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Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Storia della facezia fino al metà del Cinquecento

Giovanni Fabris

Questo saggio del Fabris è la prefazione all'opera "Lodovico Domenici - Facezie" pubblicata dall'editore Formiggini nel 1923 nella Collana Classici del Ridere.

Una forma d'arte così modesta e senza pretese com'è la facezia pare che finora non abbia troppo richiamato sopra di sé l'attenzione degli studiosi italiani, se è vero che nessuno ancora si è occupato della storia di questo genere, né ha pensato di colmare la lacuna, esistente in tutte le nostre collezioni di scrittori classici, con una scelta di facezie. Nel dare alla luce il presente volume, riteniamo quindi doppiamente opportuno premettere alcuni cenni sulla storia del genere cui appartiene la raccolta del Domenichi, onde se ne comprenda meglio la genesi.
Se l'origine della facezia si confonde con quella del linguaggio, è però evidente che l'arguzia dové trionfare, quando maggiore era l'intensità e la raffinatezza del vivere sociale, poiché allora i geniali ritrovi e le gentili costumanze, oltre che fornire materia alle conversazioni, servivano di eccitamento e di stimolo alla fantasia.
Son passati in proverbio gli attici sales, di cui un'eco non trascurabile è arrivata fino a noi nella comedia aristofanesca, e l'eironeia, che formava l'essenza e il condimento delle dispute socratiche, rientra anch'essa nell'ambito della facezia, anzi ne è una varietà molto comune, come quella che consiste in una finzione o dissimulazione per trarre altrui in inganno o beffardo. Né fa meraviglia che presso i greci, i quali ebbero in così grande onore l'arte della parola da farne la principale loro aspirazione, sì nella vita pubblica che nella privata, la facezia e l'arguzia incontrassero largo favore.
Tali elementi penetrarono ben presto nelle opere letterarie, così che noi li troviamo sparsi abbondantemente negli scritti dei grandi prosatori dell'età classica; alquanto più tardi sorsero i raccoglitori, i quali però, oltre che alle opere letterarie, attinsero largamente alla tradizione popolare. Così ebbero origine le prime raccolte di apoftegmata, che furono qualche cosa di mezzo fra gli apomnemoneumata e gli skommata. Negli apoftegmi (o apotegmi, come spesso trascritto in italiano) abbiamo già, insieme con l'aneddoto storico, la facezia vera e propria; infatti il contenuto dell'apoftegma varia a seconda della condizione e del grado del personaggio cui viene attribuito; ai prìncipi, e in genere agli uomini illustri, si sogliono attribuire detti e fatti che destano più la meraviglia che il riso, mentre avviene il contrario quando si tratti di semplici privati. Però né la meraviglia né il riso sono sempre fine a sé stessi, ma servono molto spesso a un intento educativo più o meno palese. Ad ogni modo il carattere più appariscente, quantunque affatto esteriore, dell'apoftegma è la brevità concettosa, per cui questo genere presenta una innegabile affinità con l'epigramma, anzi in molti casi questo non è che un apoftegma versificato. Si distingue tuttavia dall'epigramma per un maggiore sviluppo consentito all'elemento narrativo, che, pur non essendo essenziale, - poiché molti apoftegmi sono piuttosto sentenze, massime e moralità che brevi narrazioni, - è quello che ha la maggiore importanza.
L'apoftegma è dunque di regola un breve tratto narrativo, il quale, a seconda che desta più la meraviglia o il riso, può mostrare più manifesto l'intento di ammaestrare o di ricreare, senza che questo escluda necessariamente quello, conciliandosi invece assai spesso, nei più perfetti esempi del genere, l'utile col dilettevole.
Ma di apoftegmi greci dell'età classica appena un saggio si può dire che sia arrivato fino a noi in due scritti di Senofonte: i Memorabili e il Convito. Eppure che tale produzione fosse ricchissima, si può facilmente arguire dal fatto che Aristotele sentì il bisogno di trattarne in alcuna delle sue opere retoriche, mentre nell'Etica Nicomachea, toccando del motteggiare, fra i due vizi opposti della buffoneria (bomolochia) e della rusticità (agroichia), pose nel giusto mezzo la virtù della lepidezza (eutrapeleia); ad ogni modo in mancanza di altre basterebbe da sola la testimonianza di Cicerone, il quale accenna ai trattati greci perì gheloion, come a qualche cosa di comunissimo. Del resto si capisce che, essendo l'attualità il principale e più importante carattere di tali scritture, quando questo veniva a mancare col tempo, veniva anche a cessare, per così dire, la ragione della loro esistenza; egli è per ciò che il tempo fece strage di questi certo curiosi documenti dello spirito de' greci.
Ciò che si è detto dei greci vale in parte anche pei romani. Dell'indole arguta e mordace del popolo di Roma antica la più notevole testimonianza è nella comedia di Plauto, dove i frizzi e le arguzie sono sparsi in abbondanza. Per quanto poi riguarda gli apoftegmi in particolare, i romani dovettero distinguersi dai greci non solo per una quasi tersitiana mordacità, ma anche per non aver voluto o saputo mantenere quel giusto equilibrio fra l'elemento serio e il ridicolo, che faceva parere insulsi a Cicerone gli esempi addotti dai greci nei loro trattati.
Come M. Porcio Catone aveva raccolto e pubblicato motti arguti di altri, così furono presto raccolti e pubblicati i suoi, dandosi in questo modo principio e fondamento a quella tradizione per cui il suo nome s'incontra più tardi in capo ad una popolarissima silloge, che, dopo il sesto secolo dell'era cristiana, andava per tutte le scuole.
Ma i prìncipi dell'arguzia romana furono senza dubbio Cicerone e Cesare; e come il grande oratore, trattando, sull'esempio dei retori greci, delle fonti del riso, fece sfoggio di una copiosa esemplificazione originale, così il grande capitano, nelle ore d'ozio, andava raccogliendo facezie e aneddoti riferentisi a personaggi illustri del suo tempo, tanti da metterne insieme dei libri, quelli che Cicerone ricorda col titolo greco di apoftegmi e Svetonio con quello latino di dicta collectanea.
