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Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Poggio Bracciolini
LE FACEZIE

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INDICE DEI TITOLI

Vita di Poggio Bracciolini

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PREFAZIONE ALLE FACEZIE di POGGIO BRACCIOLINI
detto
Poggio Fiorentino
e da lui scritta


Che per la povertà dello stile gli invidiosi non devono condannare la raccolta delle facezie

Io penso che saranno molti che daranno biasimo a questi discorsi, sia come cose di niun conto ed indegne de la gravità dell'uomo, sia perché essi vi cercassero maggiore eleganza nel dire e piú animato lo stile. Ma se io loro risponda di aver letto che i nostri maggiori, uomini di grandissima prudenza e dottrina, di giuochi, di facezie e di favole si dilettarono e non si ebbero biasimo ma lode, credo che abbastanza avrò fatto per ricuperare la loro stima. Imperocché chi vorrà credere che io abbia fatta cosa turpe imitandoli in questo, non ponendolo nelle altre cose, e dando a le cure de lo scrivere quel tempo che gli altri perdono ne le società e ne la conversazione, quando principalmente non sia questo lavoro indecoroso e qualche piacere possa dare al lettore? Ed è cosa onorevole ec necessaria anzi, ed ebbero per essa lode i filosofi, sollevare l'animo nostro oppresso da molestie e da pensieri e trarlo alla gioia ed alla allegria con qualche lieta ricreazione. Però ricercare l'alto stile ne le piccole cose, o in queste che si hanno a esprimere con la parole propria e faceta,o per riferire ciò che altri disse, sembra cosa di troppa noia. Poiché vi son certe cose che non amano maggiore ornamento e vogliono invece esser dettate quali vennero da chi parlando le disse

Ed alcuni forse penseranno che questa scusa che chieggo venga da mancanze di ingegno: ed io stesso lo reputo. Ora coloro che sono di questo avviso ripiglino queste favole, le presentino e le rivestano a loro grado, ed io li esorto a farlo, ché la lingua latina in questa nostra età è fatta ricca anche ne le cose leggiere; e l'esercizio di scrivere quelle cose gioverà sempre a la grande arte del dettare. Io stesso volli fare la prova, se molte cose che si riputava non potessero essere scritte in latino, potessero tuttavolta scriversi senza cader nel vile; e non cercai in questo né l'eleganza, né l'ampiezza del dire, ma mi contentai e mi contento che le mie istorie non sembrino malamente narrate.

Del resto, risparmino la lettura di queste conversazioni (è così che le voglio chiamare) tutti coloro che sono troppo rigidi censori e critici troppo acerbi, e come una volta fece Lucilio coi Cosentini e i Tarentini io amo che i miei lettori siano d'animo lieto e sereno. Che se essi invece saran troppo incolti, non ricuso lor di pensar come vogliono, purché non se la prendano con l'autore, che solo per esercitar l'ingegno e sollevar lo spirito scrisse.

NOTA: La traduzione in lingua italiana che segue è quella di autore ignoto, pubblicata dall'editore Sommaruga di Roma nel 1884; essa è stata preceduta da numerose traduzioni cinquecentesche in volgare; nel 1923 l'Editore Formiggini, ne "I Classici del ridere", ripubblicava le Facezie nella traduzione di Cazzamini Mussi.

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I

DI UN POVERO NOCCHIERO DA GAETA

Quelli del popolo di Gaeta vivono quasi tutti sul mare: uno di costoro, il più povero nocchiero del mondo, dopo avere errato per molti luoghi per guadagnare, tornò dopo cinque anni a casa, dove aveva lasciata povera masserizia e la moglie giovane. Appena mise piede a terra, corse a veder la sua donna (che disperando intanto che il marito tornasse, con altro uomo viveva). Entrato in casa e vedendo questa tutta instaurata e ingrandita e abbellita, chiese a sua moglie, come mai quella stamberga, prima tanto brutta, si fosse così mutata. Rispose tosto la moglie, che la era stata la grazia di Dio che dà a tutti gli uomini la ricchezza. «Benediciamo dunque il Signore», disse l'uomo, «che ci ha fatto così gran beneficio». Poi, di sopra, vide la stanza da dormire, con un letto più bello e con tutta la mobilia più elegante di quello che la condizione di sua moglie permettesse; e quando chiese di dove anche tutto questo fosse venuto, ella gli rispose che anche ciò si doveva alla misericordia di Dio; e ringraziò di nuovo il Signore che così generoso verso di lui si era mostrato. Nello stesso modo, quando vide nella casa tutte le altre novità, che sua moglie diceva provenienti dalla munificenza di Dio, e mentre egli restava ammirato di tanta profusione di grazie, sopravenne un fanciullo di più di tre anni, che corse, come fanno i bambini, ad accarezzare la mamma; allora il marito chiese di chi fosse il marmocchio, e la donna gli rispose essere suo. Meravigliato, l'uomo, che fosse venuto fuori un fanciullo, se egli non c'era entrato, la donna rispose sempre che esso proveniva dalla grazia di Dio. Allora non poté contenere lo sdegno per questa sovrabbondanza di grazia celeste, che veniva fino a regalargli dei figli. «Ah, sì», disse, «che lo devo ringraziar molto, il Signore, che si è preso tanto pensiero delle mie faccende!». Gli pareva, povero uomo, che Dio avesse pensato troppo, se gli faceva nascere dei fanciulli mentre egli era lontano.

