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Mori's Humor Page
Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Poggio Bracciolini
LE FACEZIE

| I - XXX | XXXI - LX | LXI - XC | XCI - CXX | CXXI - CL |

| CLI - CLXXX | CLXXXI - CCXX | CCXXI - CCL | CCLI - CCLXXII |

INDICE DEI TITOLI

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FACEZIE DA XXXI a LX

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XXXI
ALTRO PRODIGIO DI CUI MI HA NARRATO UGO DA SIENA

I1 celebre Ugo da Siena, che è il primo medico del nostro tempo, mi ha narrato che a Ferrara è nato un gatto con due teste eche egli lo ha veduto.

XXXII

ALTRO PRODIGIO

Si sa che anche in quel di Padova, nel mese di giugno, nacque un vitello con due teste, con un sol corpo e con le quattro gambe raddoppiate, benché fossero congiunte. Questo mostro portavano intorno per guadagnare, e molti affermano di averlo veduto.

XXXIII

DI UN ALTRO MOSTRO

Ed è anche certo che fu recata a Ferrara l'immagine di un mostro di mare che fu trovato su la costa di Dalmazia. Aveva il corpo d'uomo fin all'ombellico, poi era pesce, così che finiva biforcandosi. Aveva la barba lunga, e come due corna gli uscivano di sopra le orecchie, le mammelle grosse, la bocca larga, le mani con sole quattro dita, e dalle mani alle ascelle e al basso ventre si stendevano ali di pesce con le quali nuotava; e in questo modo narravano di averlo preso: molte donne stavano a lavare pannolini alla spiaggia; quel pesce, spinto dalla fame, dicono che ad una di esse si avvicinasse e tentasse di afferrarla per le mani; non eravi molt'acqua, ed ella lottando, con grandi grida chiamò le altre in soccorso; accorsero cinque di esse e giacché non potea più tornare il mostro nell'acqua, con bastoni e con pietre 1'uccisero, e trattolo alla riva fe' loro gran paura. Aveva il corpo un po' più lungo e più grosso di un uomo, da quanto si vedeva nell'incisione in legno che ci portarono a Ferrara. E che fosse per divorar la donna che esso l'aveva afferrata, ne fece fede il fatto che alcuni fanciulli, che in differenti tempi eran venuti per lavarsi alla spiaggia, non tornarono più mai, e questi dopo il fatto si credette che il mostro avesse presi ed uccisi.

XXXIV

GRAZIOSA FACEZIA DI UN COMMEDIANTE
SU PAPA BONIFAZIO

Bonifazio, nono Papa di questo nome, fu napoletano e della famiglia Tomacelli. Ora volgarmente diconsi «tomacelli» certi fegatelli di porco tritati moltissimo e fasciati nel grasso di quell'animale. Nell'anno secondo del suo pontificato, Bonifazio si recò a Perugia; erano con lui i fratelli e molti altri della famiglia, i quali, come avviene, per cupidigia di beni e di guadagno si erano stretti dintorno a lui. All'entrata nella città Bonifazio era seguito da una scorta di alti personaggi, e fra questi erano i fratelli e gli altri membri della famiglia, e i curiosi chiedeano i nomi di coloro che componevano il seguito; e si sentiva d'ogni parte rispondere: «Questo è Andrea Tomacello», poi: «Questo è Giovanni Tomacello»; e così molto spesso la parola Tomacelli si andava ripetendo. «Oh! oh!», disse un uomo allegro, «doveva esser ben grosso quel fegato di porco dal quale son venuti tanti tomacelli e così grandi!».

