MORI'S HUMOR PAGE

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Luciano di Samosata  - Una Storia vera

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(La regina Cornacchia di A. Savinio)

Prefazione

Non occorrono molte parole per presentare Luciano di Samosata.
Vero maestro di pensiero, egli è uno di quei pochi spiriti, come Voltaire e molti Illuministi, come Anatole France, che nel corso dei secoli hanno saputo affrontare la cultura del loro tempo senza pedanteria, ma con occhio critico, in nome della sola logica e del diritto di ogni uomo di rifiutare le idee basate su emozioni e superstizioni, accettate supinamente solo sull'autorità dell'ipse dixit e, quindi, nella sostanza, imposte.
Come gli altri autori citati, Luciano è un maestro nel porre in luce, con somma ironia, la stupidità della superstizione religiosa e di tutti i luoghi comuni e non stupisce quindi il suo costante successo nei secoli.

La traduzione della sua opera matura "Una storia vera" qui proposta è quella di Luigi Settembrini (1813-1876), patriota napoletano del Risorgimento Italiano. Egli condannato alla pena di morte, poi commutata in quella dell'ergastolo per la sua attività a favore dell'unità italiana, venne incarcerato nel 1849 nel penitenziario di Santo Stefano ove rimase per dieci anni; riuscì a fuggire mentre su di una nave veniva deportato in America.
Durante la durissima prigionia egli si dedicò alla traduzione delle opere di Luciano che poi pubblicò nel 1861.


LIBRO PRIMO

Come gli atleti e coloro che attendono agli esercizi del corpo badano a rendersi gagliardi non pure con la fatica, ma anche ogni tanto col riposo, che è creduto parte grandissima della ginnastica; così ancora quelli che attendono agli studi penso che debbano dopo le gravi letture riposare la mente per averla dipoi più fresca al lavoro. E avranno conveniente riposo se si occuperanno in tali letture, che siano piacevoli sì per certa grazia e urbanità, e sì per ammaestramenti non privi di leggiadria, come io spero sarà tenuto questo mio scritto. Il quale non solamente per la bizzarria del soggetto, e per la gaiezza dei pensieri dovrà piacere, e per avervi messe dentro molte finzioni che paiono probabili e verosimili; ma perché ciascuna delle baie che io conto, è una ridicola allusione a certi antichi poeti e storici e filosofi che scrissero tante favole e meraviglie; i quali ti nominerei se tu stesso leggendo non li riconoscessi.

Clesia figliuolo di Clesioco di Cnido, scrisse intorno all'India cose che egli non vide, e non udì dire da nessuno. Scrisse Iambulo molte meraviglie che si trovano nel gran mare; e benché finse bugie da tutti riconosciute, pur compose opera non dispiacevole. Molti altri fecero anche così, e scrivendo come certi loro viaggi e peregrinazioni lontane narrano di fiere grandissime, di uomini crudeli, di costumi strani. Duca di costoro e maestro di tale ciarlataneria fu l'Ulisse d'Omero, che nella corte d'Alcinoo contò della cattività dei venti, di uomini bestioni e selvatici con un solo occhio in fronte, di belve con molte teste, de' compagni tramutati per incantesimi, e di tante altre bugie che egli sciorinò innanzi a quei poveri sciocchi dei Feaci.

Abbattendomi in tutti costoro io non li biasimavo troppo delle bugie che dicono, vedendo che già sogliono dirle anche i filosofi, ma facevo le meraviglie di loro che credono di darcele a bere come verità. Onde anche a me essendo venuto il prurito di lasciar qualche cosetta ai posteri, per non essere io solo privo della libertà di novellare; e giacché non ho a contar niente di vero (perché non m'è avvenuto niente che meriti di esser narrato), mi sono rivolto a una bugia, che è molto più ragionevole delle altre, ché almeno dirò questa sola verità, che io dirò la bugia. Così forse sfuggirò il biasimo che hanno gli altri, confessando io stesso che non dico affatto la verità. Scrivo dunque di cose che non ho vedute, né ho sapute da altri, che non sono, e non potrebbero mai essere: e però i lettori non ne debbono credere niente.

Sciogliendo una volta dalle colonne d'Ercole ed entrato nell'oceano occidentale, facevo vela con buon vento. Mi misi a viaggiare per curiosità di mente, per desiderio di veder cose nuove, per voglia di conoscere il fine dell'oceano, e quali uomini abitano su quegli altri lidi. Per questo effetto avevo fatto grandi provvigioni di vettovaglie, e di bastante acqua; scelti cinquanta giovani della mia intenzione, m'ero provveduto di una buona quantità di armi; avevo preso un pilota con buonissima paga, e una nave (era una buona caravella) da poter durare a lunga e forte navigazione.

Un giorno dunque e una notte con vento favorevole navigando, vedevamo ancor la terra di lontano, e andavamo oltre senza troppa violenza: ma l'altro giorno col levar del sole il vento rinforzò, il mare si gonfiò, si oscurò l'aria, e non fu possibile più di ammainare la vela. Messici alla balia del vento, fummo battuti da una tempesta per settantanove giorni: nell'ottantesimo comparso a un tratto il sole, vedemmo non lontano un'isola alta e selvosa, intorno alla quale non frangeva molto il mare, perché il forte della tempesta era passato.

Approdammo dunque, e sbarcati, ci gettammo a terra stanchi di sì lungo travaglio, e così stemmo lungo tempo. Poi sorti in piedi, scegliemmo trenta compagni che rimasero a guardia della nave e venti vennero con me per scoprire com'era fatta l'isola . Non c'eravam dilungati un tre stadii dal mare per la selva, e vediamo una colonna di bronzo scritta di lettere greche appena leggibili e rose, che dicevano: Fino qui giunsero Ercole e Bacco. V'erano ancora lì vicino due orme di piedi sopra una pietra, la prima d'un jugero, l'altra meno: e credetti questa di Bacco, l'altra di Ercole. Noi adorammo, e proseguimmo. E andati non molto innanzi, giungemmo sopra un fiume che scorreva vino molto simile a quello di Chio. Il fiume era largo e pieno, e in qualche luogo da potersi navigare. Tanto più c'inducemmo a credere alla scritta della colonna, vedendo i segni dell'arrivo di Bacco.

Venutami curiosità di conoscere onde nasceva il fiume, montammo tenendoci sempre alla riva; e non trovammo alcuna fonte, ma molte e grosse viti piene di grappoli: e alla radice di ciascuna stillavano gocciole di vino puro, donde formavasi il fiume. Nel quale erano ancora molti pesci, che avevano il colore e il sapore del vino, e noi avendone pescati alcuni, e mangiati, ci ubriacammo; anzi, quando li aprimmo, li trovammo pieni di feccia e di vinaccioli. Dipoi pensammo mescolarli con altri pesci di acqua, e così venne non troppo forte un manicaretto di vino.

Traversato il fiume dov'era il guado, trovammo un nuovo miracolo di viti. La parte di giù che usciva della terra era tronco verde e grosso: in su eran femmine, che dai fianchi in sopra avevano tutte le membra femminili, come si dipinge Dafne nell'atto che Apollo sta per abbracciarla ed essa si tramuta in albero. Dalle punta delle dita nascevano i tralci, che erano pieni di grappoli: e le chiome dei loro capi erano viticci, e pampini, e grappoli.

Come noi ci avvicinavamo esse ci salutavano graziosamente quale parlando lidio, quale indiano, e molte greco; e con le bocche ci scoccavano baci, e chi era baciato subito sentiva per ubbriachezza girargli il capo. Non permettevano si cogliesse del loro frutto, e si dolevano e gridavano quando era colto. Alcune volevano mescolarsi con noi: e due compagni che si congiunsero con esse, non se ne sciolsero più, e vi rimasero attaccati per i genitali: vi si appiccarono, s'abbarbicarono, già le dita divennero tralci, già vi s'impigliarono coi viticci, e quasi quasi stavano per produrre anch'essi il frutto.

Noi lasciatili così, fuggimmo alla nave, dove contammo ai rimasti ogni cosa, e come i compagni nel loro congiungimento erano divenuti viti. Prendemmo alcune anfore, e fatto acqua insieme e fatto vino dal fiume, passammo la notte lì vicino sul lido: e la mattina essendo il vento non troppo gagliardo, salpammo.

Verso il mezzodì, sparita l'isola, un improvviso turbine roteò la nave, e la sollevò quasi tremila stadi in alto, né più la depose sul mare: ma così sospesa in aria, un vento, che gonfiava tutte le vele, la portava. Sette giorni e altrettante notti corremmo per l'aria; nell'ottavo vedemmo una gran terra nell'aria, a forma di un'isola, lucente, sferica, e di grande splendore. Avvicinatici e approdati scendemmo: e riguardando il paese, lo troviamo abitato e coltivato. Di giorno non vedemmo niente di là; ma di notte ci apparvero altre isole vicine, quali più grandi, quali più piccole, del colore del fuoco, e un'altra terra giù, che aveva città, e fiumi, e mari, e selve, e monti: e pensammo fosse questa che noi abitiamo.

Avendo voluto addentrarci nel paese fummo scontrati e presi dagl'Ippogrifi, come colà si chiamano. Questi Ippogrifi sono uomini che vanno sopra grandi grifi, come su cavalli alati: i grifi sono grandi, e la più parte a tre teste: e se volete sapere quanto son grandi immaginate che hanno le penne più lunghe e più massicce d'un albero d'un galeone. Questi Ippogrifi dunque hanno ordine di andare scorrazzando intorno alla terra, e se incontrano forestieri, di menarli dal re: onde ci prendono e ci menano da lui.

