomo di Sarda, che è un borgo sulle nostre montagne, sorprese un giorno la moglie che con un altro godeva, ed essa prontamente si finse come morta, cadendo a terra simile del tutto ad una trapassata. I1 marito le si fe' vicino, e, credendola morta, prese piangendo a farle fregagioni sul corpo. Ed essa gli occhi semichiusi, come se a poco a poco rinvenisse, rispose all'uomo che le chiedeva che cosa le fosse avvenuto, che aveva avuto gran paura. E poiché lo sciocco la consolava e le chiedeva che cosa volesse ella da lui: «Voglio», disse la donna, «che tu nulla abbia veduto», e appena che l'uomo ciò promise, tornò alla donna la salute.

LXXXIV

GIOCONDA RISPOSTA DI UN CAVALIERE DI FIRENZE

Rosso de' Ricci cavaliere fiorentino, uomo molto saggio e grave, aveva la moglie di nome Telda vecchia e brutta. E' gittò gli occhi su la serva che aveva in casa, ed avendola molte volte richiesta, questa riportò la cosa alla padrona; la quale la consigliò a consentire e a dargli ritrovo per una cert'ora in luogo buio, dove Telda venne di nascosto al posto della serva. Venne Rosso a quel luogo e per lungo tempo accarezzò la mo glie credendola la servente; poi, perché l'arma non era pronta, nulla poté fare. La moglie allora si scoprì: «Cavaliere da burla», esclamò, «se qui fosse stata la serva avresti ogni cosa felicemente compiuta». Ed egli: «Per Dio, Telda, moglie mia, questo mio amico ha miglior naso di me. Ché, appena ch'io ti ho toccata, credendo che tu fossi la serva, egli ha capito ch'eri carne cattiva e si ritirò dentro».

LXXXV

Dl UN CAVALIERE FIORENTINO CHE AVEVA
LA MOGLIE BISBETICA

Un cavalier fiorentino, di gran nobiltà, aveva una moglie molto bisbetica, e cattiva, la quale ogni dì andava dal suo confessore o, come suol dirsi, dal suo direttore di spirito, a raccontar de' vizi e delle liti del marito. E il confessore lo correggeva e rimproverava; e un giorno che la mo glie gli disse di rimetter la pace fra loro, egli invitò il marito a confessione de' peccati; la quale quando fosse fatta, non dubitava che la concordia fosse fra di loro tornata. Venne il cavaliere, e quando il frate lo invitò a narrargli i peccati: «Non ce n'è bisogno», rispose, «ché mia moglie vi ha detto assai volte quelli ch'io abbia commessi e molti altri ancora».

LXXXVI

D'UN EMPIRICO CHE CURAVA GLI ASINI

Fuvvi poco tempo fa a Firenze un uomo sicuro di sé ed audace, che non aveva alcun'arte. Avendo egli letto una volta da un medico il nome e la virtù di certe pillole che si diceva giovassero per molti mali, pensò risevolmente di diventar medico con quelle pillole soltanto' e fatto di esse un gran numero, uscì dalla città, e prese a vagare per i borghi e pel contado, professando l'arte del medico; e dava per tutte le malattie quelle pillole, e con questa cura, per caso, qualcuno riebbe la salute. S'era fra gli stolti divulgata la fama dello stolto, e un giorno un tale che aveva perduto l'asino venne da lui a chiedergli se aveva un rimedio per trovar l'asino. Egli disse che l'aveva, e gli diede ad inghiottire sei pillale. E quei le prese, e il dì dopo essendo uscito per cercar l'asino, dové per l'effetto delle pillole andar giù di strada per sgombrarsi il ventre; e venne per questa bisogna per caso in un canneto, dove avendo egli trovato l'asino che pascolava, portò al cielo le lodi e della scienza del medico e della virtù delle pillole. E dopo il fatto venivano d'ogni parte a quello i villani, fra i quali si era sparsa la fama delle medicine di un dottore che anche per trovar gli asini smarriti eran buone.

LXXXVII

RISPOSTA DI PIETRO DE EGHI

Una volta a Firenze, in una di quelle sedizioni nelle quali i cittadini fra loro combattevano per la ragion del governo, un capo di una parte era stato ucciso dagli avversari in un grave tumulto. Uno di coloro che di lontano vedeano gli uomini accorrere con le spade sguainate, chiese a chi gli era vicino che cosa laggiù si facesse, ed uno di questi, chiamato Pietro de Eghi, rispose: «Là si dividono il magistrato e gli uffici della città»; e l'altro rispose: «Poiché costan sì caro, io vi rifiuto», e se ne andò sul momento.

LXXXVIII

D'UN MEDICO

Cenavano una sera meco alcuni amici miei, uomini sempre pronti alla facezia, e mangiando narravano molte cose degne di riso, ed uno fra le altre narrò ridendo questa: «Cecchino, medico d'Arezzo, fu una volta chiamato a curare una bella giovanetta, che danzando s'era torto un ginocchio; e per accomodarlo, poiché gli fu d'uopo di toccare assai la coscia e la gamba della giovinetta, ch'erano morbide e bianchissime, gli avvenne di sentirselo eretto in modo da non poterlo più contenere nella veste. Poi quando si alzò sospirando, ed ella l'ebbe richiesto quanto voleva per la cura fattale, egli rispose che nulla ella dovevagli; e chiestagliene la ragione: Perché, disse il medico, siamo nell'opera pari: io ti dirizzai un membro, e tu a me, nello stesso modo, un altro».

LXXXIX

SCHERZO DI UN VENEZIANO CHE NON CONOBBE
IL SUO CAVALLO

Fra molti dotti uomini si parlava una volta della imbecillità e della stoltezza di molti. Antonio Lusco, uomo di grande amenità, raccontò che andando una volta da Roma a Vicenza, ebbe in sua compagnia un Veneziano che, da quel che pareva, non aveva molte volte cavalcato. Egli discese a Siena ad un albergo in cui erano moltissimi altri coi loro cavalli e alla mattina dopo, quando tutti stavano per riprendere il viaggio, il solo Veneziano rimaneva sulla porta seduto, oziando distratto; e Lusco, meravigliandosi della negligenza e della pigrizia di costui che quando tutti gli altri erano in sella, stavasi là solo seduto, lo avvertì che, se volea partir seco, montasse tosto a cavallo, e gli dicesse perché stava indugiando. Ed egli: «Io certamente desidero di venire con voi; ma non conosco affatto il mio cavallo fra gli altri; per questo io aspetto che tutti gli altri montino in sella, perché trovando poi nella stalla un cavallo solo, saprò ch'esso è mio». E Antonio, conosciuta la stoltezza del compagno di viaggio, lo aspettò per un po' di tempo affinché questo sciocco potesse prendere per suo l'ultimo cavallo rimasto.

XC

DETTO DI RAZELLO DA BOLOGNA

Quando si vuol mostrare disprezzo a qualcuno si ha l'uso di dire: «Ti lascerei cento volte in un giorno in pegno all'oste». Un tale, una volta, in una raccolta di gente, disse quella frase a Razello da Bologna, uomo prontissimo alla risposta, credendo di avvilire Razello e di dare a sé valore. E Razello a lui: «Ed io te lo concedo facilmente, perché solo le buone cose e che hanno grande prezzo possono accettarsi in pegno; ma tu che sei di condizione vile ed abietta, potresti girare per tutte le taverne, che non troveresti alcuno che ti prendesse in pegno neanche per un danaro»; e così dicendo ei fece ridere gli astanti, e ritorse con acerba risposta, l'acerbo detto di colui.

Torna all'inizio

home
Home


This page hosted by   Get your own Free Home Page