XXXVI

DI UN CURATO GHE SEPPELLI' UN CAGNOLO

Eravi in Toscana un curato di campagna assai ricco, e mortogli un cagnuolo che egli aveva molto caro, lo seppellì nel cimitero. Venne ciò alle orecchie del Vescovo, che, desideroso del denaro del curato, fece questo a sé chiamare come reo di altissimo delitto; e il prete, che conosceva l'animo del Vescovo, vi andò recando seco cinquanta ducati. I1 Vescovo, vistolo innanzi a sé, lo rimproverò gravemente della sepoltura data al cane e co mandò fosse tratto in prigione: «Padre mio», disse il prete furbo, «se voi aveste conosciuta quanta intelligenza aveva il cagnuolo, non sareste ora così meravigliato che egli abbia avuta sepoltura con gli uomini; perché egli tanto in vita quanto in morte ebbe assai più ingegno di un uomo». «Che vuol dir ciò?», chiese il Vescovo. «Egli», rispose il curato, «agli ultimi della vita fece testamento, e conoscendo la povertà vostra, vi lasciò cinquanta ducati che io ho qui meco». E il Vescovo allora approvò e il testamento e la sepoltura, prese il denaro, ed assolse il prete.

XXXVI

DI UN SIGNOROTTO CHE INGIUSTAMENTE
ACCUSO' UN UOMO RICCO

In un borgo del Picentino chiamato Cingoli, era un uomo molto danaroso; e quando venne ciò a conoscenza del signore del luogo, questi a fine di togliersi il danaro, cercò pretesto di un delitto; e chiamatolo a sé, gli disse che e' lo riteneva reo di lesa maestà; e poi che l'altro rispondeva di non aver mai fatta alcuna cosa contro lo Stato e contro la dignità del signore, questi insisteva nella accusa, concludendo che doveva essere egli punito nel capo; il poveruomo gli chiese che cosa avesse egli alla fine fatto. «Tu», gli rispose il signore, «hai tenuto in casa nascosti i miei nemici e i ribelli che cospirarono contro di me». E quello capì finalmente che il signore voleva il suo denaro, e amando meglio di perder questo che la vita: «Sì, monsignore», rispose, «è vero ciò che voi dite; ma datemi con me alcuno degli uomini vostri, che que' nemici e ribelli vi darò tosto nelle mani». E mandati alcuni fanti alla casa, l'uomo li condusse alla cassa in cui era il danaro, e apertala: «Prendete subito questi denari», disse, «che non solo del signore nostro, ma pur di me sono nemici acerrimi e ribelli». E quando il signore li ebbe avuti, l'uomo sfuggì a ogni pena.

XXXVII

DI UN FRATE CHE FECE ASSAI BREVE SERMONE

In un borgo delle nostre campagne, molti erano e da molte parti convenuti alla festa, ed era quella di Santo Stefano. Un frate doveva, com'e di costumanza, fare il sermone al pubblico; l'ora era tarda, i preti avean fame, e quando il frate salì su1 pergamo, un prete, quindi un altro, lo pregarono all'orecchio, di parlare assai brevemente. Ed egli si lasciò facilmente persuadere. Dopo il breve esordio d'uso: «Fratelli miei», disse, «l'anno passato da questo stesso luogo, allo stesso uditorio, parlai della santità della vita e dei miracoli di questo Santo nostro, e nulla omisi di quelle cose che io udii narrare di lui, o che si trovano scritte ne' sacri libri; e credo che voi ne conserverete memoria. Ma dopo, poiché non ho udito dire che egli abbia fatto nulla di nuovo, fatto il segno della croce, recitate il Confiteor e le preci che seguono». E, ciò detto, discese.

XXXVIII

GRAZIOSISSIMO CONSIGLIO DI MINACCIO A UN VILLANO

Un villano, che era salito sopra un castagno per raccogliervi i frutti, cadde e si ruppe una costola; e venne a consolarlo un certo Minaccio, che era uomo molto allegro, e fra le cose che gli disse, gli die' ancora un consiglio per non cadere mai più dagli alberi: «Avrei voluto saperlo prima», disse il malato, «ma tuttavia questo potrà altra volta giovarmi». «Ebbene», disse Minaccio, «fa in modo di non discendere giammai con maggior fretta di quella con la quale tu sei salito; ma discendi con l'eguale lentezza con cui sei salito; a questo patto tu non potrai mai cadere».