Inoltre delle facezie e motti di Cicerone furono anche, come attesta Quintiliano, composti più libri a cura del fratello di lui Quinto e del liberto Tirone; e di questi Quintiliano ci dà qualche saggio nel libro delle sue Institutiones dove, ad esempio del suo grande maestro, tratta delle fonti del riso. Cicerone dovè peccare talvolta di quell'eccesso che Aristotele chiamava bomolochia, se è vero che i suoi avversari lo chiamavano consularem scurram, e se Catone stesso, che era tra gli accusatori di Murena, costretto suo malgrado a ridere, mentre assisteva alla brillante difesa di Cicerone, poté esclamare: "Dii boni, quam ridiculum habemus consulem!" Cesare invece dové distinguersi per la brevità efficacissima dei suoi motti, dei quali ci restano, esempi tipici, il perge audacter, il veni vidi vici, il alea iacta est.
Anche l'imperatore Augusto ebbe fama di uomo arguto e un saggio delle sue facezie ci offre Quintiliano. Inoltre al liberto di lui, C. Melisso di Spoleto, sono attribuiti da Svetonio grammatico ben 150 libelli ineptiarum o, conce s'intitolavano veramente, iocorum, e certo per quest'opera Plinio lo cita fra le sue fonti pei libri VII, IX-XI, XXXV delle sue Storie, nei quali spira tuttavia un certo senso quasi moderno di pessimismo, in aperto contrasto colla materia trattata da Melisso. E, pure nell'età augustea, il giureconsulto A. Cascellio avrebbe messo insieme un libro di motti; mentre, sotto l'impero di Tiberio e di Nerone, pubblicò dei libri di facezie l'oratore Domizio Afro e, alquanto più lardi, lo storico Tacito.
Però di tutte queste raccolte nessuna è arrivata fino a noi, e non è lieve perdita, perché anche tal genere di scritti ha, a parer mio, la sua importanza. La più antica e singolare raccolta di detti e fatti arguti e notabili, fino a noi pervenuta, è rappresentata dagli A p o f t e g m i famosi, che Plutarco dedicò all'imperatore Traiano e che furono tra i libri più fortunati dell'antichità. Da questi, dalle Istituzioni di Quintiliano e insieme da altre fonti, che ci sfuggono, attinse Aulo Gellio le facezie da lui sparse nelle Notti Attiche. Così dalle satire di Petronio si potrebbe raccogliere un buon manipolo di facezie, se convenisse prendere in esame anche opere d'indole più generale che non siano i trattati del riso e le vere e proprie raccolte di facezie.
Importantissimo invece, per la storia del genere, è il secondo libro dei Saturnali di Macrobio, il quale, insieme con altre, sfruttò largamente la raccolta dei motti ciceroniani. Questo libro è in forma di dialogo conviviale, i cui interlocutori vanno a gara nel riferire per ispasso motti e facezie, durante le lunghe serate dei Saturnali. "Questa materia - osserva melanconicamente l'autore - che sembrò degna di studio agli antichi, oggi è trascurata affatto"; perciò egli, facendosi forte appunto dell'esempio di Catone e di Cicerone, raccoglie in cinque capitoli un'abbondante mèsse, che distribuisce in tanti gruppi, quanti sono i personaggi cui i detti si riferiscono.
Ora, mentre l'opera notissima di Valerio Massimo si ricollega colla tradizione più severa degli apomnemoneumata , questa di Macrobio è la più ampia e originale raccolta di facezie romane.

Del resto apoftegmi più o meno arguti si trovano sparsi, e talora abbondantemente, non solo nelle opere di storici e biografi appartenenti a tempi diversi, ma, anche più frequentemente, in quelle compilazioni di notizie biografiche e letterarie cui sono raccomandati i nomi di Diogene Laerzio, Filostrato, Ateneo, Stobeo, Snida e simili. Inoltre, per tacere degli scritti di Luciano, nei quali il brio e l'arguzia sono, si puòdire, compenetrati col pensiero, basterà qui far menzione di Eliano, la cui Varia Historia, così diffusa e ricercata nel medio evo, contiene un nuovo elemento, che entrerà poi a far parte della facezia, cioè il meraviglioso.
Però, fra tutte queste compilazioni, che per la loro indigesta e frammentaria erudizione preludono alle prime enciclopedie, le vite dei sofisti, narrate da Filostrato, sono quelle che hanno col genere della facezia più stretta affinità. Vi trovi infatti intere serie di motti, il più delle volte arguti e piacevoli, attribuiti a un determinato personaggio. Di Diogene il cinico specialmente, che a detta del suo biografo, "era destrissimo nella prontezza delle risposte e, cogliendo nel segno, dava di belle botte", si narrano certi motti che ebbero, come parecchi altri dei cinici, tanta fortuna da arrivare, spesso ripetuti con le stesse parole, fino alle raccolte cinquecentesche. Accanto a Diogene di Laerte e a Filostrato, merita poi speciale menzione, per una curiosa silloge di facezie, il filosofo neoplatonico Jerocle, che, verso la metà dei sec. V, teneva in Alessandria una scuola fiorentissima.
Raccolte speciali di apoftegmi sono frequenti nella letteratura patristica, notissima fra tutte quella del monaco Arsenio; ma in tali apoftegmi lo spirito festevole e gaio dell'età classica è soffocato completamente dallo spirito mistico.
Tuttavia il primo si conserva tra il popolo, per rivivere poi in forme d'arte, al sorgere delle nuove letterature, nei fabliaux, nelle biografie di trovatori, nelle cronache. Frà Salimbene c'informa, ad esempio, che Federico II "derisiones et solatia et convitia ioculatorum sustinebat et audiebat impune" , a somiglianza di Augusto, e narra che una volta l'imperatore, trovandosi a Cremona dopo la rotta inflittagli dai Parmigiani nel luogo stesso, ove egli intendeva erigere una città col fatidico monte di Vittoria, picchiò leggermente colla mano sulla gobba di un suo buffone di nome Dallio, domandandogli per burla: - Signor Dallio, quando apriremo noi codesto scrignetto? - E il buffone gli rispose: - Maestà, credo che non si possa aprire così facilmente, perché ho perduto la chiave nella vittoria! - Dallio era ferrarese, conoscente ed amico dell'autore, e, avendo sposato una di Parma, s'era stabilito in questa città.