II
DI UN MEDICO CHE CURAVA I MATTI

Eravamo in molti a discorrere di quella vanità, per non chiamarla stoltezza, che certuni hanno di mantenere cani e falchi per la caccia. Allora saltò su Paolo fiorentino a dire: «Aveva proprio ragione di ridere di loro quel matto di Milano». E poiché noi lo pregammo di raccontarci la storia: «Fuvvi, una volta», egli disse, «un cittadino milanese che faceva il dottore a' dementi ed a' pazzi e che prendeva a guarire in un certo tempo coloro che erano affidati alla sua cura. Ed ecco in qual modo egli la faceva: aveva in sua casa una corte dove era uno stagno di acqua sporca e fetente, nel quale, legati ad un palo, egli immergeva i matti che gli conducevano; e alcuni fino a' ginocchi, alcuni altri fino alle anche, qualcun altro anche più profondamente, secondo la gravezza del male, e li teneva a macerare nell'acqua e nell'inedia fino a che paressergli risanati. Gli fu tra gli altri una volta condotto un tale, che egli mise in quel bagno fino alle cosce, e che dopo quindici giorni ritornò alla ragione e pregava il medico di toglierlo da quel pantano; e questi lo tolse dal supplizio a patto però che non uscisse dalla corte; e quando ebbe per qualche giorno obbedito, lo lasciò passeggiare per tutta la casa, a condizione che non uscisse dalla porta sulla via: intanto i colleghi del matto erano sempre nell'acqua, e il matto osservò diligentemente gli ordini del medico.

Una volta che egli stava sulla porta, né per timore della fossa osava di passarla, vide venire un giovine cavaliere col falco sul pugno, e due di que' cani che servono per la caccia; e poiché non aveva memoria delle cose avvenute o viste prima della follia, gli parve cosa nuova, e lo chiamò a sé; e il giovine venne: «Ohé tu», gli disse, «ascoltami un poco e rispondimi se ti piace: Che è la cosa su cui stai, e per che uso ti serve? «È un cavallo», rispose, «e l'ho per la caccia». «E l'altra cosa che hai sul pugno come si chiama essa e a che è buona? «È un falco educato alla caccia delle arzavole e delle pernici». E il matto: «E quelli che ti accompagnano chi sono e a che ti giovano? «Sono cani», disse, «ammaestrati a snidare la selvaggina». «Sta bene, ma codesta selvaggina per la quale hai pronte tante cose, che prezzo ha quando tu ne abbia cacciato per un anno intero? «Poco ne so», rispose, «ma non credo più di sei ducati». «E quanto spendi tu nei cani, nel falco e nel cavallo?» «Cinquanta ducati». Allora meravigliato della pazzia del giovane cavaliere: «Oh, oh!» disse, «va' lontano di qui tosto prima che il medico torni a casa; perché se ti trova qui, come se fossi tu il più stolto fra i viventi, ti getterà nella fossa per curarti cogli altri matti, e come non fa cogli altri ti metterà nell'acqua sino alla gola». Mostrò così che la passione per la caccia è stoltezza se non è de' ricchi e per esercizio del corpo.

III

DI BONACCIO DE' GUASCI CHE S'ALZAVA TARDI DAL LETTO

Bonaccio de' Guasci, giovane di animo lieto, mentre eravamo a Costanza, sempre tardi sorgeva dal letto. E quando gli amici suoi gli rimproveravano questa pigrizia e gli chiedevano che mai nel letto facesse, egli sorridendo rispondea: «Ascolto la contesa di due litiganti; al mattino quando mi sveglio son presso a me due figure di donna, la sollecitudine e la pigrizia: quella m'esorta ad alzarmi, a muovermi, a non passare il mio giorno nel letto; questa la riprende e mi consiglia a non muovermi, poiché fuori è freddo ed è migliore il calore del letto, e il corpo abbisogna di riposo, né si può lavorare sempre. La prima ripete le sue ragioni; e così, poiché è lungo l'alterco fra loro e la disputa, io, giudice equo, non piego né dall'una parte né dall'altra, ascolto i contendenti, aspetto che si pongan d'accordo. Ed è così che m'alzo tardi, aspettando che sia composta la lite».