XXXIX

RISPOSTA DELLO STESSO MINACCIO

Lo stesso Minaccio, che era assai povero, avendo un giorno al giuoco dei dadi perduto qualche moneta e la veste, si era seduto piangendo alla porta di non so qual taverna. E un amico che lo vide in lacrime: «Che cosa hai, tu che piangi? «gli chiese. E Minaccio: «Niente», rispose. «Per ché dunque piangi, se non hai niente? «Per questo soltanto, che non ho niente». E l'altro meravigliato: «Ma perché, se non hai niente, piangi?» «Appunto per questa ragione», rispose, «che io niente posseggo». Quello credeva che egli piangesse per una causa da niente; questo piangeva perché niente gli era rimasto dal giuoco.

XL

DI UN POVERO GUERCIO CHE ERA ANDATO
PER COMPRAR FRUMENTO

A1 tempo della grande carestia a Firenze, un povero guercio andò in piazza, a comprare, diceva, qualche sestario di frumento; e quando si fu informato del prezzo, sopraggiunse un altro, che gli chiese a quanto si vendesse al sestario il frumento: «Un occhio», rispose, volendo con ciò significare il caro prezzo dei viveri. Questo udì un monello presente, che saltò su a dire: «Perché dunque hai preso teco un sacco così grande, quando tu non puoi comperarne che un sestario solo ?».

XLI

DI UN UOMO CHE CHIESE PERDONO A SUA MOGLIE MALATA

Un uomo consolava sua moglie al letto di morte, e le ricordava che egli si era sempre mostrato buon marito e le chiedeva perdono se mai qualche cosa le avesse fatto di male; e disse ancora che, fra gli altri uffici maritali, egli non aveva giammai trascurato quello del letto, fuori che in quel tempo in cui era malata, perché quel lavoro non l'affaticasse. Allora la donna, benché malata, prese a dirgli: «Oh, davvero che di ciò non potrò io mai perdonarti; perché in nessun tempo fui io tanto malata, da non poter comodamente giacere». Che gli uomini adunque faccian l'opera loro, per non dover mai chiedere alla moglie perdono come questo, che esse a buon diritto potrebbero negare.

XLII

DI UNA GIOVINETTA CHE ACCUSAVA IL MARITO
DI ESSERE POCO FORNITO

Un giovane nobile e bello condusse in moglie la figlia di Nereo de' Pazzi cavaliere fiorentino, che fu, tra gli altri del suo tempo, uomo eminente ed egregio. Dopo alcuni giorni, tornò ella, com'è costume, alla casa paterna, ma non vivace e lieta, come sogliono essere le altre, ma mesta e pallida e con gli occhi bassi. E la madre la chiamò in una camera e in segreto le chiese se ogni cosa fosse andata bene, e la fanciulla lacrimando rispose: «Come vuoi, ma tu non m'hai sposata ad un uomo, sì ad uno che non è uomo; che cioè ha nulla o poco assai di quell'arnese pel quale si va a marito». La madre, afflitta assai della sventura della figlia, raccontò tutto al marito, e la cosa, come avviene, in poco tempo si divulgò fra' congiunti e le donne che erano state invitate al banchetto, e si riempì a tale nuova la casa di lacrime e di lagni, perché si diceva quella bella fanciulla non era stata maritata, ma sacrificata. Finalmente giunse il marito in onor del quale si imbandiva il convito, e quando vide tutti col volto lacrimoso ed afflitto, meravigliato della strana cosa, chiese che novità avvenuta mai fosse. Nessuno osava confessare la causa di quel dolore, finché finalmente uno più franco disse che la fanciulla aveva riferito che egli era poco provvisto dei beni maritali. «Non può essere questa», egli disse, «la ragione della vostra afflizione e per la quale non si vada al banchetto; però questa accusa mi verrà presto tolta». Erano già a tavola tanto gli uomini quanto le donne, e aveano già mangiato quando il giovane si alzò: «Miei cari parenti», disse, «sento accusarmi di una cosa della quale io vi chiamo giudici», e in questa mise fuori un ordegno di bellissima forma (poiché allora si usavano vestimenta corte) e lo pose sulla tavola e chiese agli astanti, che s'eran commossi per la novità e per la grandezza della cosa, se potevasi di esso lamentare o rifiutarlo. La maggior parte delle donne desideravano che i loro mariti avessero altrettanta abbondanza. Molti uomini si sentivano da quel tale arnese superati, tutti rivolti verso la giovinetta la rimproveravano della sua sciocchezza. «Perché tanto biasimarmi», diss'ella, «perché tanto riprendermi? Il nostro asino, che l'altro dì vidi alla campagna, non è che una bestia e ne ha tanto (e in questa distese il braccio), e questo mio marito che è un uomo non ne ha la metà». Credeva l'ingenua fanciulla che gli uomini ne dovessero aver di più delle bestie.