Nuovi elementi penetrarono nella facezia da compilazioni popolarissime, come la Legenda aurea, i Gesta romanorum, l'Alphabetum narrationum, il Liber exemplorum, per ricordare solo le più notevoli. Ma, soltanto col risorgere degli studi classici e per influenza delle antiche raccolte di apoftegmi, la facezia riacquista vita indipendente. L'aneddoto dantesco di Pisistrato è tradotto quasi alla lettera da Valerio Massimo, al quale si ricollegano pure i quattro libri Rerum Memorandum del Petrarca, dove gli ammaestramenti sono accompagnati anche da esempi desunti dalla storia contemporanea. Ma si tratta, in generale, di detti e fatti notabili e gravi, che esulano dal campo della facezia.
La storia di questo genere, nei primi secoli della nostra letteratura, si confonde con la storia della novella e, insieme con l'autore del Novellino, il Boccaccio e il Sacchetti ne sono i più legittimi rappresentanti. È quasi superfluo ricordare la sesta giornata del Decameron, dove "si ragiona di chi, con un leggiadro motto, tentato si riscosse, o, con pronta risposta o avvedimento, fuggì perdita o pericolo o scorno". Qui siamo proprio nel nostro territorio; prova ne sia che la famosa novella del cuoco veneziano Chichibio fu ospitata in più di una raccolta di facezie. Ma il Boccaccio, come quello che possedeva un delicato senso dell'arte, non trascura, per amor di brevità, i caratteri dei personaggi e, preoccupato sempre dalle esigenze della verosimiglianza, dà anche a questi temi una certa ampiezza di sviluppo, che contrasta con quel carattere che noi dicemmo essere distintivo della facezia.
Con questa hanno invece più palese attinenza certe novelle del Sacchetti, le quali sono né più né meno che motti o burle, cioè, secondo la partizione aristotelica, accettata pur da Cicerone, facezie di parole o facezie di cose. Del Sacchetti ricorderemo specialmente le novellette e i detti di messer Ridolfo da Camerino "piacevoli e con gran sostanza", le sentenze di messer Rubaconte podestà di Firenze, la novella delle lenzuola bianche di Basso della Penna, quella di Vitale da Pietrasanta e di Santa Gonda, non senza far notare che, proprio nel libro dell'arguto fiorentino, si presenta per la prima volta la figura del Gonnella, in una fortunatissima storia che, pel tramite della tradizione popolare, arrivò fino a noi, e in altre ancora.
Ma solo nel pieno fiorire dell'umanesimo appaiono quelle raccolte di detti e fatti, che hanno colle facezie assai stretta affinità.
Pertanto i Memorabili di Senofonte ispirarono al Panormita i quattro libri De dictis et factiss Alphonsi regis Aragonum, i quali non contengono solo brani "notabili e gravi" ma qua e là anche "arguti e piacevoli " come gli antichi apoftegmi.
La fama del dotto re, mercé gli scritti degli umanisti, che egli proteggeva e donava largamente, ebbe straordinaria divulgazione, e a ciò contribuì, sopra tutto, l'operetta del Panormita, suo confidente e sincero ammiratore. Inoltre Enea Silvio Piccolomini, due anni prima di salire al pontificato, trovandosi a Napoli, ebbe dall'amico umanista in esame quello scritto e, più per indurre il re a concedere ai senesi la pace, che per ispirito di emulazione, vi aggiunse un Commentario. Né la materia doveva fare difetto all'autore della popolarissima storia di due amanti, che aveva viaggiato più di mezza Europa e che, nel Concilio di Costanza, nella cancelleria di Federico 111 e poi nel vescovado di Trieste, aveva avuto agio di conoscere tanti illustri personaggi stranieri. Detto commentario ai libri del Panormita, in cui la materia è distribuita con uguale simmetria e gli esempi son contrapposti agli esempi, riuscì infatti di gran lunga superiore al modello, per quanto riguarda l'arguzia e lo spirito.
Nessuna meraviglia dunque che parecchie facezie e aneddoti dell'umanista-pontefice incontrassero grande favore ed entrassero beni presto nelle raccolte di facezie nostrane e forestiere.
La facezia moderna incomincia ad avere una storia, come genere indipendente, verso la metà del sec. XV per opera di Poggio Bracciolini, l'insigne umanista fiorentino, il quale nella prefazione al suo Liber facetiarum dichiara di avere scritto per esercitar l'ingegno e sollevare lo spirito, seguendo in ciò l'esempio degli antichi, i quali, pur essendo "uomini di grandissima prudenza e dottrina, di giuochi, di facezie e di favole si dilettarono". Egli adunque non fa che riprendere, a questo riguardo, la tradizione classica, ma arricchendola di nuovi elementi, con tanta larghezza e genialità che la sua opera può dirsi originale. Il titolo stesso è una prova di tale continuità, poiché la parola facetiae fu proposta primamente da Cicerone, e, per lo straordinario favore incontrato dal libretto di Poggio, diventò poi la più comune designazione del genere.
Della raccolta poggiana non è qui il luogo di trattare; basterà dire che essa ebbe grande influenza su tutta la produzione posteriore, come quella che derivava la materia direttamente dalle fonti sempre vive stella tradizione popolare. Questa è la ragione per cui, - mentre alcune facezie narrate già da Poggio, come quella, per citare un esempio, della donna ostinata a chiamar pidocchioso il marito, si ripetono tuttora in forma poco diversa, - uno studio vero e proprio delle fonti, non è stato ancora tentato, né credo sia possibile, stando ai risultati delle ricerche demopsicologiche più recenti, le quali confermano l'asserto dell'autore, essere cioè il libro formato di elementi tradizionali raccolti da ogni parte.