IV

DI UN GIUDEO CHE SI ERA PERSUASO DI FARSI CRISTIANO

Molti erano che esortavano un giudeo a farsi cristiano, ma egli non potea risolversi di staccarsi da' suoi beni; e lo assicuravano che se e' li avesse dati a' poveri, secondo la sentenza del Vangelo, che è verissima, avrebbe in cambio ricevuto il centuplo. Persuaso egli finalmente, si convertì alla fede e spartì i beni suoi fra poveri, malati e mendichi. Poi per circa un mese fu con molto onore ospitato e ricevuto da diversi cristiani e tutti lo accarezzavano e lo plaudivano per quel che aveva fatto. Egli intanto che viveva alla giornata, aspettava di giorno in giorno il centuplo che gli avevan promesso, e poiché molti s'eran già stanchi di dar gli da mangiare e gli ospiti si facean sempre più radi, così egli cadde in malattia e venne per questa in fin di vita, per un grande flusso di sangue. Disperava egli ormai della vita, ed ancora della promessa del centuplo, quando un giorno, per desiderio di prender fiato, uscì dal letto e venne per sgombrarsi il ventre sul prato di un vicino; ed ivi vuotatosi, cercava d'intorno delle erbe per detergersi, quando trovò un involto di cenci che molte pietre preziose conteneva. Così si fe' ricco, chiamò i medici, guarì, comprò case e poderi e visse di poi in grande opulenza. E quando tutti gli ripetevano: «Vedi tu, se ti predicevamo la verità, che Dio t'avrebbe restituiti tutti i tuoi beni centuplicati?» «Sta bene», diceva, «egli mi rese il centuplo; ma volle prima ch'io mandassi fuori per disotto sangue fino a morire». Ciò va detto di coloro che son tardi a compiere o a rendere un beneficio.

V

D'UNO SCIOCCO CHE CREDEVA CHE SUA MOGLIE AVESSE DUE COSE

Uno de' nostri paesani, assai poco furbo, e inesperto nelle faccende d'amore, prese moglie. Ora avvenne che una notte nel letto ella volse la schiena e'1 resto al marito, il quale tuttavia colpì nel segno; onde meravigliato oltre misura si fe' a chiedere alla donna s'ella mai avesse due di quelle cose; ed avendo ella risposto che due n'aveva: «Oh, oh», disse l'uomo, «a me una sola basta; l'altra è di troppo». Allora la donna furba, che era amata dal piovano suo: «Possiamo», gli disse, «fare con l'altra elemosina; diamola adunque alla chiesa ed al nostro piovano che ne avrà gran piacere, e a te non verrà in danno, poiché una ti basta». E l'uomo acconsentì e per amor del piovano e per trarsi di dosso quel peso. E così, chiamatolo a cena, e narratogli il caso, dopo in tre sul letto si coricarono, la donna nel mezzo e dinanzi il marito e per di dietro il piovano, affinché si giovasse del dono. I1 prete, affamato ed avido di quella pietanza tanto desiderata, attaccò pel primo la sua parte di combattimento, e poiché la donna se la godeva e lasciava sfuggir qualche rumore, il marito, temendo che il prete non passasse nel campo suo: «Bada», gli disse, «o amico, di stare a' patti e servirti della tua parte e lascia stare la mia». Che Iddio mi aiuti», rispose il prete, «ché la tua non tengo io in gran conto, purché mi possa godere i beni della chiesa». Con queste parole si quietò l'uomo sciocco e invitò il piovano a godersi liberamente della parte ch'egli aveva concesso alla chiesa.

VI

DI UNA VEDOVA ACCESA DI VOGLIA CON UN MENDICANTE

Sono gli ipocriti la gente peggiore del mondo; e un giorno ci parlava di questa genìa in luogo dove io ero presente, e diceasi che essi hanno ogni cosa in grande abbondanza, e che avidi come sono di dignità e di ricchezze, pure simulando e dissimulando pare che gli onori a malincuore ricevano e solo per ubbidienza a' superiori. E uno degli astanti disse: «Rassomiglian essi ad un certo Paolo, uomo santo, che abitava a Pisa; uno di coloro che si chiamano Apostoli e che sogliono sedere alle porte senza nulla domandare»; e a noi che gli chiedevamo chi fosse: «Questo Paolo», disse, «che per la santità della vita era detto il Beato, soleva assidersi alla porta di una vedova, che gli dava in elemosina il cibo. Essa, vedendo spesso costui che era assai bello, se ne invaghì, e un giorno, dopo averlo cibato, gli disse di venir il dì appresso, che gli avrebbe preparato un buon pranzo; e giacché egli venne spesso, così un giorno ella lo invitò ad entrare a mangiare dentro la casa, e avendo egli aderito, e quando ebbe il ventre pieno di cibo e di vino' la donna, matta di voglia, lo prese ad abbracciare e a baciare, giurando di non lasciarlo partire, prima di aver tutto fatto; ed egli finse di non voler sapere del giuoco, anzi di detestare l'acceso desiderio della donna, e alla fine, poiché ella più oscenamente insistette, come se cedesse solo all'importunità della vedova: «Dappoiché», disse, «tu vuoi far tanto male, chiamo Dio testimonio, che tutta tua è la colpa, e che io non ne ho. Tu stessa prenditi questa carne maledetta, e sèrviti come meglio ti piace, ché io non voglio neanche toccarla». E così egli fe' il piacer della donna, e poiché per astinenza non aveva voluto toccare se stesso, lasciò a lei tutto il peccato».