Il quale vedendoci e giudicandone ai panni, disse: Ebbene, o forestieri, siete voi Greci? E rispondendo noi di sì: E come, ci dimandò, siete qui giunti, valicato tanto spazio d'aria? Noi gli contammo per filo ogni cosa; ed egli ci narrò ancora dei fatti suoi, come egli era uomo, a nome Endimione, e come una volta mentre dormiva fu rapito dalla nostra terra, e venne qui, e fu re del paese Questa, egli disse, è quella terra che voi vedete di laggiù e chiamate la Luna. State di buon animo, e non sospettate di nessun pericolo, ché non mancherete di tutte le cose necessarie. Se condurrò a buon fine la guerra che ora faccio agli abitanti del Sole, voi vivrete presso di me una vita felicissima.

Noi gli domandammo chi erano quei suoi nemici, e che cagione di guerra ci aveva; ed egli: È Fetonte, il re degli abitanti del Sole (ché anche il Sole e abitato come la Luna), che ci fa guerra da molto tempo: e la cagione è questa. Una volta io radunata certa poveraglia del mio reame, pensai di mandare una colonia in Espero, che è un'isola deserta e non abitata da nessuno. Fetonte per invidia impedì questa colonia, assaltandoci a mezza via con una sua schiera di Cavaiformiche. Allora fummo vinti, perché colti alla sprovvista, e ci ritirammo; ma ora voglio io portargli la guerra, e piantare la colonia a suo marcio dispetto. Se voi volete esser con me a questa impresa, io vi darò un grifo reale per uno, e ogni altra armatura: noi domani partiremo. Sia come a te piace, io risposi.

Così rimanemmo a cenare con lui; ma il giorno appresso levatici di buon mattino ci disponemmo in schiere, perché le vedette segnalarono esser vicini i nemici. L'esercito era di centomila guerrieri, senza i bagaglioni, i macchinisti, i fanti, e gli aiuti forestieri; cioè erano ottantamila ippogrifi, e ventimila cavalcavano su gli Erbalati, uccelli grandissimi, che invece di penne sono ricoperti di foglie, e hanno le ali simili a foglie di lattuga. Vicino a questi c'erano schiere di Scagliamiglio, e d'Aglipugnanti. Eran venuti anche aiuti dall'Orsa, trentamila Pulciarceri, e cinquantamila Corriventi. I Pulciarceri sono così chiamati perché cavalcano pulci grandissime, ognuna grande quanto dodici elefanti: i Corriventi sono fantaccini, che volano senz'ale, a questo modo: si stringono alla cintura certe lunghe gonnelle, e facendole gonfiare dal vento come vele, vanno a guisa di navicelle, e questi nelle battaglie forniscono l'ufficio di truppe leggere. Si diceva ancora che da certe stelle che influiscono sulla Cappadocia dovevano venire settantamila Struzzipinconi, e cinquemila Cavaigrue; ma io non li vidi, perché non vennero, onde non mi ardisco di descrivere com'erano fatti, ma se ne contavano cose grandi e incredibili. E queste erano le forze di Endimione.

Le armi erano le stesse per tutti: elmi di baccelli di fave, ché le fave colà nascono grossissime e durissime; corazze a squame, fatte di gusci di lupini cuciti insieme, ché li il guscio del lupino è impenetrabile come il corno; scudi e spade come l'usano i Greci.

Giunta l'ora della battaglia, le schiere furono ordinate così: nel corno destro stavano gl'Ippogrifi con Endimione circondato dai suoi prodi, e tra questi anche noi; nel sinistro gli Erbalati; nel mezzo gli aiuti, ciascuno nella schiera sua. I fanti poi che erano un sessanta milioni, furono collocati a questo modo. Colà sono molte e grandi ragnatele, ciascuna delle quali è maggiore di un'isola delle Cicladi: ora queste ebbero comando di stendere le loro tele nell'aria che è tra la Luna ed Espero; eseguita subito l'opera e fatto il campo, quivi furono schierate le fanterie, delle quali era capitano Notturno figliuolo di re Sereno con due luogotenenti.

Dei nemici poi nell'ala sinistra stavano i Cavaiformiche, tra i quali Fetonte. Sono queste bestie grandissime, alate, simili alle nostre formiche, tranne per la grandezza, che giungono a esser grandi anche due jugeri. Combattevano non solo quelli che li cavalcavano, ma essi ancora, e specialmente con le corna; e si diceva che erano intorno a cinquantamila. Nella destra erano disposti gli Aerotafani, anche un cinquantamila, tutti arcieri, che cavalcavano tafani stragrandi; dopo questi stavano gli Aeroriddanti, fanti spediti e battaglieri, che con le frombole scagliavano ravanelli grossissimi, e chi colpivano era subito spacciato, moriva nel puzzo che usciva dalla ferita; e si diceva che quei terribili proiettili erano unti di veleno di malva. Seguiva la schiera dei Torsifunghi, di grave armatura, che combattevano piantati, ed erano diecimila, si chiamano Torsifunghi perché per scudi avevano funghi, e per lancia torsi di asparagi. Vicino a costoro stavano i Canipinchi, mandati dagli abitatori di Sirio: erano cinquemila, con le teste di cane, e combattenti sopra pinchi alati.

Correva voce che mancavano alcuni aiuti; i frombolatori dovevano venire dalla via lattea, e i Nubicentauri. Ma costoro, quando già la battaglia era vinta per noi, giunsero, e non fossero mai giunti! I frombolieri non comparirono affatto, e dicono che dipoi Fetonte sdegnato mise a ferro e fuoco il loro paese. E con questo apparato s'avanzava Fetonte.

Poiché si levarono i vessilli, e ragliarono gli asini, che lassù fanno da trombetti, appiccata la battaglia, si combatteva. L'ala sinistra dei Solani subito fuggì non aspettando di venire alle mani coi nostri bravi Ippogrifi; e noi a inseguire, e far carne. Ma la loro destra superò la nostra sinistra, e gli aerotafani ci cacciarono fino alle nostre fanterie; ma queste tennero testa, ed essi ricacciati fuggirono a dirotta, specialmente quando si accorsero che la loro ala destra era stata vinta. Allora la fuga fu generale: molti furono presi, molti uccisi, e gran sangue scorreva su le nubi, che parevano tinte in rosso, come paiono quaggiù quando tramonta il sole; e ne gocciolò anche in terra: onde io credo che qualche altra battaglia dovette anticamente avvenire lassù, e Omero credette che Giove piovve sangue per la morte di Sarpedonte.

Tornati dalla caccia che demmo, rizzammo due trofei, uno su le tele dei ragni per la battaglia dei fanti, e l'altro su le nuvole per quella combattuta nell'aere. Ma subito dipoi le vedette annunziano che siamo assaliti dai Nubicentauri, già aspettati da Fetonte prima della battaglia. Ed ecco avvicinarsi stranamente terribili, sopra cavalli alati, uomini grandi quanto il colosso di Rodi dal mezzo in su, e i cavalli quanto una grossa nave da carico.

Non ne scrivo il numero, che parrebbe incredibile, ma erano infiniti, e avevano per generale il Sagittario dello Zodiaco. Come videro i loro amici sconfitti, mandarono a dire a Fetonte di rifar testa; ed essi stretti e serrati piombarono addosso ai Lunari, che erano disordinati e sparpagliati a cacciare il nemico e predare; rovesciano tutti, inseguono lo stesso re fino alla sua città, gli uccidono gran parte di guerrieri alati, abbattono i trofei, corrono per loro tutto il campo dei ragnateli, e fanno prigionieri me e due altri compagni. Sopraggiunge anche Fetonte che fa rizzare altri trofei.

Noi lo stesso giorno siamo condotti nel Sole con le mani dietro il dorso legate da un filo di ragnatela. Pensarono non di espugnare la città, ma ritiratisi fecero un muro nell'aria frapposta, sicché i raggi del Sole non giungevano più alla Luna. Il muro era ben grosso e di nuvole: onde ne venne una totale ecclissi della luna, che fu tutta ricoperta di una fitta oscurità. Sforzato così Endimione mandò ambasciatori a pregare di togliere quel muro e non farli vivere così nelle tenebre; promise di pagare un tributo, di mandar aiuti e di non far più guerra; e per questo offrì anche ostaggi. Fetonte due volte tenne consiglio coi suoi: nel primo giorno non vollero udire accordi, tanto erano sdegnati; ma il giorno appresso fu deciso altrimenti, e fu fatta la pace con queste condizioni.

Questi sono i patti della pace « che fecero i Solani e gli alleati loro coi Lunari e i loro alleati: che a i Solani diroccheranno il muro, e non irromperanno più nella Luna; renderanno i prigionieri per le taglie che saranno convenute; che i Lunari lasceranno libere le altre stelle governarsi da sé, non porteranno le armi contro i Solani, ma li aiuteranno e combatteranno con loro se qualcuno li assalirà; ogni anno il re dei Lunari pagherà un tributo al re dei Solani in diecimila anfore di rugiada, e però saranno dati diecimila ostaggi; la Colonia in Espero sarà mandata in comune, e potrà andarvi chiunque altro vorrà. Questi patti saranno scritti sopra una colonna d'elettro piantata nell'aria ai confini dei due regni. Li giurarono da parte dei Solani l'Infocato, l'Accalorato, l'Infiammato; e da parte dei Lunari il Notturno, il Mensuale, il Rilucente » .

Così fu fatta la pace, demolito il muro, e noi con altri prigionieri restituiti. Quando tornammo nella Luna ci vennero incontro ad abbracciarci con molte lacrime i compagni e lo stesso Endimione, il quale ci pregò di rimanere con lui, e di far parte della Colonia, promettendomi in moglie il figliuol suo, perché lì non ci sono donne. Ma io non mi lasciai persuadere, e lo pregai ci rimandasse giù nel mare. Come egli vide che era impossibile persuadermi, ci convitò per sette giorni, e poi ci rimandò.