Dal Bracciolini non si può scompagnare il Pontano, che, già varcato, come quello, il quattordicesimo lustro, in sullo scorcio del secolo ci apparisce, fra gli amici, maestro di arguto e piacevole novellare nei sei libri De sermone. La parte più interessante di questo trattato è naturalmente l'esemplificazione, per la quale l'autore attinge, quasi in egual misura, da una parte alle fonti classiche, dall'altra alla tradizione popolare e ai ricordi personali; anzi, chi legga attentamente, vede manifesta nello scrittore l'intenzione di gareggiare coi suoi modelli, poiché quasi sempre, di fronte agli esempi classici, stanno quelli moderni, di cui buon numero può ritenersi originale. Quest'opera del Pontano, nella storia della facezia, segna un'altra pietra miliare. Però, oltre che per la parte, che chiameremo tecnica o teorica, in cui, dietro la scorta di Cicerone e di Quintiliano, si discorre del riso e delle sue fonti, delle varie specie di facezie, delle esigenze del tempo e del leone, l'opera pontaniana differisce, come si è visto, dalla raccolta di Poggio per la qualità degli. esempi, nei quali una certa eleganza di espressione e di stile mitiga pur quella oscenità, che nel fiorentino tripudia sfacciata e impudente.
Ricordi personali e aneddoti biografici di uomini per diversi rispetti famosi, come il Beccadelli, suo maestro, il Valla, il Sannazzaro, il Cariteo, vi abbondano, e qua e là echeggia la nota sentimentale degli affetti domestici nelle persone dell'ava Leonarda, delle figlie Eugenia e Aurelia, e soprattutto della madre Cristiana; del resto, tutto il dialogo è soffuso da un leggero e pacato senso di malinconia.
Tra le facezie pontaniane, buona parte di quelle che potremmo chiamare moderne, circa una sessantina, furono ospitate nella raccolta del Domenichi, in una versione, se non elegante, certo chiara e fedele, mentre invece delle poggiane solo una decina ebbero questo onore.
Inoltre quello spirito di emulazione cogli antichi, che già osservammo, conferisce alla facezia pontaniana un assetto più composto e un carattere quasi letterario, per cui presenta maggiore affinità coll'apoftegma classico. E l'autore ne ha chiara coscienza, poiché, dopo aver riferito le risposte della figlia Aurelia, nota che, quantunque non muovano il riso, riscuotono però l'assenso, " atque ea quidem de causa - soggiunge - in medium illa attulimus, uti ex hoc quoque genere, quae in utramque partem et risas et approbationis proferri possent, praeteriisse minime videremur ".
Questo più largo concetto della facezia converrà tener presente, quando si tratti di giudicare certe raccolte cinquecentesche, nelle quali si suol lamentare il difetto di spirito, perché contengono brani, che, pur non essendo gravi, non si vede tuttavia (anche tenendo conto che le fonti del riso sono, più che altro mai, soggette a mutare col tempo) come potessero muovere al riso. Del resto, anche il maggior legislatore della facezia volgare, il Castiglione, quantunque affermi che "le facezie inducono tutte a ridere", accenna pure a "certi casi nuovi che intervenuti inducono talor la taciturnità con una certa maraviglia".
I perugini, i senesi e i fiorentini sono, a giudizio del Pontano, quelli, fra gli italiani, sulle cui labbra fiorisce più naturale e spontanea l'arguzia. Tuttavia la più antica raccolta di facezie in volgare ebbe sua patria in Ferrara, Che fu però - giova notarlo - uno dei principali centri dell'umanesimo. Delle 108 facezie di Ludovico Carbone, che risalgono agli ultimi tempi del duca Borso, circa 70 sono moderne e storicamente importanti, quantunque nei rispetti dell'arte mediocri. Ma Firenze fu veramente la culla della facezia volgare, e la corte medicea, ai tempi del Poliziano e del Magnifico, ne fu la principale fucina. Ivi ci riportano infatti non solo quei motti che il Papanti, fortunato e intelligente esumatore, trasse da un codice magliabechiano, ma anche un libro dello Stradino, del quale si dirà in seguito, nonché certi appunti, che si trovano tra le carte di Leonardo da Vinci.
Frattanto gli antichi scrittori di questa materia, vedendo la luce, dopo tanti secoli di oblio, in eleganti edizioni, erano oggetto di studio particolare; Plutarco sopra tutti, dei cui apoftegmi il Filelfo diede una versione latina, che, malgrado le mende derivanti da imperfetta lezione, ebbe larga diffusione tra noi e fuori. A questa versione, che dominò incontrastata durante la seconda metà del sec. XV, tenne dietro, nel successivo, quella del Regio, che, molto avanti negli anni, scelse la fortunata operetta a dar prova della sua conoscenza del greco. Del Fidelfo poi e del Regio il legittimo continuatore fu l'arguto fiorentino Filippo Strozzi, che alla medesima diede veste volgare semplice ed elegante. E nello stesso tempo trovava traduttori in latino e in volgare Diogene Laerzio ed uscivano per le stampe le prime raccolte generali di antichi apoftegmi e facezie, fra cui ricorderemo quella veramente notevole di Lucio Domizio Brusoni, che, stampata dapprima in Roma nel 1518, fu riprodotta più volte in seguito. Notevole è pure, per la peregrinità di certe notizie, un'ampia silloge greca, messa insieme da Arsenio arcivescovo di Monembasia, che uscì pure in Roma circa quattro anni più tardi. Ma più di ogni altro esercitò in questo campo una grande influenza il dotto Erasmo, il cui Apophthegmatum opus rappresenta veramente, in tale materia, il massimo sforzo dell'erudizione. L'opera di Erasmo fu messa largamente a profitto, come una miniera inesauribile, e, ristampata non so quante volte, trovò ospitalità in tutte le biblioteche. II raccoglitore insuperato di proverbi non fu vinto, che io sappia, da alcuno negli apoftegmi.