VII

DI UN PRELATO A CAVALLO

Andavo io un giorno al palazzo del Papa, e vidi passare a cavallo uno de' nostri prelati, forse assorto ne' suoi pensieri, perché non si accorse di uno che lo salutava scoprendosi il capo; e questi credendo che ciò provenisse o da superbia o da arroganza: «Ecco là», disse, «uno che non ha lasciato a casa la metà del suo asino, ma che lo porta tutto con sé». Volendo dire che è da asino non rispondere agli atti di riverenza.

VIII

DETTO DI ZUCCARO

Una volta io e Zuccaro - che fu il più ameno degli uomini - passammo per una città, e giungemmo a un luogo dove si celebravano sponsali. Era la domani del giorno che la sposa era entrata nella casa, e noi ci fermammo qualche poco di tempo per assistere alla danza degli uomini e delle donne. Allora Zuccaro disse ridendo: «Costoro hanno consumato il matrimonio, io il patrimonio consumai da lungo tempo». E disse cosa amena di se stesso, ché aveva già venduti i beni di suo padre e tutto il patrimonio suo per dissiparlo alla tavola del gioco.

IX

DI UN PODESTA'

Un Podestà che era stato mandato a Firenze, il dì che entrò nella città, fece com'è d'uso, nella cattedrale, alla presenza de' priori della città, un lungo e noioso discorso; poiché a sua lode prese egli a narrare come già fosse senatore a Roma, e ciò che egli aveva fatto e ciò che gli altri fatto e detto avean di lui; poi descrisse l'uscita sua dalla città e il seguito che l'accompagnava poi, che il dì dopo si recò a Sutri, e disse punto per punto ciò che egli aveva compiuto. E appresso mostrò dove era stato giorno per giorno, e parlò delle persone e de' luoghi dov'era stato ricevuto, e ciò che fatto vi aveva. Erano già di molte ore in questo racconto trascorse, ed egli non ancora a Siena era giunto. Questa eccessiva lunghezza di un discorso noioso aveva stancato tutti gli uditori, che avean ragione di temere che tutto il giorno sarebbe passato in questo modo; e poiché già si avvicinava la notte, un uomo faceto, che era fra gli astanti, venne alle orecchie del Podestà e gli disse: «Monsignore, omai è tardi, e conviene abbreviare il viaggio; perché se voi oggi non entrate in Firenze, giacché oggi stesso vi è prescritto di entrarvi, avrete mancato all'ufficio vostro». Udito ciò, quest'uomo sciocco e ciarlone si affrettò a dire ch'era venuto a Firenze.

X

DI UNA DONNA CHE INGANNO' SUO MARITO

Pietro, mio compatriotta, narrommi un giorno una assai piacevole istoria di un'astuzia che una donna ebbe. Egli aveva relazione con la donna di un villano poco furbo, il quale per fuggire da' creditori passava molto spesso la notte ne' campi. Una sera che l'amico mio era colla donna, il marito, verso il tramonto, improvvisamente tornò a casa. La donna allora, nascosto prontamente 1'amico sotto il letto, si fe' a rimproverare acerba mente il marito, perché era tornato, dicendo che in quel modo egli volea farsi mettere in prigione: «Poco fa», disse , «i fanti del Podestà sono venuti per prenderti e condurti in prigione e hanno tutta la casa perquisita; io ho detto loro che tu di solito passi fuori di casa la notte, ed essi se n'andarono, minacciando però di ritornare ben tosto». I1 pover'uomo, atterrito, cercava il modo di andarsene, ma a quell'ora le porte della città eran chiuse. E la donna: «Che vuoi tu fare infelice? Se ti pigliano, è fatta». E siccome egli tremante la chiedeva di consiglio, essa pronta all'inganno: «Monta», dissegli , «su questa colombaia; tu starai qui questa notte, io chiuderò al di fuori l'imposta, e toglierò la scala, affinché nessuno possa sospettare che sei là». Obbedì egli al consiglio della donna, la quale, chiuso al di fuori lo sportello, affinché non potesse egli più uscire, e tolte le scale, trasse l'amante dal nascondiglio. Questi, fingendo che i fanti del Podestà fossero ritornati, vocianti in gran numero, e la donna ancora che pregava pel marito, finirono con colmar di terrore il pover'uomo nascosto; poi, quetato il tumulto, entrambi in letto si coricarono e diedero a Venere la notte; il marito rimase fra lo sterco e i piccioni.