Durante la mia dimora nella Luna, vidi cose nuove e mirabili che voglio raccontare. Prima di tutto là non nascono dalle femmine ma dai maschi; fanno le nozze tra maschi; e di femmine non conoscono neppure il nome. Fino a venticinque anni ciascuno è moglie, dipoi è marito; ingravidano non nel ventre, ma nei polpacci delle gambe; concepito l'embrione, la gamba ingrossa; e venuto il tempo vi fanno un taglio, e ne cavano come un morticino, che espongono al vento con la bocca aperta, e così lo fanno vivo. E credo che di là i Greci hanno tratto il nome di ventregamba che danno al polpaccio, il quale lì diventa gravido invece del ventre.

Ma conterò una cosa più mirabile di questa. È quivi una specie di uomini detti Arborei, che nascono a questo modo. Tagliano il testicolo destro d'un uomo, e lo piantano in terra: ne nasce un albero grandissimo, carnoso, a forma d'un fallo, con rami e fronde, e per frutti ghiande della grossezza d'un cubito. Quando queste sono mature, le raccolgono e ne cavano gli uomini. Hanno i genitali posticci; alcuni di avorio, i poveri di legno, e con questi si mescolano e si sollazzano coi loro garzoni. Quando l'uomo invecchia non muore, ma come fumo vanisce nell'aria. Il cibo per tutti è lo stesso: accendono il fuoco, e su la brace arrostiscono ranocchi, dei quali hanno una gran quantità che volano per aria; e mentre cuoce l'arrosto, seduti in cerchio, come intorno a una mensa, leccano l'odoroso fumo e scialano. E questo è il cibo loro. Per bere poi spremono l'aria in un calice, e ne fanno uscire certo liquore come rugiada. Non orinano, né vanno di corpo, e non sono forati come noi, ma nella piegatura del ginocchio, sopra il polpaccio. È tenuto bello fra loro chi è calvo e senza chiome: i chiomati vi sono aborriti; per contrario nella Cometa i chiomati sono tenuti belli, come mi fu detto da alcuni che c'erano stati.

Hanno i peli un po' sopra il ginocchio, non hanno unghie ai piedi, ma un solo dito tutti. Sul codrione a ciascuno nasce un cavoletto, a guisa di coda, sempre fiorito, che, se anche uno cade supino, non si rompe. Quando si soffiano il naso cacciano un miele molto agro, e quando fanno qualche fatica o esercizio da tutto il corpo sudano latte, dal quale fanno formaggio con poche gocciole di miele. Dalle cipolle spremono un olio denso e fragrante, come unguento. Hanno molte viti che producono acqua; i grappoli hanno gli acini come grandini; e io penso che quando qualche vento scuote quelle viti, si spiccano quegli acini, e cade fra noi la grandine. La pancia loro è come un carniere, vi ripongono ogni cosa, l'aprono e chiudono a piacere, e non vi si vede né interiora né fegato, ma una cavità pelosa e vellosa, per modo che i bimbi quando hanno freddo vi si appiattano dentro. Le vesti i ricchi le fanno di vetro mollissimo, i poveri di rame tessuto; ché nel paese è molto rame, e lo lavorano, spruzzandovi acqua, come la lana. Che specie di occhi hanno, ho un po' di vergogna a dirlo, perché temo di esser tenuto bugiardo, ma pur lo dirò. Hanno gli occhi levatoi, e chi vuole se li cava e se li serba quando non ha bisogno vedere; poi li pone, e vede. Molti avendo perduti i loro se li fanno prestare per vedere, e i ricchi ne hanno le provviste. Le orecchie poi sono fronde di platano; quelli che sbocciano dalle ghiande le hanno di legno.

E un altra meraviglia vidi nella reggia. Un grandissimo specchio sta sopra un pozzo non molto profondo; chi scende nel pozzo ode tutte le parole che si dicono da noi sulla terra; e chi riguarda nello specchio vede tutte le città e i popoli, come se li avesse innanzi: e io ci vidi tutti i miei, e il mio paese: se essi videro me non saprei accertarlo. Chi non crede tutte queste cose, se mai monterà lassù, saprà come io dico il vero.

Preso dunque commiato dal re e dai suoi, c'imbarcammo e partimmo. Endimione mi donò due tuniche di vetro, cinque di rame, e un'intera armatura di lupini, che io lasciai tutte nella balena. Mandò con noi mille ippogrifi per accompagnarci fino a cinquecento stadi. Nel navigare passammo vicini a molte terre, approdammo a Espero ove la Colonia era arrivata di fresco, e vi scendemmo per fare acqua.

Entrati nello Zodiaco, rasentammo il Sole a sinistra, ma non vi scendemmo, benché molti compagni desiderassero scendervi, il vento non lo permise; pur tuttavia vedemmo il paese, coperto di verdura, e grasso e innaffiato, e pieno di molti beni. Come ci scorsero i nubicentauri, che erano assoldati da Fetonte, ci volarono alla nave, ma conosciuto che eravamo alleati, si ritirarono. Già anche gli Ippogrifi se n'erano tornati, e noi navigando tutta la notte e il giorno appresso con la prora sempre giú, sul far della sera giungemmo a Lucernopoli, città sita nell'aria tra le Pleiadi e le Jadi, ed è più basso dello Zodiaco.

Sbarcati non vi trovammo uomini affatto, ma lucerne che andavano su e giù, e stavano in piazza e sul porto; alcune piccole, o per cosi dire povere, altre grandi, e magnatizie, molto chiare e splendenti. Ciascuna s'era fatta la sua casa, cioè il suo lucerniere, avevano nomi, come gli uomini, e udimmo che parlavano; non ci fecero alcun male, anzi ci offrirono ospitalità; ma per paura nessuno di noi s'attentò di mangiare o di dormirvi. Il palazzo della Signoria è nel mezzo della città, e quivi il signore siede tutta notte, e chiama ciascuna a nome: quale non ubbidisce alla chiamata è condannata a morte come disertrice; la morte è lo spegnerla.

Noi fummo presenti, vedemmo ciò che si faceva, e udimmo alcune lucerne che facevano delle brave difese, e allegavano le ragioni perché erano ritardate. Quivi riconobbi anche la lucerna di casa mia, e le domandai notizie dei miei ed essa mi contò ogni cosa.

Per quella notte rimanemmo lì: il giorno appresso salpammo, e navigando ci avvicinammo alle nuvole, dove vedemmo con grande meraviglia la città di Nubicuculia, ma non vi scendemmo, perché il vento non lo permise; pure sapemmo che ivi era la regina Cornacchia, figliuola di re Merlo. Allora io mi ricordai del poeta Aristofane, savio e verace scrittore, al quale certi saccentuzzi non vogliono prestar fede.

Dopo tre giorni vedemmo chiaramente l'Oceano, la nostra terra no, ma quelle che stanno nell'aria, le quali già ci apparivano color di fuoco e lucentissime. Il quarto giorno verso il mezzodì, cedendo a poco a poco e posando il vento, discendemmo sul mare. Come toccammo l'acqua non so dire il piacere e l'allegrezza nostra, facemmo banchetto di ciò che avevamo, e ci gettammo a nuoto, ché era bonaccia, e il mare come una tavola.

Ma pare che spesso un mutamento in bene sia principio di maggiori mali: due soli giorni navigammo con buon tempo, al comparire del terzo dalla parte che spuntava il sole a un tratto vediamo un grandissimo numero di fiere diverse e di balene, e una più grande di tutte lunga ben millecinquecento stadi venire a noi con la bocca spalancata, con larghissimo rimescolamento di mare innanzi a sé, e fra molta schiuma, mostrandoci denti più lunghi dei priapi di Siria, acuti come spiedi, e bianchi come quelli d'elefante. Al vederla: Siamo perduti, dicemmo tutti quanti, e abbracciati insieme aspettavamo; ed eccola avvicinarsi, e tirando a sé il fiato c'inghiottì con tutta la nave; ma non ebbe tempo di stritolarci, ché fra gl'intervalli dei denti la nave sdrucciolò giu.

Come fummo dentro la balena, dapprima era buio, e non vedevamo niente; ma dipoi avendo essa aperta la bocca, vediamo una immensa caverna larga e alta per ogni verso, e capace d'una città di diecimila abitanti. Stavano sparsi qua e là pesci minori, molti altri animali stritolati, e alberi di navi, e ancore, e ossa umane, e balle di mercanzie. Nel mezzo era una terra con colline, formatasi, come io credo, dal limo inghiottito; sovr'essa una selva con alberi d'ogni maniera, ed erbe e ortaggi, e pareva coltivata; volgeva intorno un dugento quaranta stadi, e ci vedevamo anche uccelli marini, come gabbiani e alcioni, fare i loro nidi su gli alberi.

Allora venne a tutti un gran pianto, ma infine io diedi animo ai compagni, e fermammo la nave. Essi battuta la selce col fucile accesero del fuoco, e così facemmo un po' di cotto alla meglio. Avevamo intorno a noi pesci d'ogni maniera, e ci rimaneva ancora acqua di Espero. Il giorno appresso levatici, quando la balena apriva la bocca, vedevamo ora terre e montagne, ora solamente cielo, e talora anche isole, e così ci accorgemmo che essa correva veloce per tutte le parti del mare.