XLIII

DI UN PREDICATORE CHE PREFERIVA DIECI VERGINI
A UNA DONNA MARITATA

Al popolo di Tivoli predicava un frate assai poco circospetto, e con molte parole si scagliava contro l'adulterio, e questo abbominava, e disse, fra le altre cose, che era peccato talmente grave, che egli avrebbe preferito d'aver piuttosto dieci vergini di quello che una sola donna maritata. Molti che erano presenti erano dello stesso parere.

XLIV

DI PAOLO CHE MOSSE LA VOGLIA DI ALCUNI IGNORANTI

Un altro predicatore che aveva nome Paolo e che io ho conosciuto, mentre faceva a Secia, città della Campania, un discorso contro la lussuria, disse che alcuni erano tanto lascivi e scostumati, che per aver maggiore il piacere nel coito mettevano un cuscino sotto alla moglie. Alcuni, che ignoravano la cosa, se ne invaghirono, e a casa ne fecero tosto l'esperimento.

XLV

DI UN CONFESSORE

Una giovane, che poi mi raccontò questa storia, andò una volta a confessare i suoi peccati, come si usa in quaresima. E fra le altre cose disse che non serbava fedeltà al marito. Allora il confessore, che era un frate acceso di desiderio, levò dalla tonaca un superbo cordone, eretto, e lo diede in mano alla giovane, supplicandola ad avergli misericordia. Ella se ne andò, coperta di rossore, e alla madre che era lì presso e che gliene chiese la ragione, narrò della preghiera che le aveva fatta il confessore.

XLVI

GRAZIOSA RISPOSTA DI UNA DONNA

Una donna, alla quale il marito spesso chiedeva, per qual ragione, se uguale nell'uomo e nella donna era il piacere del coito, fossero piuttosto gli uomini che seguivano e sollecitavano le donne, di quello che queste gli uomini, rispose: «Questo è stabilito con molto senno, che noi non siamo che cerchiamo gli uomini. È provato che noi donne siamo sempre pronte alla faccenda, voi uomini no. E noi pertanto chiederemmo invano agli uomini quando questi non fossero all'ordine». Acuta e graziosa risposta.

XLVII

DI UN FRATE QUESTUANTE CHE IN TEMPO DI GUERRA
PARLO' DI PACE A BERNARDO

Nella guerra ultima, che i Fiorentini fecero all'ultimo Duca di Milano, era decretato che se alcuno avesse parlato di far la pace fosse punito di morte. Bernardo Manetti che era uomo di ingegno vivacissimo, trovavasi un giorno al Mercato vecchio per comprare non so che cosa, quando gli si fe' innanzi uno di quei frati che vanno per le vie alla questua e che stanno ne' trivii alcun che in elemosina chiedendo pe' loro bisogni. E innanzi di chiedergli l'elemosina, gli disse: «Pax tibi»; e allora Bernardo: «A che parlasti di pace? Non sai tu che va della testa a parlare di pace? Me ne vado», soggiunse, «perché non mi prendano per complice tuo». E così se ne andò, sfuggendo le molestie di quell'importuno.

