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Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Il Manganello


Venere, manoscritto sec. XIV

INTRODUZIONE

Il Manganello è un'opera falsamente attribuita all'Aretino, solo per il motivo che la prima edizione a stampa nota è veneziana del 1530 e spesso rilegata assieme ad un'altra opera, La Puttana errante, pure attribuita all'Aretino.
In realtà l'opera compare già nell'elenco dei libri in possesso di Leonardo Da Vinci, compilato nel 1502, e quindi non può assolutamente essere opera dell'Aretino, che aveva solo 10 anni! Con buona pace di tutti i critici che hanno creduto di ritrovare nell'opera tutto lo spirito e lo stile dell'Aretino!
L'uso di certe parole (tosana, saccagnare, ecc.) fa quindi considerare valida l'attribuzione tradizionale dell'opera ad un anonimo milanese, anche se la precisione dei riferimenti a persone e luoghi della città di Bologna e certe caratteristiche linguistiche, potrebbero far propendere per la zona tra Bologna e Padova. In effetti, secondo la tradizione, l'anonimo autore avrebbe voluto vendicarsi, con questo scritto, dei torti subiti da una nobile ferrarese. Altri narrano che la duchessa di Ferrara facesse giustiziare il poeta. La satira contro le donne, ispirata alla satira VI di Giovenale ed al Corbaccio di G. Boccaccio, è indirizzata ad uno sconosciuto amico Silvestro e l'autore era indubbiamente un ottimo verseggiatore. Alcuni hanno voluto vedere nell'opera un invito alla sodomia. In realtà (a parte la comprensibile simpatia per l'opera da parte di Leonardo), l'autore pare essere un maschio deluso piuttosto che un finocchio: chi mostra di tanto disprezzare, non può, in effetti che amare.


Capitolo Primo

Cantando nove cose in terza rima,
Mi venne volontà d'un novo impaccio,
Non però strano a chi del ver si stima

Io credo che Messer Giovan Boccaccio
Vedesse Giuvenal Giunio D'Aquino
Prima ch'ei componesse il suo Corbaccio;

Donde rittrasse in un volgar latino
Il vituperio, il fastidio e la puzza
Che mena al mondo il sesso feminino.

Né dicon di una trista feminuzza,
Ma dicon di gran donne e di gran stato
Si come ciascaduna si scapuzza;

Povere, e ricche, e d'ordine sacrato,
Qual ella sia di maggior riverenza,
Però che l'uno e l'altro ho ben cercato.

Giuno fu Gallo, e Giovan di Fiorenza.
L'uno è molt'anni già' l'altro è moderno,
E tutti duo fermar questa sentenza.

Sì che per lo miglior tanto discerno,
Silvestro mio, per Dio non pigliar moglie,
Se tu non voi star sempre in un'inferno.

Sempre tu viverai con maggior doglie,
Et ogni dì sarai peggio contento,
Per le lor empie e fastidiose voglie.

Tu sentirai d'ogn'hora il tristo vento
Che vien de la morfea, che sempre cola
A cui non basteriano huomini cento.

Questa rabbiosa et affamata gola
Non ti lascierà mai pigliar piacere,
Sonar il corno, né toccar viola;

Ma sempre guerra, danno e dispiacere
Harai da lei, e rincrescevol vita,
Se non consenti a tutto 'l suo volere.

Sempre di oltraggi ella starà fornita,
E mille volte al dì ti darà noia,
Che ti sarebbe meglio esser romita.

Femina non fu mai che non sia croia;
Femina non fu mai che non sia pazza;
Femina non fu mai che non sia troia.

Elle vorrebbon star sempre a la piazza,
E tirar la sampogna e 'l manganello,
Sempre con la bugada e con la guazza.

Femina non fu mai senza coltello;
Femina non fu mai senza ruina;
Femina non fu mai senza bordello.

Io vo cantar di questa mala spina,
Seguendo la sentenza di coloro,
Che ti sarà, Silvestro, gran dottrina.