Poiché ci fummo in certo modo abituati a vivere così, io presi sette compagni e andai nella selva per scoprire il paese. Non ero andato cinque stadi, e trovo un tempio sacro a Nettuno, come diceva la scritta, e poco più in là molti sepolcri con colonne sopra, e una fonte d'acqua chiara, udimmo ancora il latrato d'un cane, e vedemmo fumo lontano, e pensammo ci fosse anche qualche villa. Affrettato il passo giungemmo a un vecchio e un giovinetto, che con molta cura lavoravano un orticello, e l'annaffiavano con l'acqua condotta dalla fonte.

Compiaciuti insieme e spauriti, ci fermammo; e loro, come si può credere, commossi del pari, rimasero senza parlare. Dopo alcun tempo il vecchio disse: Chi siete voi, o forestieri? forse geni marini o uomini sfortunati come noi? ché noi siamo uomini, nati e vissuti su la terra, e ora siamo marini, e andiamo nuotando con questa belva che ci chiude, e non sappiamo che cosa siamo diventati, ché ci par d'essere morti, e pur sappiamo di vivere.

A queste parole io risposi: Anche noi, o padre, siamo uomini, e siamo arrivati poco fa, inghiottiti l'altro ieri, con tutta la nave. Ci siamo inoltrati volendo conoscere com'è fatta la selva, che pareva grande e selvaggia. Qualche genio certamente ci guidò per farci vedere te, e sapere che non siamo chiusi noi soli in questa belva. Ma narraci i casi tuoi: chi sei tu, e come qui entrasti.

E quegli disse di non voler narrare né domandare alcuna cosa prima di offrirci i doni ospitali che egli poteva: ci prese e ci menò a casa sua, che egli stesso si era costruita, bastante per lui, con letti e altre comodità; ci mise innanzi alcuni ortaggi, e frutti e pesci, e versò anche del vino. Quando fummo sazi, ci domandò di nostra ventura, e io gli narrai distesamente ogni cosa della tempesta, dell'isola, del viaggio per l'aria, della guerra, fino alla discesa nella balena.

Egli ne fece le meraviglie grandi, e poi a sua volta ci narrò i casi suoi, dicendo: Io, o miei ospiti, sono di Cipro. Uscito per commerciare dalla mia patria, con questo mio figliuolo che vedete, e con molti altri servi navigavo per l'Italia, portando un carico di mercanzie sopra una gran nave, che forse alla bocca della balena voi vedeste sfasciata. Fino alla Sicilia navigammo prosperamente, ma di là un vento gagliardissimo dopo tre giorni ci trasportò nell'Oceano, dove abbattutici nella balena, fummo uomini e nave inghiottiti; e morti tutti gli altri, noi due soli scampammo. Sepolti i compagni, e rizzato un tempio a Nettuno, viviamo questa vita coltivando quest'orto, e cibandoci di pesci e di frutti. La selva, come vedete, è grande, e ha molte viti, dalle quali facciamo vino dolcissimo; ha una fonte, forse voi la vedeste, di chiarissima e freschissima acqua. Di foglie, ci facciamo i letti, bruciamo fuoco abbondante, prendiamo con le reti gli uccelli che volano, e peschiamo vivi i pesci che entrano ed escono per le branchie della balena; qui ci laviamo ancora, quando ci piace, che c'è un lago non molto salato, di un venti stadi di circuito, pieno d'ogni sorta di pesci, dove nuotiamo e andiamo in una barchetta che io stesso ho costruito. Son ventisette anni da che siamo stati inghiottiti, e forse potremmo sopportare ogni altra cosa, ma troppo grave molestia abbiamo dai nostri vicini, che sono intrattabili e selvatici.

E che? diss'io, sono altri nella balena? -Molti, rispose, e inospitali, e di stranissimo aspetto. Nella parte occidentale della selva, cioè verso la coda, abitano gl'Insalumati, genti con occhi d'anguille e facce di granchi, pugnaci, audaci, crudeli. Al lato destro sono i Tritonobecchi, simili agli uomini all'insù e all'ingiù ai pesci spada: questi sono meno tristi degli altri. Al lato sinistro i Granchimani e i Capitonni, che hanno fatto lega e comunella fra loro; nel mezzo abitano gli Sgranchiati e i Piedisogliole, gente guerriera e velocissima; la parte orientale verso la bocca è tutta deserta, perché battuta dal mare. Io poi tengo questo luogo pagando ogni anno ai Piedisogliole un tributo di cinquanta ostriche. Così fatto è il paese, e noi dobbiamo vedere come poter combattere con tante genti, e come viverci. - Quanti sono tutti questi? diss'io. - Più di mille, rispose. - E che armi hanno ? -Non altro che spine di pesci. - Bene, io dissi, li combatteremo: essi sono inermi, noi armati, quando li avremo vinti non ci staremo più con paura. -

E così stabilito, tornammo alla nave per prepararci. Cagione della guerra doveva essere il non pagare il tributo, che appunto stava per scadere. Infatti essi mandarono a chiederlo, e il vecchio superbamente rispondendo scacciò i messi: onde i Piedisogliole e gli Sgranchiati accesi d'ira contro Scintaro (così si chiamava il vecchio) vennero con gran fracasso ad assalirlo. Noi, che avevamo preveduto questo assalto, armati li aspettammo a pié fermo, avendo disposti in agguato venticinque uomini che come avessero veduto passare il nemico, dovessero levarglisi alle spalle: e così fecero. Usciti dai nascondigli li tagliano alle spalle; e noi che eravamo altri venticinque, perché Scintaro e il figliuolo combattevano con noi, li affrontammo, con gran coraggio e bravura combattendo in mezzo a gravi pericoli. Infine li mettemmo in fuga, e l'inseguimmo fino alle loro tane.

Perirono dei nemici centosettanta, dei nostri il solo pilota, trafitto nel tergo da una lisca di triglia. Quel giorno e la notte accampammo dove s'era combattuto, e vi rizzammo un trofeo piantando un'intera spina di un delfino morto.

Il giorno appresso, saputo il fatto, comparvero anche gli altri: nell'ala destra erano gl'Insalumati guidati da capitan Pelamida, nella sinistra i Capitonni, nel centro i Granchimani. I Tritonobecchi se ne stettero cheti, e non tennero per nessuno. Noi andammo ad assalirli presso al tempio di Nettuno e ci mischiammo con altissime grida, sì che la balena tutta ne rintronava, come una spelonca. Rivolta in fuga quella nuda accozzaglia, l'inseguimmo fino alla selva, e ci impadronimmo di tutto il rimanente del paese. Indi a poco mandarono trombetti a chiedere di seppellire i morti, e di fare amicizia con noi; ma noi non volevamo patti, e l'altro giorno fummo loro sopra, e li sterminammo tutti quanti, tranne i Tritonobecchi i quali veduto la mala parata, quatti quatti per le branchie della balena se la svignarono nel mare. E così spazzato il paese, e nettatolo da ogni nemico, l'abitavamo senza paura, esercitandoci nella ginnastica, nella caccia, a coltivare la vigna, a cogliere i frutti dagli alberi; insomma stavamo come prigionieri che vivono in un grande e sicuro carcere senza catena e comodamente. Un anno e otto mesi passammo in questo modo.

Nel nono mese, al quinto giorno, verso la seconda apertura della bocca (una volta l'ora la balena apriva la bocca, e così noi contammo il tempo), verso dunque la seconda apertura, a un tratto si udì un gran gridare e un fracasso come di voga arrancata e di rematori. Sbigottiti ci arrampicammo alla bocca della balena, e stando in mezzo ai denti, vedemmo il più meraviglioso spettacolo di quanti mai io ne abbia veduti, omaccioni di mezzo stadio, che navigavano su grandi isole come sopra triremi. So che racconto cose che paiono incredibili, ma pure le dirò.

Le isole erano ben lunghe, non molto alte, ciascuna un cento stadi di circuito; su esse navigavano un centoventi di questi omaccioni, dei quali alcuni seduti in ordine ai due lati dell'isola vogavano tenendo in mano grandi cipressi con tutti i rami e le fronde, come fossero remi, dietro a poppa sopra un alto colle stava il pilota con in mano il timone lungo uno stadio, sulla prora una quarantina di armati combattevano, simiglianti a uomini, tranne la chioma che era fuoco e ardeva, onde non avevano bisogno di elmo.

Invece di vele ciascuna aveva molta boscaglia, dove il vento colpiva, e portava l'isola dove voleva il pilota. V'era il nostromo che incuorava la ciurma; erano sparvierate a remi, come galere. Da prima ne vedemmo due o tre, poi ne apparvero un seicento, che presero il largo e appiccarono battaglia. Molte cozzavano con le prore fra loro, e molte a quell'urto affondavano: alcune s'appiccavano strettamente l'una all'altra e combattevano, e non si volevano staccare.

Quelli schierati sulle prore mostravano un gran valore, saltando d'una in un'altra e uccidendo, ché non si facevano prigioni. Invece di uncini e mani di ferro gettavano grandi polipi appiccati insieme, i quali abbrancavano gli alberi della boscaglia, e tenevano l'isola. Si ferivano scagliandosi ostriche ognuna quanto un carro, e spugne di un mezzo iugero.

Una flotta era capitanata da Eolocentauro, un'altra da Bevimare: erano venute a battaglia per cagione di certa preda, come credo; perché Bevimare aveva rubate ad Eolocentauro molte greggi di delfini; così io potei udire mentre combattendo si oltraggiavano tra loro, e gridavano i nomi dei loro re. Infine quei d'Eolocentauro vinsero, affondarono un cencinquanta isole dei nemici, tre ne presero; le rimanenti voltarono la prora e fuggirono.