E accanto alle sillogi latine di apoftegmi antichi, le quali solo sporadicamente e per eccezione accolgono elementi moderni, pullularono, specialmente in Germania, sillogi formate di soli elementi moderni e sillogi miste degli uni e degli altri.
Nel medesimo tempo veniva arricchendosi il patrimonio popolare, che, nel processo stesso della sua elaborazione, andava ordinandosi in modo analogo alle collezioni letterarie di detti e fatti, cioè secondo i personaggi. Ma era naturale che la numerosa schiera dei begli umori, in generale preti o frati o buffoni di professione, alcuni pochi soltanto assurgessero agli onori della universale nominanza; e questi pochi, varcando anche i confini della patria, portarono oltralpe il profumo dell'arguzia popolare italiana. Così il Gonnella e l'Arlotto e in fraterna unione con loro, dopo la metà del sec. XVI, il Barlacchia, diventarono i tipi di quello spirito arguto e faceto, nel quale fu giustamente ravvisata una delle più caratteristiche tendenze dell'ingegno italiano avanti e durante il Rinascimento. Però la gioiosa triade fiorentina ebbe dei precursori, famoso fra tutti il certaldese frate Cipolla che era, come scrive il Boccaccio (VI, 10), " di persona piccola, di pelo rosso, e lieto nel viso, et il miglior brigante del mondo".
Ma i più fedeli continuatori della tradizione poggiana nel sec. XVI furono i tedeschi, e a Tubinga e a Strasburgo, centri e focolari dell'umanesimo germanico, fiorirono i primi scrittori di facezie.
A Tubinga Enrico Bebel (1472-1516?), il Poggio della Germania, laureato poeta da Massimiliano, mise insieme la sua famosa raccolta di facezie, che, ristampata più volte con successive aggiunte anche di altri, fino a raggiungere l'assetto definitivo in tre libri, ebbe la più larga diffusione. Infatti, se al Bebel difetta l'eleganza latina della frase, che fiorisce invece spontanea in bocca al fiorentino, egli però si avvantaggia su questo per un ben deciso intento satirico, il quale si manifesta nelle forme più popolari ed universali della satira contro la donna, il villano ed il prete; a ciò si aggiunga un mezzo secolo di vita intensa, che divide l'umanista tedesco dal fiorentino, e si comprenderà facilmente come, anche in Italia, molti scrittori di facezie in volgare preferissero attingere al Bebel quello che avrebbero pur trovato nel Poggio.
A Strasburgo poi, che per merito di Giovanni Grüninger, di Mattia Schurer e di altri, era, in questo tempo, un vero emporio tipografico, prosperò, al dolce clima della valle renana, un'intera scuola di scrittori faceti in latino e in volgare.
Ivi nel 15013 Giovanni Adefo Mülich (o Müling?) strasburghese, umanista, medico e curatore di stampe, pubblicò la famosa Margarita facetiarum, che, oltre brani del Panormita e del Piccolomini, ospita i motti del Geiler e le facezie del Mülich stesso.
Giovanni Geiler (1445-1510) nato a Schaffusa, ma denominato più frequentemente von Kaisersberg, per essere stato quivi educato, fu un dotto teologo e riformatore cattolico; e, come tale, non faceva solo fremere e versar lacrime ai devoti, che accorrevano in folla a sentir le site prediche nella chiesa di S. Lorenzo in Strasburgo, ma spesso infiorava il suo dire di frizzi mordaci e di storielle piccanti, che il Mülich raccolse, procurandogli, pare, qualche noia. " Praedicator cocus est - egli dice - qui etiami de rebus eiusdem generis varia facit esculenta; sic, nisi easdem escas spiritales variis modis noverit velare similitudinibus, patientur audientes eum diutius nauseam ". Pertanto egli non si peritava di rispondere a quei preti, che si giustificavano dell'accusa di concubinato, adducendo a pretesto l'età rispettabile delle loro perpetue: " Etiam ex antiquis gradualibus cantant clerici, psalteriisque legunt vetustis ". Nè risparmiava i suoi strali ai nobili; " tres - egli afferma - leges divitum sunt: Nolumus, volumus, oportet ". E riferisce quest'ingiuria lanciata ad una meretrice: " Communior es quam Miserere in quadragesima ". E alle buone massaie raccomandava di accasar presto le loro figliuole, ammonendo: " Gallina villana, cum mater familias non tempestive nidum sibi parat, ovificat inter orticas ". A quelli poi, che avevano in casa una moglie bisbetica, consigliava: " verbera eam crebro " e, se ciò non basterà, sia condotta al tempio di S. Anastasio e quivi " percutiatur flagellis, immergatur aquis frigidis, stranguletur stola ". Finalmente, contro di noi, sosteneva che in Italia non si dice in tutto un anno che una verità, cioè: " Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum ".
L'ultimo posto nella Margarita occupano le così dette facetiae adelphinae, messe insieme dal Mülich stesso. Infatti, avendo curato la stampa delle bebeliane, egli si sentì invogliato a gareggiare col famoso umanista, al quale rimase però molto inferiore. Ecco perchè alcuni brani della Margarita compariscono costantemente in appendice alle posteriori edizioni delle facezie bebeliane.
Pure al Bebel e in parte al Pauli, che nel 1522 aveva dato fuori, sempre a Strasburgo, la sua fortunata operetta, Schimpf und Ernst, tenne rivolto lo sguardo Othmar Nachtgall, lat. Luscinio (1487-1537), dotto e versatile umanista, nato e cresciuto in quella stessa città. Nei suoi Joci et sales mire festivi, usciti due anni dopo, l'elemento antico non soverchia affatto il moderno, ché anzi le lunghe peregrinazioni compiute dall'autore contribuirono molto a fornirgli materia per novellare. A differenza degli altri scrittori di facezie contemporanei, più che un intento satirico, egli si propose d'intrattenere i suoi lettori; vi si sente però l'erudito che scrive per altri eruditi, né poteva succedere diversamente a uno che aveva familiarità con Plutarco, Diogene Laerzio, Luciano, Stobeo e gli epigrammisti greci.