Vedi diverse lingue in un lavoro
Di duo savi dottori esser concorde
Contra la cruda rabbia di costoro.

Vedi le fiere bestie essere scorde
Sempre de l'appetito del suo viro.
Vedi quanto dal vero ellen discorde,

Ch'al mondo non fu mai vipera o tiro
Tanto rabbiosa a ributtar il tosco,
Quanto sia questa belua a dar martiro.

Tu udirai quel che ragiona il Tosco
Di queste lorde, e 'l satiro Aquinante,
E quanto 'l suo ferir a noi sia fosco.

E vederai le femine rabbiate,
Che, per seguir il suo fole appetito,
Padre, figliuoli e figlie hanno lasciate,

E parenti, e la patria, e 'l buon marito,
E l'honor de la casa e di se stesse
Per la lussuria loro a mal partito;

Religiose, monache e abbadesse,
Regine, imperatrici e castellane,
Vedove, maritate e principesse.

E questo peggio far che le villane,
Come fe' Clitemnestra a quel gran Greco
Che mise a terra le forze troiane;

E come fe' Medea con l'amor cieco,
Lacerando fratelli e poscia i figli,
Quando Giason non la volea più seco.

Leggerai molti trafichi e bisbigli
C'hanno col suo amico et amatore,
Dimenticate de'meglior consigli.

Hippia, moglie d'un gran senatore,
Fuggì da Roma dietro a un sergiolo
Buffone e forestier gioculatore,

Questa si curò poco del figluolo,
Del padre, del marito e del su' honore,
Tanto le piacque 'l duro puntarolo,

Nervoso e grosso, et un poco maggiore
Che non è 'l braccio mozzo d'un Francioso
Dov'ella puose tutto lo su'amore.

Leggerai quanto fu lussurioso
L'amor che prese a suo figliuol Jocasta,
Qual hebbe duo figliuol dal tristo sposo,

E quanto Messalina fusse casta,
Che fu moglier di Claudio imperatore,
A cui un lupanar non par che basta.

Questa, per satisfar al suo furore,
Usciva de la casa imperiale,
Et andava al bordel con quell'ardore

Che fa la lupa a ciascun'animale,
Di notte a tempo con una compagna,
Ch'ardeva più di lei o d'altra tale.

Quivi si stava la bramosa cagna,
Fin che'l bordel si serrava, e dapoi
Lorda tornava a la casa più magna.

Chiamava ogni poltron: «Vien qui da noi,
Che ti faremo honor e cortesia»,
Per satisfar a gli appettiti suoi;

E stava stravestita su la via,
Pigliando ogni huom che per la strada andava,
E ne la sua bottega il conducia;

Poi si partiva la puttana prava,
Quand'havea ben merdosa la morfea,
E da l'imperador si ritornava.

E leggerai anchor di Pasiphea,
Che si serrò ne la vacca di ligno,
Per satisfar a la lussuria rea;

E di quella che volse il suo privigno
Tirarsi sopra il ventre, onde colui
Non le fu padre, ma tristo padrigno;

E di molte altre, non dirò di cui.
Basta a me dir de le molte brutture
Ch'elle fan seco, et anche con altrui,

Tanto che piene son molte scritture.


Capitolo secondo

Io credo ben c'habbia Cermisone,
Per quel ch'un suo et un mio amico dica,
Anni sessanta quattro in sul groppone.

E'cerca una moglier casta e pudica,
E la vol da Milan, giovane e bella,
E de la dote non si cura mica.

Udisti mai la più ricca novella
D'un gran dottor d'arte di medicina,
Che cerca sposa in l'età vecchiarella.

Dagli 'l buon, anno e la buona mattina.
Radigli 'l mento, e fallo pettinare,
Che gli daremo una bella fantina,

A questo sposo che sa ben ballare
La pertusata e far la triccatina,
E vol quel fatto al dì sei volte fare.

Ma 'l suo dottor usò miglior dottrina
Mastro Pietro Aristotel da Bologna,
Che si purgò con miglior medicina.