Essi le inseguirono per certo spazio, ma sopravvenuta la sera, tornarono dove s'era combattuto, raccolsero molto bottino, e ripresero molte cose loro perdute, ché anch'essi ebbero affondate non meno di ottanta isole. Per quella battaglia isolana posero un trofeo, appesero al capo della balena una delle isole nemiche. Quella notte si fermarono intorno alla balena, alla quale legarono le loro gomene; alcune isole stettero li vicino sull'ancora. Le ancore erano grandi, di vetro, saldissime. Il giorno appresso, fatto un sacrificio sopra la balena, e su essa sepolti i loro morti, sciolsero lieti, e come cantando vittoria. E questa fu la battaglia delle isole.

LIBRO SECONDO

Da allora in poi, non potendo io sopportare di rimanere più a lungo nella balena, andavo mulinando come uscirne. In prima ci venne il pensiero di forare nella parete del fianco destro, e scappare. Ci mettemmo a cavare; ma cava, e cava quasi cinque stadi, era niente: onde smettemmo, e pensammo di bruciare il bosco, e così far morire la balena. Riuscito questo, ci sarebbe facile uscire. Cominciando dunque dalle parti della coda vi mettemmo fuoco, e per sette giorni ed altrettante notti non sentì bruciarsi; nell'ottavo ci accorgemmo che si risentiva, ché più lentamente apriva la bocca, e come l'apriva la richiudeva. Nel decimo e nell'undecimo era quasi incadaverita, e già puzzava. Nel dodicesimo appena noi pensammo che se in un'apertura di bocca non le fossero puntellati i denti mascellari da non farglieli più chiudere, noi correremmo pericolo di morir chiusi dentro la balena morta: onde puntellata la bocca con grandi travi, preparammo la nave, vi riponemmo molta provvigione d'acqua, e destinammo Scintaro a fare da pilota. Il giorno appresso era già morta, noi varammo la nave, e tiratala per l'intervallo dei denti, e ad essi sospesala dolcemente la calammo nel mare.

Essendo usciti a questo modo, salimmo sul dorso della balena, e fatto un sacrifizio a Nettuno, presso il trofeo, ivi rimanemmo tre dì, ché era bonaccia, e il quarto ci mettemmo alla vela. Per via scontrammo e urtammo molti di quelli morti nella battaglia, e misurandone quei corpacci ne facemmo le maraviglie Per alquanti giorni navigammo in un'aria temperata; poi si mise un maestrale così violento, e venne un freddo così grande che tutto il mare gelò, non nella sola superficie, ma fino a trecento braccia di profondità, onde noi scendemmo e ci mettemmo a correre sul ghiaccio.

Durava il vento, non si poteva andare, facemmo una pensata, che veramente fu di Scintaro. Scavammo nell'acqua una spelonca grandissima; e quivi stemmo trenta giorni, tenendo acceso un buon fuoco, e mangiando i pesci che avevamo trovati nello scavare. Ma poiché mancavano le provvigioni, demmo di piglio alla nave incagliata, la tirammo su, e aperte le vele, eravamo portati come se navigassimo facile e dolcemente, sdrucciolando sul ghiaccio. Il quinto giorno venne il caldo, il gelo si sciolse, e tutto tornò acqua.

Fatto un cammino di un trecento stadi, approdammo a un'isoletta deserta, dove ci provvedemmo d'acqua, che già mancava, saettammo due tori selvaggi, e partimmo. Questi tori avevano le corna non sopra la testa, ma sotto gli occhi, come voleva Momo. Indi a poco entriamo in un mare non di acqua, ma di latte; e in mezzo a esso si vedeva biancheggiare un'isola, piena di viti. L'isola era un grandissimo formaggio, ben rassodato, come dipoi ce ne chiarimmo mangiandone, e girava intorno venticinque stadi; le viti erano cariche di grappoli, dai quali non vino, ma sprememmo latte, e bevemmo. Nel mezzo dell'isola era fabbricato un tempio a Galatea (la Lattaia) figliuola di Nereo, come diceva l'iscrizione. Durante il tempo che quivi rimanemmo avemmo per pane e companatico la terra dell'isola, e per bevanda il latte dei grappoli. Regina di quel paese si diceva che era Tiro (la Caciosa), la figliuola di Salmoneo, la quale poi che fu lasciata da Nettuno ebbe quest'onore.

Rimasti cinque giorni nell'isola, nel sesto partimmo accompagnati da un venticello che increspava leggermente il mare. Nell'ottavo giorno navigando non più nel latte ma nell'acqua salsa e cerulea, vediamo correre sul mare molti uomini simili a noi per le fattezze e la statura, se non che avevano i piedi di sughero, onde erano chiamati Sugheropedi. Era una maraviglia vedere come non affondavano, ma si tenevano sull'acqua, e vi camminavano senza paura; si avvicinarono a noi, ci salutarono in lingua greca, e ci dissero che andavano in Sugheria loro patria. Per certo spazio ci accompagnarono correndo presso la nave; poi dovendo voltare strada, ci diedero il buon viaggio e andarono via.

Poco appresso ci apparvero molte isole: la più vicina a sinistra era Sugheria, dove quelli andavano, città fabbricata sopra un grande e rotondo sughero; lontano e verso destra cinque grandissime e altissime su le quali ardeva molto fuoco, dirimpetto alla prora una larga e bassa, dalla quale eravamo lontani non meno di cinquecento stadi. Avvicinandoci a questa, maravigliati sentimmo spirarci intorno un'aura soave e fragrante, come quella che dice lo storico Erodoto, spira dall'Arabia felice.

Qual'è l'odore che viene da rose, da narcisi, da giacinti, da gigli, da viole, e dal mirto pure, dal lauro, e dal fior della vite, tale era la soavità che a noi veniva. Dilettati da quest'odore, e sperando un po' di bene dopo così lunghi travagli, più e più ci facemmo vicini all'isola, dove scorgemmo per tutto parecchi porti tranquilli e capaci, fiumi di pura acqua che placidamente mettevano in mare, e prati, e selve, e uccelli che cantavano quali sul lido, quali su per i rami degli alberi. Un'aria pura e viva era diffusa su quel paese; aurette piacevoli spirando movevano leggermente il bosco: onde dai rami commossi usciva dilettosa e continua una melodia, come suono di flauto in una parte deserta. E s'udiva un indistinto di molte voci, non tumultuose, ma quali uscirebbero da un banchetto, dove altri suona, altri canta, altri applaude al suono del flauto o della cetra.

Tra tutte queste dolcezze approdiamo in un porto, e fermata la nave, discendiamo, lasciando Scintaro e due altri compagni. Avanzandoci per un prato fiorito, incontrammo le guardie, le quali ci legarono con ghirlande di rose, che è il legame più duro per loro, e ci menarono alla signoria: ed esse per via ci dissero che quella era l'isola dei Beati, e n'era signore il cretese Radamanto.

Condotti innanzi a costui, fummo giudicati dopo tre altre cause. La prima causa fu d'Aiace Telamonio, se egli debba star con gli eroi o no: lo accusavano che era andato in furore e s'era ucciso; infine essendosi molto parlato e per il sì e per il no, sentenziò Radamanto: Per ora beva l'elleboro, e sia dato in mano al medico Ippocrate di Coo; dipoi quando avrà rimesso senno, avrà parte nel banchetto. La seconda fu una quistione amorosa fra Teseo e Menelao, che contendevano chi dei due dovesse tenersi Elena. E Radamanto decise che se la tenesse Menelao, il quale aveva sostenuto tante fatiche e tanti pericoli per lei; che Teseo aveva altre donne, l'Amazzone e le figliuole di Minosse. La terza causa fu chi dovesse avere il luogo più onorato se Alessandro di Filippo o Annibale cartaginese: fu deciso per Alessandro, e gli fu portato un seggio accanto al vecchio Ciro persiano.

In quarto luogo fummo presentati noi, ed egli ci domandò per quale cagione essendo ancor vivi eravamo entrati in quel sacro paese. Noi gli narrammo ogni cosa. Egli ci fa allontanare, e lungamente discute la nostra causa con i suoi assessori; e fra gli altri e molti suoi assessori era Aristide il giusto, l'ateniese. Sentenziò e dichiarò: che della nostra curiosità e del nostro viaggio saremmo puniti dopo morte, per ora rimanessimo un certo tempo nell'isola in compagnia dei Beati, e poi andassimo via. Stabilì il termine della dimora non più lungo di sette mesi. Allora ci caddero da sé le ghirlande, e così sciolti fummo condotti nella città al banchetto dei Beati.

La città è tutta oro, il muro che la cinge di smeraldi; ha sette porte, ciascuna un pezzo di legno di cannella; il pavimento della città e la terra dentro le mura è d'avorio: vi sono templi a tutti gli Dei e fabbricati di berillo; in essi are grandissime, d'una sola pietra, d'ametista, sulle quali fanno le ecatombe. Presso la città scorre un fiume di bellissimo unguento, largo cento cubiti reali, e profondo che vi si può anche nuotare. I loro bagni sono edifizi grandi, tutti di vetro; vi bruciano cannella e invece di acqua nelle stufe è rugiada calda. Per le vesti usano ragnatele sottilissime porporine. Non hanno corpi, sono impalpabili, e senza carne, non altro che figure e idee, e quantunque incorporei pure stanno, si muovono, pensano, parlano: insomma pare che l'anima nuda vada intorno vestita d'una certa immagine di corpo: e se uno non li toccasse, non si convincerebbe che ciò che vede non è corpo: sono ombre, ma ritte in piedi, e non sono nere. Nessuno v'invecchia, ma in quell'età che ci viene rimane. Quindi non è né notte né giorno chiaro, ma un barlume simile all'albore mattutino prima che spunti il sole. Non conoscono stagioni, è sempre primavera, e vi spira un solo vento, il zeffiro. Il paese produce tutti i fiori, tutti gli alberi domestici e ombrosi; la vite getta dodici volte l'anno, fa il frutto ogni mese; il melograno, il melo e gli altri alberi fruttiferi portano tredici volte, come mi dissero; ché in un mese, chiamato di Minosse, fanno due volte il frutto. Invece di frumento le spighe in cima producono cialdoni belli e fatti, come fossero funghi. Fontane intorno alla città ce ne sono trecentosessantacinque di acqua, di miele altrettante, di unguento cinquecento ma più piccole; sette fiumi di latte, e otto di vino.