Poco dopo (1528), in Italia, l'autore del Cortegiano mostrava come si potesse conciliare insieme l'antico e il moderno, prendendo a maestri Cicerone e il Pontano e rivaleggiando con loro per la copia e l'originalità degli esempi. A lui tennero dietro una schiera di imitatori, tutti intesi nel dettare le leggi dell'arguto favellare, tra i quali si distinsero il Tomitano, il Parabosco e il Porcacchi; allo stesso argomento anche mons. Della Casa dedicò alcune pagine nel suo trattatello delle buone creanze.
Tre P. occorrono - osserva argutamente Orazio Toscanella - a fare il cortigiano, e non si deve intendere già Platone, Plinio e Plutarco, ma Platina, Poggio e Piovano Arlotto; e nel proemio della sua raccolta di facezie scrive: " Non solo la plebe prende piacere di motteggiare e udire cose piacevoli, ma i conti, i marchesi, i principi, i duchi, i re, gli imperatori, i pontefici et ogni sorte di persone".
Ogni città, si può dire, vantava la sua particolare macchietta: la corte d'Urbino plaudiva a messer Roberto da Bari; alla corte di Roma era cresciuto il Barbazza, che aveva per uso, nel conversare, di " rivoltar sempre le stesse armi, con le quali era ferito, verso colui che lo feriva "; a Bologna furoreggiava Gian Antonio Fallarta, a Venezia lo Spallanca, ad Ancona il Rivale, a Padova il Facenda. A questi si aggiungano alcune persone della miglior società come il Tosetto, cioè Lodovico Carresio, professore di Logica nello Studio di Padova, Marco Cadamosto da Lodi, Luca Contile, Marc'Antonio Platone romano, Andrea Turini da Pescia, Paolo dell'Ottonato, canonico di Santa Maria Novella, l'architetto Gaiuola, Pietro Paolo Codone senese, Alfonso de' Pazzi detto l'Etrusco, fiorentino, e l'Umore da Bologna, famosi, questi tre ultimi, per la loro mordacità. Senza dire dei buffoni matricolati, come Pappino tamburino, " gobbo, storto e scrignuto che pareva un mostro "; il Proto e il Moretto lucchesi, frate Mariano e Serafino del Piombo, Lodovico Meliolo.
Ora, se nei trattati della facezia sono introdotti a parlare, secondo un antico uso, quei personaggi che si distinguevano per prontezza di spirito e arguzia, nelle raccolte, specie in quella del Domenichi, non di rado ci passano innanzi, come in una fotografia istantanea, uomini illustri, colti di scorcio in un dato momento della loro vita privata, ma rappresentati con certa efficacia nell'ambiente del tempo. Di qui la particolare importanza di queste curiose composizioni, dove son passati in rassegna, talora senza alcun riguardo al loro buon nome, uomini come Dante, Alfonso d'Aragona, Cosimo e Lorenzo de' Medici, il Panormita e, con Sigismondo, Federico III e Carlo V imperatori, il Bembo, l'Aretino, il Machiavelli, il Donatello, il Bronzino, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Leone X, Francesco e Luigi di Francia, Massimiliano d'Austria e infiniti altri letterati, artisti, principi e monarchi, veri continuatori di quei greci e romani che incontriamo negli apoftegmi, anzi spesso a loro contrapposti per ragion di confronto, come si è osservato a proposito del Panormita e del Pontano.
Le raccolte di facezie del sec. XVI, che arrivarono fino a noi, non sono molte. Oltre la famosa silloge popolare ed anonima, contenente dapprima le sole facezie del Piovano e aumentata poi successivamente di quelle del Gonnella e del Barlacchia, ne abbiamo una di Orazio Toscanella (1561), due di Lodovico Domenichi (1548 e 1562), una di Lodovico Guicciardini (1568), una di Cristoforo Zabata (1589) e finalmente due raccolte di quella particolare varietà di facezie, che si chiamano burle, la prima delle quali, anonima, narra di Poncino della Torre cremonese (1581), la seconda, composta da Alessandro Sozzini (1600?), ci tramandò le gesta di un'allegra triade senese. Si potrebbe aggiungere un opuscolo di otto carte, contenente i motti che si leggono nella terza giornata dei Diporti del Parabosco, il quale opuscolo, insieme con altri indizi, mi fa credere che esistessero anche raccolte consimili delle facezie che il Castiglione ed il Tomitano inserirono nei loro trattati. Un libro di motti compose anche un tale Jacopo de' Patti e due libri di facezie sono attribuiti al Doni, ma né questi né quello arrivarono fino a noi.
Interessante doveva essere anche la raccolta degli Apoftegmi di Sperone Speroni, di cui si ha solo un saggio in fine alla biografia di questo autore composta dal Forcellini. - Qui corre voce - disse una volta papa Pio IV a Sperone - che voi non crediate molto. - Ecco - rispose - che io ho guadagnato, venendo a Roma, poiché in Padova dicono che io non credo niente!
Ma la raccolta del Domenichi è, senza confronto, la più importante e la più copiosa, come quella che contiene un migliaio circa di brani, di cui appena qualche decina riproducono antichi apoftegmi. Certo questa è, tra le innumerevoli opere dell' instancabile poligrafo piacentino, la più universalmente nota. L'occasione di comporre una raccolta di facezie gli venne dallo Stradino, raccoglitore delle facezie arlottiane e appassionato ricercatore di libri rari e curiosi in lingua volgare, che, viaggiando in diversi e lontani paesi, non aveva perdonato né a fatiche, né a spese per arricchire la sua biblioteca. Da lui ebbe a prestito il Domenichi, nell'agosto del 1548, " un bel libretto di facezie piacevoli et di motti arguti di molti eccellentissimi et nobilissimi ingegni ", e dopo averlo letto per isvago, nei lunghi pomeriggi estivi, fu invogliato a stamparlo. Ma siccome gli parve di mole un po' esile, pensò bene di aggiungervi un'appendice, da lui messa insieme molto in fretta, infatti ai 9 d'ottobre dell'anno stesso l'operetta usciva a Firenze in una nitida ed elegante edizione del Torrentino. Delle 80 carte, di cui è composta, solo le ultime 27 contengono " facezie raccolte per messer Lodovico Domenichi "; le altre riproducono il libro dello Stradino. Questo appartiene a quel genere che noi diremmo popolaresco e presenta dei caratteri arcaici; anzi, se il nucleo principale della curiosa silloge fu opera di un solo autore, questi viveva certamente a Firenze nei tempi del Magnifico e, poiché afferma, in un luogo, di essere stato maestro di Piero di Lorenzo de'Medici, si deve congetturare che fosse appunto il Poliziano. Ecco il passo: " La Ginevra de' Benci, o la Bencina, giocando noi a un gioco che si danno palmate et essendo accaduto che Piero di Lorenzo de' Medici, " mio discepolo m'ebbe a dare una palmata e poi a caso si partiva e andava in camera a scrivere, dimandandogli io dove andasse, rispose ella prontamente: - Dove credete voi che vadi? va a cancellarvene una di quelle che avete date a lui! ".