XLVIII

ISTORIA DI FRANCESCO FILELFO

Eravamo fra amici e si parlava delle pene da infliggersi alle mogli infedeli. Bonifazio Salutati disse che la migliore di tutte era, secondo lui, quella della quale un bolognese amico suo minacciava sua moglie. E poi che noi gli chiedemmo quale essa fosse: «Fuvvi», diss'egli, «un bolognese, uomo molto stimabile, il quale si ebbe una moglie piuttosto generosa, e che qualche volta fu anche meco cortese. Una notte andavo io alla sua casa, quando fuori udii i due sposi che avevano appiccata acerba lite; il marito rimproverava alla moglie la sua impudicizia; questa, come è costume delle sue pari, si difendeva negando; e allora il marito prese a gridare: «Giovanna, Giovanna, io non ti percoterò, non ti bastonerò, ma ti sarò tanto addosso, che empirò la casa di figli, poi ti lascerò sola con questi e me ne andrò». Ridemmo tutti di questa specie così perfetta di supplizio, col quale quello sciocco credeva di vendicarsi della infedeltà della moglie.

XLIX

ISTORIA DI UN SALTIMBANCO NARRATA DAL CARDINALE
DI BORDEAUX

Gregorio decimo secondo, prima di esser Papa e durante il conclave, e anche dopo, aveva fatto promessa di far molte cose per lo scisma che in quel tempo travagliava la chiesa, e per qualche tempo mantenne ciò che aveva promesso, fino a dire che piuttosto che mancarvi sarebbe egli disceso dal Pontificato. Poi si lasciò prendere dalla dolcezza del potere, mancò a' giuramenti e alle promesse, e nulla di quanto aveva detto mantenne. Il cardinale di Bordeaux, che era uomo di grave e grande esperienza, sopportava male questa cosa e un giorno me ne parlava: «Costui», disse, «ha fatto con noi come quel saltimbanco coi bolognesi, il quale avea promesso che avrebbe volato». Ed io lo pregai di raccontarmi la storia. «Poco tempo fa», egli disse, «fuvvi a Bologna un saltimbanco, che con un pubblico avviso annunziò che avrebbe volato da una torre che è verso il Ponte di S. Raffaele a circa un miglio dalla città. Nel dì stabilito il popolo tutto si raccolse in quel luogo, e il saltimbanco si burlò di tutti, lasciandoli al sole e alla fame fin quasi alla sera. Tutti eran sospesi e fissavan la torre, aspettando che l'uomo volasse. E quando egli si mostrava sulla torre ed agitava le ali come se stesse per volare, e pareva slanciarsi fuori, sorgeva un grande applauso nella folla che stava a bocca aperta a guardarlo. E il saltimbanco, dopo il tramonto del sole, tanto per far qualche cosa, voltò al popolo le spalle e gli mostrò il deretano. Così tutti quegli illusi, oppressi dalla fame e dalla noia, se ne tornarono di notte alla città: «nello stesso modo» concluse, «il Papa, dopo tante promesse, ci contenta ora mostrandoci le rotondità posteriori».

L

RISPOSTA DI RIDOLFO A BERNABO'

Si narra di una saggia risposta data da Ridolfo di Camerino. Era Bologna assediata da Bernabò della famiglia dei Visconti, signori di Milano; e Ridolfo, che era un uomo di senno nelle cose di guerra e in quelle della pace, era stato chiamato dal Papa a custodia della città, e si teneva egli dentro le mura a difenderla. Un giorno, in una piccola zuffa, che in una scorreria impegnarono alcuni, al di fuori, e nella quale non era Ridolfo, fu un cavaliere de' Bolognesi fatto prigione, e condotto al campo di Bernabò; e questi, tra le altre cose di cui lo richiese, gli domandò ancora del perché Ridolfo non uscisse a battaglia fuor dalle mura; e il cavaliere, dopo aver detto varie ragioni, fu rimesso in libertà e tornò a' suoi. Allora Ridolfo gli chiese che cosa si facesse nel campo de' nemici, e che gli avesse detto Bernabò, e quale era stata la risposta del cavaliere per scusare in vario modo che egli non fosse uscito dalla città: «E tu», disse allora, «hai molto male risposto: torna tosto da Bernabò e digli che Ridolfo non esce dalla città per impedire a lui d'entrarvi».