XI

DI UN PRETE CHE IGNORAVA IL GIORNO DELLA
SOLENNITA' DELLE PALME

È Aello un borgo molto campestre, ne' nostri Appennini; in esso abitava un certo prete, più rozzo e più ignorante degli stessi paesani; e siccome non conosceva egli le tempora e le stagioni dell'anno, così mai al popolo annunziò la quaresima. Venne costui a Terranova per il mercato, che ivi si tiene il sabato prima della festa delle Palme; vide i preti che preparavano i rami d'olivo e le piccole palme, per il dì seguente, e, meravigliato prima della cosa, conobbe di poi l'error suo e che la quaresima era passata senza che i parrocchiani suoi l'avessero osservata. Tornò al suo borgo, preparò i rami e le palme per il dì veniente, e la domenica, convocati i fedeli: «Oggi», disse, «è il giorno, che per uso si dànno i rami d'olivo e le palme; fra otto dì è la Pasqua; non dovremo adunque quest'anno protrarre a lungo i digiuni, poiché per questa settimana soltanto s'ha a far penitenza; ed eccovi la ragione: fu quest'anno il carnevale tardissimo e lento a cagione del freddo, e perché il viaggio per questi monti gli fu difficile, per l'asperità de' sentieri, per questo la quaresima faticò e stentò a venire e non poté recar seco che una settimana sola, avendo lasciate le altre per via; venite adunque alla confessione in questo po' di tempo che vi rimane, e fate tutti penitenza».

XII

DI ALCUNI CONTADINI AI QUALI VIENE CHIESTO DALL'ARTEFICE SE VOLESSERO IL CRISTO, CHE DOVEAN PER INCARICO COMPRARE,
VIVO O MORTO

Da questo stesso borgo furono mandati alcuni ad Arezzo, per comprare un crocifisso di legno, che dovea esser posto nella Chiesa, ed essendo essi venuti ad uno che vendea queste cose, quando s'accorse d'aver che fare con uomini zotici ed ignoranti oltremodo, l'artefice per cavarne da ridere, udita la domanda, chiese se il crocifisso volessero vivo o morto; essi presero tempo per consigliarsi, discussero piano fra loro e conclusero che lo preferivano vivo; ché, se così non fosse piaciuto a' loro compaesani, l'avrebbero essi in un attimo ucciso.

XIII

MOTTO DI UN CUOCO ALL'ILLUSTRISSIMO DUCA DI MILANO

I1 vecchio Duca di Milano, principe di singolare eleganza in tutte le cose, aveva un cuoco sapiente che egli aveva perfino mandato in Francia a ciò che apprendesse ad apprestare intingoli. Durante la grande guerra che egli sostenne contro i Fiorentini, venne un giorno al Duca messaggio di cattive nuove e fu per questo grandemente turbato; e, dopo qualche momento, a tavola, essendogli presentate pietanze, delle quali non so perché disapprovasse il sapore, come se non fossero ben condite, le cacciò da sé, e fatto venire il cuoco, lo rimproverò aspramente come inetto nell'arte sua; e costui, che parlava liberamente: «Se i Fiorentini», disse, «vi han tolto il gusto e l'appetito, che colpa ci ho io? Sono i miei piatti saporiti e con grandissima arte composti, ma sono i Fiorentini, monsignore, che vi riscaldano e vi tolgon la fame». E i1 Duca, che era oltre ogni dire umano, rise della libera e allegra risposta del cuoco.

XIV

DETTO DELLO STESSO CUOCO AL MEDESIMO ILLUSTRE PRINCIPE

Lo stesso cuoco, durando la guerra di cui sopra s'è detto, scherzò anche un'altra volta alla tavola del Duca, un giorno ch'e' lo vide angustiato ed assorto ne' pensieri: «Non mi meraviglio», disse, «di vederlo tanto afflitto; imperocché egli va verso due cose impossibili; vorrebbe egli non aver frontiere, poi vorrebbe ingrassare Francesco Barbavara, uomo di tanta ricchezza e ardente di tanta avidità». Così il cuoco scherzava e sulla smoderata voglia di dominio del Duca e sulla cupidigia d onori e di ricchezze di Francesco Barbavara.