Il banchetto si fa fuori della città nel campo detto Elisio: c'è un prato bellissimo, e intorno a esso un bosco svariato, frondoso, di piacevole ombra a chi vi sta sdraiato, e sotto un tappeto di fiori. Valletti e scalchi sono i venti; non c'è bisogno di coppieri, perché intorno al banchetto sono grandi alberi di lucentissimo vetro, i quali per frutti producono tazze d'ogni fatta, e grandezza. Quando uno viene al banchetto coglie una o due di quelle tazze, e se le mette innanzi e quelle subito da sé medesime si riempiono di vino: così bevono. Invece di ghirlande gli usignoli e gli altri uccelli melodiosi dal vicino prato raccolgono i fiori nel becco, e ne spargono un nembo sovr'essi cantando e volando.

Gli unguenti sono sparsi così: certe nuvolette dense tirano unguento dalle fonti e dal fiume, e librate sul banchetto, mosse leggermente dai venti, piovono una spruzzaglia fina come rugiada. Nel desinare usano musiche e canti: sono cantati specialmente i versi d'Omero, il quale è lì presente, e banchetta coi Beati, ed è adagiato vicino a Ulisse. Vi sono cori di fanciulli e di vergini: li guidano e li concertano Eunomo di Locri, Arione di Lesbo, e Anacreonte, e Stesicoro ancora che vedemmo lì già rappattumato con Elena. Quando cessano questi cori di cantare, ne vengono altri di cigni, di rondini, di usignoli, e quando hanno cantato anche questi, allora tutto il bosco risponde con un suono che pare di flauti, e i venti battono il tempo. Ma la maggior consolazione è questa: ci sono due fonti vicino al banchetto, una del riso, un'altra del piacere: tutti quanti prima di banchettare tolgono una buona sorsata o dell'una o dell'altra, così banchettano scherzando e ridendo.

Ora voglio parlare degl'illustri che ci vidi. Tutti i semidei, e quelli che guerreggiarono a Troia, tranne Aiace di Locri, lui solo dicevano punito nel paese degli empi. Dei barbari c'erano i due Ciri, lo scita Anacarsi, il trace Zamolchi, e Numa italiano; c'era anche Licurgo lacedemone, Focione e Tallo ateniesi; e i sapienti, eccetto Periandro. Vidi Socrate di Sofronisco, che chiacchierava con Nestore e Palamede, e vicino a lui erano Jacinto lacedemonio, il tespiese Narciso, Ila, e altri belli. A me parve innamorato di Jacinto, e a molti segni si conosceva. Dicevano che Radamanto l'aveva in uggia, e più d'una volta l'aveva minacciato di sfrattarlo dall'isola, se egli seguitasse le sue baie, e non lasciasse l'ironia. Il solo Platone non c'era, ma dicevasi abitare una città che egli stesso aveva fatta, con quel governo e leggi che egli le aveva dato. Aristippo ed Epicuro c'erano i primi, essendo piacevoli e bravi compagnoni. C'era anche Esopo frigio, che faceva da buffone. C'era Diogene tanto mutato da quel di prima, da sposar Laide, spesso levarsi a ballare ubriaco, e fare altre pazzie nel vino. Degli stoici poi non c'era nessuno: si diceva che ancora salivano il loro alto monte della virtù. Anzi udimmo dire che Crisippo non poteva entrare nell'isola, se prima non si fosse quattro volte ben purgato con l'elleboro. Si diceva pure che gli Accademici vogliono venirci, sì, ma s'astengono, e discutono, né arrivano a capire se l'isola esiste o no; ma credo, io, perché temono il giudizio di Radamanto, come quelli che hanno tolto via il criterio.

Molti, come si diceva, si erano pure spinti a seguire chi ci veniva, ma poi per pigrizia erano rimasti indietro, per non capire affatto, ed erano tornati a mezza via. E questi fra tutti sono i più degni di memoria: in più onore era tenuto Achille, e dopo di lui Teseo.

Nei piaceri di Venere c'è gran larghezza: si mescolano allo scoperto, a vista di tutti, con femmine e con maschi, e non pare loro affatto vergogna: solo Socrate giurava che non faceva un mal pensiero quando s'accostava ai fanciulli, ma tutti tenevano che egli spergiurasse; ché spesso Jacinto e Narciso confessavano, ed egli sempre no. Le femmine sono comuni a tutti, nessuno è geloso di un altro, e in questo sono platonicissimi: i fanciulli si prestano a chi vuole, senza ripugnanza.

Non erano scorsi due o tre giorni, e io avvicinatomi al poeta Omero chiacchierai di molte cose, e gli domandai di dove era, dicendogli che di questo fino al giorno d'oggi si fa un gran quistionare tra noi. Ed egli mi rispose che sapeva come alcuni lo fanno di Chio, altri di Smirne, e molti di Colofone; ma egli era di Babilonia, e dai suoi cittadini non chiamato Omero, ma Tigrane; e che poi venuto in Grecia con altri ostaggi, qui chiamati omeri, aveva mutato il nome. Gli domandai anche di certi versi riprovati, se erano stati scritti da lui; ed egli mi disse che tutti eran suoi; onde io mandai un canchero a Zenodoto e ad Aristarco grammatici che cercano il pelo nell'uovo. E questo verso? Sì. E quest'altro? Anche. E perché cominciasti da quel Cantami l'ira? Perché così mi venne in capo: credi tu che ci pensavo? Ed è vero, come dicono molti, che scrivesti l'Odissea prima dell'Iliade? Costoro non sanno quel che si dicono. Che egli poi non era cieco, come dicono, me ne avvidi subito, perché lo guardai in fronte: onde non fu bisogno domandarlo. E di queste chiacchierate ne facevamo spesso: quando lo vedevo sfaccendato, mi avvicinavo a lui e gli domandavo qualche cosa; ed egli volentieri mi rispondeva a tutto, specialmente dopo che si sbrigò d'una causa, che egli vinse. Gli fu posta una querela d'ingiuria da Tersite, per quei motti scottanti che gli gittò nella sua poesia, ma Omero si prese Ulisse per avvocato, e riuscì vincitore.

In quel tempo appunto ci venne Pitagora di Samo, che allora aveva finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiùti i sette periodi dell'anima, e aveva d'oro tutto

il lato destro. Fu deciso di ammetterlo con gli altri, ma non si sapeva ancora se chiamarlo Pitagora o Euforbio. Ci venne anche Empedocle col corpo tutto bruciato e arrostito, e non fu ricevuto, benché egli pregasse e ripregasse.

Indi a poco venne il tempo dei giuochi, che essi chiamano i Mortuarii, ai quali presiedettero Achille la quinta volta, e Teseo la settima. Sarebbe troppo lungo riferirne ogni cosa: dirò le principali. Nella lotta fu vincitore Caro l'Eraclide, e accoppò Ulisse, che gli contendeva quella corona; nel pugilato furono pari Areo egiziano, che è sepolto in Corinto, ed Epeo, venuti alle prese tra loro; per il pancrazio non ci sono premi lì; nella corsa non mi ricordo più chi fu vincitore. Dei poeti per verità Omero superò tutti, pure Esiodo fu vincitore. Il premio per tutti era una corona intrecciata di penne di pavone.

Finiti allora i giuochi, si annunzia che i carcerati nel paese degli empi, rotte le catene e vinti i custodi, venivano ad assalire l'isola, guidati da Falaride d'Agrigento, da Busiride l'egiziano, da Diomede il trace, da Scirone ancora, e dal Piegapini. A questa notizia Radamanto schiera gli eroi sul lido: li capitanavano Teseo, Achille e Aiace Telamonio già rinsavito. Si venne a battaglia, e vinsero gli eroi per le gran valentie di Achille. Si portò da bravo anche Socrate, che stava nell'ala destra, molto meglio che non combatté a Delio quando era vivo; ché all'avvicinarsi dei nemici, non fuggì né voltò faccia; e però gli fu dato dipoi in premio del valore un bel giardino suburbano, dove egli si raccoglieva con gli amici a ragionare, e lo chiamava la Mortaccademia. Presi dunque i vinti, e legati, furono rimandati a pene maggiori. Omero scrisse anche questa battaglia, e quand'io me ne andai, egli mi diede il libro per portarlo tra gli uomini; ma poi con tante altre cose io lo perdei; pure mi ricordo che il poema cominciava così:

Ed or cantami, o Musa, la battaglia

De' morti eroi.

Fu cotto un calderone di fave, come usano quando si celebra la vittoria d'una battaglia, e si misero a scialare, e fare gran festa; solo non vi prese parte Pitagora, che se ne stette digiuno e lontano, abbominando egli di mangiar fave.