LI

ALTRA RISPOSTA FACETA DI RIDOLFO

Lo stesso Ridolfo, nella guerra che i Fiorentini fecero con Gregorio decimo, stavasi or dall'una or dall'altra parte. E interrogato del perché mutasse così spesso bandiera: «Perché», rispose, «non posso a lungo giacere su lo stesso fianco».

LII

COME I FIORENTINI ESPOSERO IL RITRATTO Dl RIDOLFO
COME DI UN TRADITORE

Dopo questo i Fiorentini lo tennero reo di tradimento e la sua effige, come quella del traditore fu posta ne' luoghi pubblici. Dopo qualche tempo egli, udito che i Fiorentini mandavangli messaggi di pace, il giorno in cui questi giunsero, si mise a letto, fe' chiudere le imposte e ordinò che lo coprissero di pellicce e per quanto corresse il mese d'agosto fece accendere il fuoco; e fece poi chiamar gli ambasciatori, i quali gli chiesero che male avesse: «Ho freddo», rispose, «perché sono stato per tanto tempo e anche di notte esposto all'aria sui vostri muri». Con questo egli alludeva alla pittura che i Fiorentini avevano esposta e che poi come condizione della pace venne tolta.

LIII

DI UN TAL CHE FERI' RIDOLFO TIRANDO L'ARCO

Alcuni cittadini di Camerino passavano un giorno il loro tempo esercitandosi fuor dalle mura al tiro dell'arco; e un tale mal destro lanciò la freccia e ferì lievemente Ridolfo, che assisteva di lontano. Costui fu preso, e, fra i vari pareri che si enunciavano su la pena da infliggergli, poiché in questa guisa ciascuno credeva di procurarsi la grazia del Principe, uno propose che gli si tagliasse la mano perché non tirasse più d'arco. Ridolfo comandò che lasciassero l'uomo, dicendo che quella sentenza sarebbe stata efficace se fosse stata eseguita prima ch'egli fosse ferito. Risposta piena d'umanità e di prudenza.

LIV

STORIA DI MANCINI

Mancini, che era un villano del mio borgo, recava carichi di frumento a Figline a some d'asini, che a questo fine egli spesso noleggiava. Una volta, tornando dal mercato, stanco del viaggio, montò su uno dei migliori asini e quando fu presso casa contò gli asini ch'erano innanzi a lui, e non tenendo conto di quello sul quale egli era, gli parve che ne mancasse uno. Angustiato per questo lasciò tutti gli asini alla moglie, dicendole di restituirli a' padroni. E sempre sull'asino tornò al mercato, che distava di là sette miglia, chiedendo ai passanti se per caso avessero trovato un asino smarrito. E poiché tutti negavano, tornò a casa la notte gemendo e lacrimando per averne uno perduto. Ma quando finalmente la moglie gli disse di scendere, s'accorse dell'asino che egli aveva con tanta fatica e così grave dolore cercato.

LV

DI COLUI CHE PORTAVA L'ARATRO SULLE SPALLE

Un altro villano, che aveva nome Pietro, uomo molto rozzo, dopo aver arato fino a mezzogiorno, stancati i buoi, stanco egli stesso per la fatica, ritornava al borgo; legò l'aratro sull'asino, mandò innanzi i bovi ed egli stesso montò sull'asino. Ma questo, carico di troppo peso, stava per cadervi sotto. Allora il villano discese, prese su le spalle l'aratro, poi rimontò sull'asino, dicendo: «Ora potrai camminare, perché non tu, ma io porto l'aratro».