XV

DOMANDA DEL DETTO CUOCO AL PREDETTO PRINCIPE

Lo stesso cuoco, vedendo che moltissimi sollecitavano i favori del principe, una sera, mentre questi cenava, lo pregò di volerlo in asino mutare. Meravigliato il Duca di sentirsi fare una tale domanda, e richiestolo del perché egli preferisse più d'esser asino che uomo: «Perché», disse, «io vedo che tutti coloro che voi avete messo in alto, ai quali voi deste e magistrature ed onori, sonsi talmente gonfiati di superbia, e tanto insolenti si son fatti, da divenir asini davvero. E così desidero che voi asino mi facciate».

XVI

DI GIANNOZZO VISCONTI

Antonio Lusco, uomo di molta sapienza e di una grande gaiezza, una volta che un tale di sua conoscenza gli fe' vedere una lettera del Papa, gli disse di correggerla e di ritoccarla in certi punti; l'altro il dì dopo gliela riporto tal quale, e Lusco vedutala, gli disse: «Tu m'hai preso per Giannozzo Visconti». E una volta che noi gli chiedemmo ciò che questo detto significasse: «Giannozzo», disse, «fu già nostro podestà di Vicenza; ed era un ottimo uomo, ma rozzo e grasso di ingegno e di corpo; egli chiamava spesso il suo segretario e gli faceva scrivere lettere al vecchio Duca di Milano, e gli dettava egli stesso la parte de' complimenti; il resto lo lasciava scrivere dal segretario che dopo poco tempo gli recava la lettera. Giannozzo prendeva a leggerla, e la trovava sempre sconcIusionata e malfatta. Così non va bene, gli diceva, va' e correggila. I1 segretario, che conosceva l'uso e la stoltezza del padrone, tornava poco dopo con la stessa lettera, senza avervi alcuna cosa mutata, dicendo d'averla e corretta e ricopiata. Allora Giannozzo la prendeva in mano, come per leggerla vi gettava su gli occhi e diceva: Ora la lettera va bene; va' dunque: apponvi il sigillo e mandala al Duca. E così era egli solito fare di tutte le lettere».

XVII

DI UN CONFRONTO COL SARTO DEL VISCONTI

Aveva Papa Martino incaricato Antonio Lusco di scrivere certe lettere, e, dopo averle lette, ordinò che fossero fatte vedere ad un o de' nostri amici, del quale egli aveva gran de stima; e questi, essendosi nella cena un po' riscaldato pel vino, non approvò le lettere e disse che dovean esser rifatte. E Antonio a Bartolommeo de' Bardi, che si trovava presente, disse: «Io rifarò le lettere nello stesso modo con cui il sarto di Gian Galeazzo Visconti allargò a questo le brache; tornerò domani pria ch'egli abbia mangiato e bevuto, e le lettere andranno bene». Bartolommeo gli chiese che cosa volesse con ciò significare: «Giovan Galeazzo Visconti», disse Antonio, «padre del vecchio Duca di Milano, era uomo di grande statura, pingue e corpulento; spesso costui s'imbottiva il ventre di gran cibo e di abbondante vino, e quando dopo cena iva a coricarsi faceasi chiamare il sarto e questo acerbamente rimproverava perché gli avesse fatta troppo stretta la cintola delle brache, e gli imponeva di allargarla in modo da toglierli quella molestia; e il sarto rispondeva: Sarà fatto come voi comandate, domani andrà perfettarnente. Poi prendeva la veste, e l'attaccava senza fare altra cosa. E quando gli altri gli dicevano: Perché dunque non allarghi le brache che stringon troppo il ventre di monsignore? egli rispondeva: Perché monsignore si leverà dal letto che avrà digerito, si sgombrerà il ventre e le brache saranno larghissime. E alla mattina gliele portava e il duca diceva: Ora sta bene: non mi stringon da veruna parte». Nella stessa guisa affermava Antonio che le sue lettere sarebbero dopo il vino piaciute.

XVIII

LAMENTI CHE FURON FATTI A FACINO CANE
PER CAUSA DI UN FURTO

Un tale andò a lamentarsi da Facino Cane, che fu un uomo crudele ed uno de' migliori capitani del nostro tempo, perché uno de' suoi soldati gli aveva per via rubato il mantello. E avendo visto Facino che egli era vestito di un bellissimo corpetto, gli chiese se questo egli avesse avuto il giorno in cui fu derubato. E l'altro rispose affermando. «Vattene adunque», disse Facino, «che colui che ti ha spogliato non può essere uno de' miei soldati; perché nessuno de' miei ti avrebbe lasciato codesto corpetto».