Essendo già trascorsi sei mesi e metà del settimo, avvenne nuovo caso. Ciniro figliuolo di Scintaro, bello e grande della persona, da un pezzo s'era innamorato di Elena, ed ella pareva proprio impazzita del giovane. Spesso a tavola si facevano segni tra loro, e brindisi, e si levavano e andavano soli a passeggiare nel bosco. Per questo amore, e non sapendo che fare, Ciniro pensò di rapire Elena, e fuggire; ed essa acconsentì di scapparsene in una delle isole vicine, nella Soveria, o nell'Incaciata. Avevano già

tirato dalla loro tre dei miei compagni, i più arrisicati; al padre egli non fece trapelare niente, perché sapeva che lo avrebbe impedito. Quando loro parve il bello, misero in atto il loro disegno.

Venuta la notte (io non c'ero, che a cena m'ero addormentato), essi senza che nessuno li vedesse, pigliano Elena, e presto vanno via. Verso la mezzanotte svegliatosi Menelao, e trovato il letto vuoto e senza la moglie, getta un grido, va dal fratello, corrono alla reggia di Radamanto. Fatto giorno, le vedette dicevano vedere la nave molto lontano; onde Radamanto fa montare cinquanta eroi in una nave d'asfodillo tutta d'un pezzo, e comanda che l'inseguano. Fanno gran forza di remi, e verso il mezzogiorno li raggiungono che già erano entrati nel mare del latte presso all'Incaciata: così poco mancò che gli amanti non se la svignassero. Legarono la nave con una catena di rose, e rimorchiandola se ne tornarono. Elena piangeva, e stava vergognosa, e si nascondeva la faccia; Ciniro e i compagni furono interrogati da Radamanto se erano accordati con altri, ed essi dissero di no. Radamanto li fece legare per i genitali, e li mandò nel paese degli empi, fattili prima ben flagellare con malve.

Fu decretato di cacciare anche noi dall'isola, e datoci tempo a rimanervi solo il giorno appresso. Io m'addolorai e piansi di dover lasciare tanti beni e rimettermi alla ventura: ma quelli mi consolavano dicendo che tra pochi anni ritornerei tra loro, e mi additavano un seggio e un posto serbato per me vicino ai migliori.

Andai da Radamanto, e molto lo pregai di dirmi il futuro, e i casi che avrei per mare. Ed egli mi rispose che tornerei sì in patria, ma dopo molto vagare e molti pericoli; e non mi volle dire il tempo del ritorno, ma additandomi le isole vicine (se ne vedevano cinque, e una più lontana): Queste, mi disse, sono le isole degli empi, queste vicine su cui vedi bruciar gran fuoco; la sesta è la città dei sogni, dopo viene l'isola di Calipso, che non si vede affatto. Quando avrai oltrepassato queste isole arriverai sul gran continente che è opposto a quello abitato da voi: quivi dopo molti travagli e viaggi per diverse genti, e tra uomini intrattabili, tornerai alla fine nell'altro continente. Questo disse, e divelta da terra una radice di malva, me la porse, ingiungendomi che nei più gravi pericoli mi raccomandassi a quella. E mi diede questo avvertimento: Quando arriverai in quella terra, non cavare il fuoco con la spada, non mangiare lupini, non t'impacciare con compagni che abbiano più di diciotto anni. Abbi questo a mente, e sii certo che tornerai in quest'isola.

Dopo di questo cominciai i preparativi per la partenza, ma, essendo già l'ora, andai a cenare con loro. Il giorno appresso andai dal poeta Omero, e lo pregai di farmi un'iscrizione: egli subito me la fece, e io la scrissi sopra una colonna di berillo, che rizzai sul porto. L'iscrizione era questa:

Luciano che fu caro ai beati

Numi del Cielo,esti beati lochi

Vide, e tornossi nella patria terra.

Essendo rimasto per quel giorno, l'indomani partii; gli eroi vennero ad accompagnarmi, tra i quali Ulisse mi si accostò, che di nascosto di Penelope mi diede una lettera da portare a Calipso nell'isola Ogigia. Radamanto ci fece accompagnare dal pilota Nauplio, perché se fossimo capitati a quelle isole nessuno ci prendesse, dato che noi eravamo in mare per altre faccende. Poiché uscimmo da quell'aria odorosa, subito un gran puzzo ci circondò come d'asfalto, di zolfo, e di pece che ardano insieme, e un fumo stomachevole e insopportabile, come quello che viene dai cadaveri che bruciano. L'aria era scura e caliginosa, e pioveva una pioggia di pece; e s'udiva rumore di flagelli, e lamenti di molti uomini. Non ci avvicinammo alle altre isole, ma quella su cui smontammo era tutto intorno balze e dirupi nudi, senz'alberi, e senz'acqua; pure arrampicatici per quei precipizi, ci mettemmo per un piccolo sentiero pieno di spine e di stecchi, e camminando tra grande squallore e orrore venimmo alle carceri, al luogo dei supplizi, che era mirabile, e così fatto. Il suolo per ogni parte era irto di spade e di spiedi, e intorno scorrevano tre fiumi, uno di fango, uno di sangue, uno più dentro di fuoco; e questo grande e invalicabile correva come acqua, si gonfiava come mare, e aveva pesci quali come tizzoni, quali più piccoli come carboni accesi, e chiamati lucernette. Una sola e stretta è l'entrata, e portinaio vi stava Timone ateniese.

Entrati noi dietro la guida di Nauplio, vedemmo i supplizi di molti re, e di molti privati, dei quali riconobbi alcuno. Vedemmo anche Ciniro che stava ad affumicarsi appiccato per i genitali. Le guide ci narravano la vita di ciascuno, e le cagioni dei supplizi; e dicevano che le pene più gravi sono date ai bugiardi e specialmente agli storici che non scrivono la verità, come Clesia di Cnido, Erodoto, e altri molti. Ond'io vedendo costoro, tutto mi consolai per me, ché io non so d'aver detto mai bugia.

Tornato subito alla nave, ché non potevo più sostener quella vista, accomiatai Nauplio, e partii. Indi a poco eccoci presso l'isola dei sogni, che pareva e non pareva, proprio come un sogno, ché come noi ci avvicinammo, essa si ritraeva, ci sfuggiva, e più si allontanava. Infine l'afferrammo, ed entrati nel porto detto del sonno, presso la porta d'avorio, dov'è il tempio del Gallo, a sera tardi smontammo; ed entrati nella città, vedemmo molti e vari sogni. Ma voglio prima dire della città, ché nessuno ne ha scritto, e Omero che il solo ne fa menzione, non ne scrisse niente bene. Intorno le gira una selva di alberi altissimi che sono papaveri e mandragori, sui quali sta un nugolo di pipistrelli, soli volatili che nascono nell'isola: vicino le scorre un fiume chiamato il Nottivago, e presso le porte sono due fontane, dette Nonsisveglia e Tuttanotte.

Le mura della città sono alte, e variamente colorate come l'iride. Le porte non sono due, come disse Omero, ma quattro: due guardano verso il campo della pigrizia, una di ferro, un'altra di mattoni, per le quali entrano ed escono i sogni terribili, micidiali, crudeli; due verso il porto e il mare, l'una di corno, l'altra, onde noi passammo, d'avorio. Entrando nella città si trova a destra il tempio della Notte: questa, fra tutte le divinità, è quivi adorata, e il Gallo, il cui tempio sta presso il porto. A sinistra sta la reggia del Sonno, il quale è re, e ha due satrapi e vicarii, lo Sconturbato figliuolo di Nascivano, e l'Arricchito figliuolo di Fantasio. In mezzo alla piazza è una fontana detta l'Assopita, e vicino due templi dell'Inganno e della Verità, nei quali è il sacrario e l'oracolo, e per sacerdotessa che spiega i sogni la Contraddizione, alla quale il re Sonno ha dato quest'onore.

Il popolo dei sogni non era d'una razza e d'un aspetto, ma quali erano lunghi, dolci, belli, piacevoli; altri piccoli, duri, brutti; altri tutti oro e ricchi; altri poveri e meschini. Ve n'erano alati e di strane figure; e di quelli vestiti sfarzosamente, alcuni da re, alcuni da dii, e altri con altri ornamenti. Ne riconoscemmo parecchi, che già vedemmo nel nostro paese, i quali ci vennero incontro, ci salutarono, come suol farsi tra vecchi amici, ci presero per mano, ci vollero ospiti, e fattici addormentare, ci trattarono con grande sfarzo e splendidezza, e ci promisero di farci re e satrapi. Alcuni ci condussero anche nelle nostre patrie, ci mostrarono i nostri, e lo stesso giorno ci ricondussero.

Trenta giorni e altrettante notti rimanemmo tra essi dormendo e scialando; poi all'improvviso scoppio d'un gran tuono svegliati, e levatici in piedi, facemmo provvigioni e partimmo.

Il terzo giorno giunti all'isola Ogigia, smontammo. Io prima di tutto sciolsi i legami della lettera, e la lessi. Diceva così: « Ulisse a Calipso salute. Devi sapere che io quando mi partii da te su la zattera che io mi ero costruita, feci naufragio, e a pena fui salvato da Leucotoe nel paese dei Feaci; dai quali rimandato a casa mia, vi trovai molti cicisbei di mia moglie, che sguazzavano su la roba mia. Io li uccisi tutti quanti, e infine Telegono, che mi nacque da Circe, uccise me. E ora sono nell'isola dei Beati, pentito assai di aver lasciata la bella vita che menavo con te, e l'immortalità che tu mi offrivi. Se dunque mi verrà fatto, me ne fuggirò e sarò da te ».