Però alcuni brani appartengono indubbiamente al sec. XVI, anzi uno di essi reca la data del 1531. Tale raccolta, che forma, come si è detto, la prima parte del libro, ha una grande affinità con quella sopra ricordata del Papanti e perfino molti brani in comune, ma contiene, a differenza di essa, proverbi in buon numero, similitudini burlesche, bisticci e altri giochi di parole, interessanti per lo studioso di folklore.
La seconda parte invece ha spiccato carattere letterario e discende per dritta linea, anche nella forma esteriore, ma più negli spiriti, dalle facezie bebeliane. Infatti non solo ciascun brano ha il suo titolo e vi è dato maggior sviluppo all'elemento narrativo, ma vi è fatta larga parte alla satira atroce contro le persone di chiesa. Non deve poi far meraviglia che il Domenichi abbia tratto poco profitto dalle facezie di Poggio, poiché assai di rado il frettoloso poligrafo si dà la briga di elaborare o di ridurre dei temi; più volentieri egli traduce direttamente da autori che, per essere più recenti, offrivano materia di maggiore attualità e più confacente al gusto dei tempi, e, per essere meno divulgati, permette vano che il plagio restasse nell'ombra.
A un primo ed affrettato esame abbiamo trovato del solo Bebel sei facezie tradotte alla lettera; altre ancora se ne potrebbero scoprire del Nachtgall, e chi sa di quanti altri, se si volesse approfondire l'esame; ma basti notare fin d'ora che, quando si tratti di determinare le fonti alle quali attinse il Domenichi, bisogna andar molto cauti e non fidarsi di semplici analogie o somiglianze, che potrebbero condurre fuori di strada.
Ad ogni modo in questa raccolta il piacentino subì l'influenza dei suoi modelli, specialmente tedeschi e luterani; ma presto ebbe a pentirsene, perché essa non incontrò favore, anzi molte copie dovettero esserne distrutte, perché oggi è divenuta rarissima; maggior fortuna invece ebbe in Francia, dove, in edizioni bilingui, servì come libro di esercizi per l'apprendimento dell'italiano.
Solo quattordici anni dopo si accinse il Domenichi a compilare, con ben diversi intendimenti, una nuova raccolta, la quale, uscita dapprima a Firenze pei tipi del Torrentino, divisa in sei libri, nel 1564 venne aumentata di un settimo molto scarno; nell'agosto dell'anno stesso l'autore moriva a Pisa.
Questa seconda raccolta, quantunque accolga anche molti brani che erano nella prima, è cosa affatto diversa, e per la mole, più che triplicata, e per il carattere più decisamente letterario, e infine per gli spiriti più ortodossi. Questo libro del Domenichi, che rispondeva a un bisogno veramente sentito dalle classi colte di quel tempo, ebbe, nello spazio di circa un secolo, una trentina di edizioni. Tra queste, dopo la giuntina del '64, che ricevette l'ultima mano dall'autore e fu da noi seguita nella presente edizione, la migliore è, senza dubbio, quella veneziana del '65, curata dal Porcacchi, che vi accodò, più per un sentimento di vanità che per altro motivo, un suo "Discorso intorno ai motti" infiorato di esempi più o meno originali. In quest'ultima forma, che rimase definitiva, fu poi riprodotta nelle successive edizioni, la maggior parte venete, alcune fiorentine e una di Fano. Però, a cominciare dall'edizione Cornetti del 1588, vi sono eliminati dai revisori di Roma ben 46 brani, senza contare le smozzicature parziali, le mende tipografiche talora vergognose, gli errori nei richiami della " tavola ", difetti comuni a tutte le edizioni posteriori, ma più gravi in quelle Bonfadino. Discreta invece e abbastanza comune è l'edizione Farri 1584, alla quale converrà ricorrere in mancanza delle migliori.
Un cenno particolare merita l'edizione Pettinari dei 1566, nella quale i sette libri del Domenichi furono ridotti a sei e stroncato sistematicamente ogni tanto qualche brano, talora senza che neppure si sia tentato di dissimulare la stroncatura. Coi ritagli e con altri brani presi dal Toscanella e da altre raccolte fu messo insieme un settimo libro, notevole solo perché contiene certe facezie che non appariscono altrove.
In questa seconda raccolta il Domenichi mise a profitto, oltre il libro sopra ricordato dello Stradino, uno simile di Giacinto Mondelli da Brescia, una silloge di dugento motti raccolti da Leone Casella Aquilano e certi Ragionamenti di Gherardo Spini intorno all'istituzione del perfetto gentiluomo. " Da molti altri poi in particolare - dichiara l'autore - ho ricevuto et raccolto quando uno et quando un altro di detti motti, i cui nomi o sono ricordati nel progresso del libro, o sono passati con silenzio o pur a buon fine ". Altre fonti sono infatti indicate qua e là sparsamente e senza precisione, quasi a salvar le apparenze, in coda a qualche brano.