XIX

ESORTAZIONE DI UN CARDINALE A' SOLDATI DEL PAPA

Durante la guerra che il Cardinale Spagnuolo sostenne contro i nemici del Pontefice, quando un giorno i due eserciti si trovaron di fronte nell'Agro Piceno, e che dovevansi dar battaglia decisiva, il cardinale eccitava con molte preghiere i soldati al combattimento e affermava che coloro che vi fossero morti avrebbero pranzato con Dio e cogli angioli; e perché di miglior grado si facessero ammazzare, prometteva loro remissione di tutti i peccati. Poi, fatta questa esortazione, si ritirò lontano dalla pugna; e allora uno dei soldati: «Perché dunque», gli chiese, «non venite con noi a questo pranzo?» Ed egli: «Io non son solito di pranzare a quest'ora, non ho ancora appetito».

XX

RISPOSTA AL PATRIARCA
Il Patriarca di Gerusalemme, che dirigeva la cancelleria apostolica, avendo un giorno, per la discussione di una certa causa, radunati gli avvocati, rimproverò alcuno di questi con non so quali acerbe parole. E poiché Tommaso Biraco gli aveva risposto per tutti, il Patriarca, rivolto verso di lui, disse: «Avete una cattiva testa». E Biraco, ch era uomo faceto e pronto alla risposta: «Voi ben avete detto», rispose, «e nulla di più vero poteasi dire; perché se io avessi una buona testa, gli affari sarebbero in migliore stato, né sarebbe questa discussione necessaria». «Riconoscete adunque il vostro errore», disse il Patriarca. E Biraco: «Non parlo di me, ma della testa». Alludeva egli argutamente al Patriarca che era alla testa di tutti gli avvocati, il quale si sapeva aver la testa un po' dura.

XXI

DI PAPA URBANO VI

Un altro nello stesso modo scherzò con Urbano, che fu il sesto Papa di questo nome. Un giorno che egli un poco troppo acremente si opponeva non so per quale ragione al Pontefice: «Avete una cattiva testa», gli disse Urbano. «La stessa cosa», rispose, «dicono di voi gli uomini del popolo, padre santo.»

XXII

DI UN PRETE CHE IN LUOGO DI PARAMENTI SACERDOTALI
PORTO' DEI CAPPONI AL VESCOVO

Un Vescovo di Arezzo, di nome Angelico, che io ho conosciuto, convocò una volta al Sinodo i sacerdoti della sua diocesi, ingiungendo che coloro che avessero qualche dignità vi andassero in cappa e cotta, che sono due ornamenti sacerdotali. Un prete, cui mancavano queste vesti, stavasi afflitto a casa sua, non sapendo dove 1e avesse potuto domandare. La serva, a vederlo pensieroso e col capo basso, gli chiese la ragione del dolore; ed egli le disse che il Vescovo aveva indetto di andare al Sinodo in cappa e cotta: «Ma voi, mio buon padrone», gli rispose la serva, «non conoscete la forza di quest'ordine. Non è la cappa e la cotta che il Vescovo domanda e che voi dovete portare, sibbene dei capponi cotti». I1 prete cedette al consiglio della donna, e portando seco i capponi cotti, fu assai cortesemente ricevuto dal Vescovo, il quale diceva ridendo, che questo prete soltanto aveva ben capito l'ordine dell'editto.

XXIII

DI UN AMICO MIO CHE SI AFFLIGGEVA CHE MOLTI GLI ANDASSERO INNANZICH'ERANO A LUI INFERIORI PER PROBITÀ E PER DOTTRINA

Nella Curia Romana domina quasi sempre la fortuna e rarissime volte solo vi trovano posto l'ingegno e la virtù; ma tutto si ha per ambizione o per intrigo, senza parlar del denaro, che in vero pare aver dominio su tutto il mondo. Un mio amico, che si affliggeva che molti gli andassero avanti a lui inferiori per probità e per dottrina, si lamentava con Angelotto Cardinale di San Marco, di non avere nessuna ricompensa della sua virtù e di vedersi posposto a chi non gli arrivava in nessuna cosa. E parlò degli studi che avea fatti e delle fatiche spese a studiare. Allora il Cardinale, sempre pronto a sferzare i vizi della Curia: «La vostra scienza e la vostra dottrina», gli disse, «non giovano a niente, e se volete essere ben accetto al Pontefice, disimparate ciò che sapete e apprendete i vizi che ignorate».

XXIV

DI UNA FEMMINA MATTA

Una femmina del mio paese, che pareva matta, era condotta da suo marito e da' parenti a una certa fattucchiera, per opera della quale credeasi di poterla curare; e per passare l'Arno la posero a cavalcioni dell'uomo più forte; ma ecco in questa ella imprese a muoversi sulle spalle dell'uomo similmente a' cani in calore, e a gridare ripetutamente: «Io voglio l'uomo, suvvia, datemi l'uomo». E con queste parole mostrò la ragion del suo male. Colui che la portava scoppiò a rider sì forte che cadde con la donna nell'acqua; e tutti gli altri ne risero, e conobbero che a medicar quel male non eravi bisogno d'incantesimi, ma di quell' altra cosa, e con questa sarebbe ella tornata in sanità; e volti verso il marito: «Tu, dissero, sei il miglior medico di tua moglie». E se ne tornarono tutti, e dopo che il marito fu seco e la contentò, ella tornò sana di mente. Questo, del resto, è il miglior rimedio della pazzia delle donne.