LVI

ELEGANTE RISPOSTA DI DANTE POETA FIORENTINO

Dante Alighieri, nostro poeta fiorentino, fu per qualche tempo ospitato a Verona da Can della Scala, principe molto liberale. Alla sua Corte teneva questi un altro Cane, fiorentino, ignobile uomo, e imprudente e ignorante, non ad altro buono che alla burla ed al riso, e alle sciocchezze del quale (non poteansi chiamare invero facezie) Cane si dilettava tanto, che lo arricchiva di doni. Dante, che era uomo dottissimo, sapiente tanto quanto modesto, disprezzava naturalmente costui come un animale sciocco. Un giorno quel fiorentino venne fuori a dirgli: «Com'è che tu sei tanto miserabile e mendico, tu che sei creduto saggio e dotto, mentre che io sciocco ed ignorante son ricco?» E Dante a lui: «Quando io troverò un signore che mi rassomigli ed abbia il mio costume, come tu ne l'hai trovato, questo mi farà ricco». Grave e sapiente risposta! Ché sempre i signori si dilettano di coloro che li rassomigliano.

LVII

PIACEVOLE RISPOSTA DELLO STESSO POETA

Lo stesso Dante pranzava un giorno fra Cane della Scala il vecchio e il giovane, e i servi d'entrambi, per burlarsi di lui, gli gittarono tutte le ossa di nascosto dinanzi a' piedi; tolta la mensa, tutti si volsero verso di lui meravigliati che solo dinanzi a lui si vedessero le ossa. E Dante, che era pronto alla risposta: «Non v'è da far meraviglia», disse, «se i Cani mangiarono le ossa; io non sono un Cane».

LVIII

DI UNA DONNA OSTINATA
A CHIAMAR PIDOCCHIOSO IL MARITO

Si parlava un giorno della ostinazione delle donne, che è grande da far loro preferire la morte piuttosto che cedere: «Una donna dei nostri luoghi», disse uno, «che era sempre contro al marito, e respingeva rimproverandolo ogni sua parola, ostinandosi in ciò che aveva preso a dire, per essergli sempre al di sopra, ebbe un giorno con lui un grave alterco e lo chiamò pidocchioso: ed egli, perché ritrattasse la parola, la prese a legnate, a calci ed a pugni. E più glie ne dava, più essa chiamavalo pidocchioso. Stancatosi finalmente l'uomo di bastonarla, per vincerne l'ostinazione la calò per una fune nel pozzo, minacciandola d'annegarla se non avesse cessato di dire quelle parole; la femmina continuava, e anche coll'acqua alla gola, quella parola ripeteva. E l'uomo allora, perché ella non parlasse più, la lasciò andar giù nel pozzo, tentando se il pericolo della morte l'avesse guarita dall'ostinazione. Ma essa che non potea più parlare, anche quando stava per soffocare, non potendo più con la voce si esprimeva con le dita; e alzate le mani al di sopra de1 capo, e congiungendo le unghie dei pollici, finché poté, col gesto schiacciò i pidocchi all'uomo; perché le donne sogliono con le unghie di quelle dita schiacciare quegli animali».

LIX

DI UN UOMO CHE CERCAVA
SUA MOGLIE ANNEGATA NEL FIUME

Un altr'uomo, cui era morta la moglie nel fiume, andava contr'acqua a ricercarne il cadavere. Uno che lo vide rimase di ciò meravigliato e lo consigliò di andar secondo la corrente: «In questo modo», rispose l'uomo, « non potrebbe trovarsi; perché quando visse fu tanto contraddicente, e difficile, e contraria alle abitudini degli altri, che anche dopo morte essa andrà contro la corrente del fiume».

LX

DI UN VILLANO

Un servo del duca d'Orléans, uomo rozzo ed incolto, chiedeva al suo padrone che lo facesse nobile. In Francia ciò si può fare comperando dei possessi, e sulle loro terre conducono la vita dei nobili. E il Duca, che conosceva di che natura fosse l'uomo, gli disse: «Io ti potrò facilmente arricchire: ma farti nobile mai».

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