Ma il Domenichi non ci dice come va, per esempio, che un buon quarto delle sopra ricordate facezie del codice magliabechiano compariscono, quasi con le stesse parole, nella sua raccolta. Si potrebbe arguire che, durante la sua lunga dimora a Firenze (1546.1564), abbia avuto occasione di conoscere Teodoro degli Angelij dal Bucine (1495-1567), fiorentino, possessore di quel manoscritto e figlio del più noto Niccolò, che forse ne fu il principale compilatore, e da lui lo avesse a prestito. Va notato però che in alcuni pochi casi non esiste una dipendenza diretta fra la raccolta ciel Domenichi e quella magliabechiana; ma, quando si ponga mente al grande numero di brani trasportati, quasi di sana pianta, da questa a quella raccolta, ogni dubbio sparisce; infatti il più delle volte le differenze si riducono a semplici modificazioni ortografiche.
Inoltre, stando alle indicazioni del Domenichi, parrebbe che dal Pontano egli non avesse preso più di otto brani, mentre ne fece il più copioso bottino che si potesse fare, trasportandone, come si è detto, nel suo libro una sessantina, che, per dissimulare il furto, disseminò fra gli altri con grande abilità e noi abbiamo riunito con molta pazienza.
Così l'incorreggibile plagiario si guarda bene dal nominare Enrico Bebel e il Nachtgall, che pure, come sappiamo, mise largamente a profitto, anche da loro traducendo alla lettera: né il Panormita, né il Piccolomini sono mai citati da lui. E quante altre marachelle di questo genere potrebbe scoprire chi volesse prendersi la briga di farlo; a noi basterà di aver indicato il metodo seguito dall'autore nella sua raccolta. Del resto che male sarebbe, se il Domenichi avesse avuto intenzione di fare una semplice scelta di facezie? che cosa facevano in altri campi il Ruscelli, il Sansovino, il Dolce e cento altri? Solamente il Domenichi non si è curato di dare quelle indicazioni che erano necessarie per stabilire la paternità dei singoli brani, anzi ha cercato di rendere più che mai difficile una tale ricerca; ma poteva egli forse prevedere gli odierni progressi del metodo storico? Ad ogni modo sarà equo concedergli le attenuanti, in omaggio alle consuetudini del tempo.
Non nasconderemo tnttavia che perfino il Porcacchi, il quale pur tanto amava il suo Domenichi da piangerne sinceramente la fine immatura, si lagna di non essere sempre stato da lui debitamente citato. Ma tali plagi furono vendicati ad usura, poiché la raccolta del Domenichi fu alla sua volta depredata, senza nessun riguardo al mondo, dagli anonimi compilatori di altre raccolte di carattere popolare. Noi ricorderemo, come esempio tipico, la giuntina del 1565, in cui tra le facezie del Gonnella e del Barlacchia se ne leggono molte del Domenichi e alcune infine tra le "facezie di diversi". Per questo tramite forse alcune facezie del nostro, ritornando nel dominio della tradizione popolare, arrivarono fino a noi. Così due noti aneddoti danteschi, narrati già dal Domenichi, in una stampa popolare moderna sono attribuiti al Fagioli e parecchie altre facezie vi si leggono che erano nella raccolta del piacentino; tra le facezie di padre Formicola ne troviamo altre quattro, e due figurano in un opuscolo nuziale contenente aneddoti relativi al matrimonio.
In questa scelta di facezie del Domenichi, tratta dalle edizioni Torrentino 1548 e Giunti 1564, che sono i più genuini esemplari dei due diversi tipi del genere da lui trattati, ebbi cura di raccogliere quei brani che presentassero, per qualsiasi rispetto, un certo interesse, non senza dare un saggio delle appendici del Porcacchi e del Pettinari, escludendo però, in ogni caso, gli aneddoti danteschi e, di regola, le facezie del Gonnella, dell'Arlotto e del Barlacchia, quelli perché già noti (cfr. G. Papini, La Leggenda di Dante, Carabba, 1911), queste perché meriterebbero una edizione a parte, anche per il loro carattere decisamente popolare.
Come fu detto, la facezia non ha finora troppo richiamato su di sé l'attenzione degli studiosi italiani, perciò questa scelta di motti, di celie, d'arguzie, elaborate nel secolo d'oro della nostra letteratura, non è destinata soltarrto a colmare una lacuna nella collezione dei " Classici del ridere ".
Quantunque nessun'altra cosa muti più rapidamente che la fonte del comico, non è scarso l'interesse storico, letterario, psicologico che presenta quest'umile forma d'arte, in cui l'arguzia e la fantasia scaturiscono e si sbizzarriscono allo stesso modo che l'amore nei rispetti toscani e la fede nei canti popolari umbri.
Però la facezia non è sempre la frase arguta, la burla che fa sorridere e passa, che getta un lampo di allegria sulla grave severità della vita, che brilla nei geniali ritrovi della società raffinata; non è sempre il frizzo mordace e piccante che balza, fra i battimani, nei conviti, come il tappo della bottiglia sturata, ma alle volte, penetrando nei palazzi e nelle reggie, frugando nella vita privata, cogliendo all'improvviso un personaggio nella intimità della famiglia, viene ad assumere vera importanza storica.
Né le manca talora un contenuto educativo - ridentem dicere verum quid vetat? - anzi non di rado fa pensare, più che muovere al riso, ed usa gli strali della satira od esercita l'acume della critica, facendosi compatire, per l'assenza di fiele, anche un certo grado di irriverenza.
Talora infine riflette i progressi, le fedi, le aspirazioni, le condizioni etiche e psicologiche di tutto un popolo; offre messe abbondante a forme d'arte superiori, alla novella, alla poesia satirica, al teatro sia di Plauto che di Ruzzante.
La raccolta poi del Domenichi, la più ricca e fortunata di quante furono mai compilate, è un'espressione tra le più genuine della varia psicologia del popolo italiano, della sua anima multiforme, che, se col lazzo, il motto e la beffa ride alla vita, sa, quando la Patria chiami, ridere anche alla morte.
Padova, Aprile 1923.
GIOVANNI FABRIS.



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