XXV

DI UNA DONNA CHE STAVA SULLA RIVA DEL PO

Sopra una piccola nave recavasi a Ferrara, insieme con alcuni uomini della Curia, una di quelle donne che fan servizio agli uomini. Una donna allora che stava sulla riva del Po, disse: «Matti che voi siete; credete forse che a Ferrara vi sian per mancar meretrici, quando là ne troverete tante, più che donne oneste a Venezia?».

XXVI

DELL'ABATE DI SETTIMO

L'abate di Settimo, uomo pingue e corpulento, recavasi una sera a Firenze, e per la via chiese ad un villano per qual porta dovesse egli entrare; l'abate intendeva di chiedere qual porta fosse aperta ancora per venire nella città. E il villano, scherzando su la grossezza dell'abate: «Se passa un carro di fieno», disse, «penso che anche voi passerete la porta».

XXVII

LA SORELLA DI UN CITTADINO DI COSTANZA È GRAVIDA

Per dimostrare quanta libertà molti si godessero al Concilio di Costanza, un nobile vescovo di Brittania raccontò il fatto seguente: «Vi fu», disse, «un cittadino di Costanza, la sorella del quale era gravida, per quanto non avesse marito; ed egli, quando s'accorse della grossezza del ventre, afferrata una spada, e minacciandola di ucciderla, chiese che cosa ciò fosse, e donde provenisse. Atterrita allora la fanciulla, rispose che era opera del Concilio e che di questo ella era gravida: e quando queste cose il fratello ebbe udite e per riverenza e per timor del Concilio non punì la sorella; e mentre tutti gli altri vi cercavano tante diverse libertà, egli fra queste poneva per prima quella di fare all'amore».

XXVIII

DETTO DI LORENZO PRETE ROMANO

I1 giorno in cui il Papa Eugenio fece cardinale il romano Angelotto, un prete della città, di animo ilare e che aveva nome Lorenzo, tornò a casa giubilante, tutto pieno di letizia e di riso; e quando i vicini gli chiesero che cosa di nuovo gli fosse venuto, che egli era così lieto e vivace: «Stupendamente», rispose, «ho io adesso le più grandi speranze; e poiché gli sciocchi ed i matti si fanno cardinale, e Angelotto è più matto di me, così verrò io stesso della sacra porpora insignito».

XXIX

CONVERSAZIONE CON NICCOLO' D'ANAGNI

Anche Niccolò d'Anagni quasi in questo stesso modo rise di Papa Eugenio, il quale, egli diceva, non favoriva che gli ignoranti e gli stolti. Un dì che in parecchi eravamo al palazzo, e si discorreva in varie cose, come si fa, ed alcuni si lamentavano della iniqua fortuna, e di averla sempre avversa ne' loro affari, Niccolò, ch'era uomo dottissimo, per quanto di ingegno leggiero, e di lingua mordace: «Non vi è», disse, «nessuno al mondo, cui più che a me sia stata la fortuna nemica; in questo tempo, nel quale è la stoltezza che regna, noi vediamo tutti i giorni elevati alle più ampie dignità ed a' maggiori offici e i dementi e gli sciocchi; e fra essi fino Angelotto vedemmo. Io soltanto sono fra il numero de' dementi lasciato in disparte, io solo posso essere cosi maltrattato dalla sorte».

XXX

DI UN PRODIGIO

Quest'anno la natura ha fatto nascere molti mostri in diversi luoghi. Nel territorio di Sinigalia, che è nel Picentino, una vacca ha partorito un dragone di meravigliosa grandezza. Aveva la testa più grossa di quella d'un vitello, il collo lungo come un braccio, e il corpo come quello di un cane, ma più lungo; quando l'ebbe fatto, la vacca si volse, e vedutolo, diede in un gran muggito e voleva fuggire, e il dragone s'alzò, le avvinghiò le gambe di dietro con la coda, avvicinò la bocca alle mammelle, e vi succhiò il latte; poi, lasciata la vacca, si fuggì nella foresta vicina; dopo ciò, le mammelle, e quella parte delle gambe ch'era stata tocca dal dragone, rimasero nere e come bruciate per molto tempo. Questo hanno affermato i pastori, giacché quella vacca era di un armento; e dissero ancora che di poi la vacca aveva fatto un altro vitello. Questo è annunziato in una lettera che vien da Ferrara.

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