Questo era il senso della lettera; diceva ancora due parole di raccomandazione per noi. Essendomi allontanato un po' dal mare, trovai la grotta della dea tale quale la descrive Omero, e lei che filava lana. Come ella prese la lettera e la lesse, pianse lungamente, poi ci invitò alla mensa ospitale, ci trattò lautamente, e ci domandò di Ulisse e di Penelope, come essa era di volto, e se era casta, come Ulisse gliela vantava; e noi le rispondemmo cose che ci pareva le dovessero piacere. Poi ce ne tornammo alla nave e li vicino sul lido ci addormentammo. La mattina, messosi un buon vento, salpammo.

Per due giorni avemmo burrasca, il terzo incontrammo i Zucchepirati, uomini feroci, che dalle isole vicine assaltano e svaligiano chi naviga per quei mari. Hanno grandi navigli, che sono zucche lunghe sessanta cubiti. Quando sono secche le vuotano, ne cavano la midolla, e vi navigano armandole con alberi di canna e con vele fatte di foglie di zucche.

Ci assaltano adunque con due di quelle loro fuste bene armate, ci combattono, feriscono molti scagliandoci, invece di pietre, grossi semi di zucche. Durava incerta la battaglia, quando verso mezzodì vediamo dietro i Zucchepirati venire a vele gonfie i Nocinauti, loro sfidati nemici, come poi si vide. Come quelli si accorsero d'essere assaliti, lasciarono noi e si rivolsero a combattere coloro; e noi levata la vela fuggimmo, lasciandoli che s'accapigliavano tra loro. Ci parve che il vantaggio l'avessero i Nocinauti, perché avevano cinque navigli bene armati e più forti. I navigIi erano mezzi gusci di noci, vuotati, e ogni mezzo guscio aveva la lunghezza di quindici cubiti.

Perduti di vista, ci demmo a curare i feriti; e da allora in poi stemmo sempre su l'armi, aspettandoci qualche altra insidia: e ci giovò. Ché non s'era ancora coricato il sole, e da un'isola deserta ci vengono sopra con gran furia una ventina d'uomini cavalcanti sopra delfini: eran questi anche ladri, e i delfini che li portavano galoppavano e nitrivano come cavalli. Avvicinatisi si sparpagliano chi di qua chi di là, e ci scagliano ossi di seppie, e occhi di granchi; e noi con dardi e saette li respingiamo: sicché avuti parecchi feriti, fuggirono a rimbucarsi nell'isola.

Verso la mezzanotte, essendo bonaccia, urtammo senza avvedercene in un grandissimo nido d'alcione, che aveva un sessanta stadii di circuito. Su esso stava l'alcione che covava le uova, e non era minore del suo nido, per modo che quando si levò per poco non fece affondare la nave col vento delle ali. Se ne fuggì mandando un lugubre lamento. Discesi sul fare del giorno, vediamo il nido simile a una grossa zattera fatta di grossi alberi; sopra vi stavano cinquecento uova, ogni uovo più capace d'una botte di Chio; dentro ai quali si vedevano i pulcini che pigolavano. Con la scure aprimmo un uovo, e ne cavammo un pulcino implume, più grosso di dodici avvoltoi.

Passati un dugento stadi oltre il nido, ci avvennero grandi e mirabili prodigi: il paperin di prora a un tratto starnazzò l'ali e strillò; il pilota Scintaro, che era calvo, rimbiondì; e la più nuova fu che l'albero della nave germogliò, mise i rami, ed in punta portò frutti, fichi e uve grandi, non ancora mature. A questa vista noi naturalmente sbigottiti pregammo gl'Iddii di allontanar da noi la maluria. Non eravamo andati oltre un cinquanta stadii, e vediamo una selva grandissima e folta di abeti e di cipressi.

Credemmo fosse il continente, ma era il mare senza fondo che aveva germinati alberi senza radici; gli alberi stavano saldi, ritti, e piantati su l'acqua. Fattici più da presso, guarda e riguarda, non sapevam che fare: navigare per mezzo gli alberi folti e continui non era possibile, tornare indietro non era facile. Io m'arrampicai sopra l'albero più alto per scoprire qualcosa al di là, e vidi che la selva continuava così cinquanta stadii o poco più, e dipoi c'era altro mare. Pensammo dunque di porre la nave sopra gli alberi che eran foltissimi, e tragittarla, se era possibile, nell'altro mare; e così facemmo. La legammo con un gran canapo, e montati su gli alberi, a gran fatica la tirammo su; e adagiatala sopra i rami, spiegata la vela, andavamo come sul mare, spinti dal vento. Allora mi ricordai del poeta Antimaco, che in una parte dice:

Venian per mar selvoso navigando.

Valicata la selva giungemmo all'acqua, e calata la nave allo stesso modo, navigammo su l'acqua limpida e trasparente; finché pervenimmo sopra una gran voragine che si apriva nell'acqua, come quelle che vediamo per terremoto su la terra. La nave, ammainata subito la vela, a pena si fermò, e mancò poco che non fosse travolta giù. Sporgemmo il capo, e vedemmo una profondità di quasi mille stadi, terribile molto e maravigliosa; l'acqua rimaneva come spaccata. Guardando intorno vedemmo verso destra non molto lontano un ponte fatto di acqua, la quale univa i due lembi dello spacco, e dall'un mare correva nell'altro. Facendo forza di remi piegammo a quella parte, e con molta agonia tragittammo il ponte, e non ce lo credevamo.

Quindi ci accolse un mare tranquillo e un'isola non grande, accessibile, abitata da uomini selvatici, detti Bucefali, con teste di bue e corna, come si dipinge il Minotauro. Discesi, c'inoltrammo per fare acqua, e anche un po' di vettovaglia, se era possibile, perché non ne avevamo più. Trovammo l'acqua li vicino; ma altro non appariva niente, se non che udimmo certi muggiti poco lontani. Credendo che fosse una mandra di buoi, prendiamo quella via, e troviamo uomini, i quali al vederci ci danno addosso, e afferrano tre compagni: noi altri fuggiamo alla dirotta verso il mare. Ma armatici dipoi tutti quanti (che non volevamo lasciare i compagni invendicati) piombiamo sopra i Bucefali, che si spartivano le carni di quei poveri uccisi, li atterriamo, l'inseguiamo, ne uccidiamo una ventina, e presine due vivi ce ne torniamo coi prigionieri, non avendo trovato vettovaglie affatto.

I compagni consigliavano di scannare i catturati, ma io mi opposi e li feci tenere legati e custoditi finché vennero araldi dai Bucefali con la taglia per riscattarli, ché da certi segni e da flebili muggiti noi capimmo che essi ci pregavano di mercé. Il riscatto fu molti caci, pesci secchi, cipolle, e quattro cervi a tre piedi, i due di dietro, e quelli davanti appiccati in uno. Così rendemmo i prigionieri, e rimasti un sol giorno partimmo.

Già cominciavano a comparire pesci, e uccelli che ci volavano intorno, e altri segni che il continente era vicino. Poco dopo vedemmo uomini che navigavano in una nuova maniera; erano marinai e navi insieme; e ora vi dico la maniera. Si mettono a giacere supini su l'acqua, legano la vela a una certa parte del loro corpo e con le mani tengono la scotta: il vento gonfia la vela, e navigano. Altri seduti sopra sugheri. Costoro non ci facevano alcun male né ci fuggivano, ma senza paura e quieti ci venivano vicino, facevano le meraviglie della nostra nave, e la riguardavano per ogni verso.

Sul calar della sera approdammo a un'isoletta abitata da femmine, come credemmo, che parlavano greco: esse ci vennero incontro, ci salutarono, ci abbracciarono; erano vestite e abbigliate come cortigiane, tutte belle e giovani, e trascinavano lunghe vesti per terra.

L'isola si chiamava la Cavallara, e la città Acquavittima. Le donne dunque ci presero, e ciascuna condusse uno di noi a casa sua e l'ospitò. Io andavo un poco a rilento, perché il cuore non mi presagiva bene, e guardando attentamente intorno, vedo molte ossa e teschi umani sparsi qua e là: avrei voluto gridare, chiamare i compagni, correre all'armi, ma mi tenni; e cavata la santa malva, fervorosamente me le raccomandai, che mi scampasse dai presenti pericoli. Ed ecco poco appresso, mentre la mia albergatrice s'affaccendava per la casa, le vidi non gambe di femmine ma unghie di asina. Sfodero la spada, l'afferro, la lego, le domando: Dimmi, che è cotesto ? Ella non voleva, ma pure infine parlò e disse che esse erano ninfe marine, chiamate Gambedàsine, e mangiano i forestieri che quivi capitano. Li ubbriachiamo, soggiunse, ci corichiamo con essi, e mentre dormono li accoppiamo. All'udir questo, la lascio qui legata, salgo sul tetto, e con un grido chiamo i compagni: e venuti racconto il fatto, addito le ossa, e li conduco a quella legata, la quale subito diventò acqua, e spari: ma io per una prova misi la spada nell'acqua, che diventò sangue. Tornati in fretta alla nave, andammo via.

Al rompere del giorno noi vedendo il continente credemmo fosse quello che è opposto al nostro: onde ringraziati e adorati gl'iddii, consultammo sul da fare. Alcuni proponevano di scendere per poco, e subito tornare indietro; altri lasciar la nave lì, ed entrar dentro terra, e conoscere chi v'abitava. Mentre facevamo questi conti ci viene addosso una gran burrasca, che batte la nave sul lido, e la sfascia: noi appena ci salvammo a nuoto, ciascuno con le sue armi e con che altro poté afferrare.

Questi sono i casi che m'avvennero fino a che giunsi nell'altra terra navigando per mare, e nelle isole, e nell'aria, e dipoi nella balena, e uscito di là nel paese degli eroi, e dei sogni, e infine tra i Bucefali e le Gambedàsine. I casi poi che m'avvennero nell'altra terra, li racconterò nei libri seguenti.

FINE

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