Costui haveva un suo Anton Cigogna,
Gargion di sedici anni, e dormia seco
Per discalciarlo e grattargli la rogna.

Questo non era Thedesco né Greco,
Anzi era suo vicin da Crevalcore
Allegro, bello, e non zoppo né cieco.

E mai nel letto non facea rumore,
Ma sempre stava attento al bel servire,
Secondo l'appetito del dottore;

Talhor per riscaldar e per coprire,
E portargli 'l boccal per orinare;
Et era sempre presto ad ubidire.

E quella non fa mai se non ragghiare:
«Fate in qua, fate in là, che vol dir questo?
Io potrei così ben vedova stare.

Voi non sete così in altro honesto.
Io vorrei esser morta il giorno e l'hora
Che fu mio padre a darmivi sì presto.

Vedi com'ei si caccia in su la prora;
E par ch'ei m'habbia a schiffo e ch'io li puta
E mai apresso me non si dimora.

E me l'ha detto ben Madonna Nuta,
Ch'ei s'impaccia de l'arte de la seta,
E questo è quel che, trista, ei mi rifuta.

Io vedo ben che non sarò mai lieta
Di questo mio marito doloroso,
Che mi tien affamata et a dieta.

Il diavol habbia questo tristo sposo,
Che si sta com'un zocco su la sponda.
Ei par un tasso, tanto egli è dormioso.

Sia benedetta Monna Sigismonda,
Che sa ben castigar il suo marito,
Quando a le voglie sue ei non seconda.

Così vorrebbe questo balordito
Che mi trovassi un fra di san Francesco,
Che mi grattasse più dolce che 'l dito.

Vedi com'egli è drudo, grasso e fresco,
E di me non si cura sventurata!
E mangia e beve a guisa d'un Thedesco.

Volesse Dio che non fussi mai nata,
Né mai venuta a questo tristo fine,
Che saria meglio fussi sotterrata!

Questo mi dicon tutte le vicine:
«Costanza, tu par morta ne la faccia;
Perché non usi de le medicine?»

E peggio che non so seguir la traccia
De l'altre che son ben maggior maestre,
Che non son'io per costui, che m'impaccia.

Et anche non son si leggiadre e destre
Giovani, vaghe, belle e colorite,
Come son' io, benché sian più cavestre.

L'altre vanno nascoste e stravestite
A Santa Marta ne l'horto de i frati,
A le merende, lissate e polite.

Quivi si trovan li suo'inamorati.
Quivi si balla e tresca in ogni guisa,
Che non stan, come questo, adormentati.

Et io son come femina derisa.
Che maledetto sia questo tuo anello;
Quando dissi di sì, foss'io sta recisa!

Che debb 'io far di questo tuo mantello.
Di questi libri e di queste scritture,
E star nel letto com'un castroncello?

Se tu volevi usar queste misure,
Tu non dovevi impacciarti di donna,
Ma viver teco con le tue brutture,

E lasciarmi a mio padre e a la mia monna
Che m'havrian dato un gagliardo marito,
A scarteggiarmi altramente la gonna.

Io ti do l'ove fresche e 'l vin cernito,
Le dolci confettioni e le vivande,
Perché da poi tu sia con meco ardito.

Ma ciò ch'io faccio, in un lago si spande.
Tutto si getta via in una fossa,
Che sempre dormi e stai da le tue bande.

Così non fa 'l marito de la Rossa,
Così non fa 'l marito de la Bionda
Che se tu vedi, l'una e l'altra è grossa.

Io era fresca, giovane e ritonda,
Quando li venni in casa, in mio mal'anno,
Polita, grassa, e nel viso gioconda.

Et hor son secca e scura come un panno,
Ruvida ne la carne e slividita,
Per la vita che meno e per l'affanno.

Io non fo cosa che ti sia gradita,
E molti credon ch'io ti sia fantesca,
Tanto fra l'altre son si ben vestita».

Questo è 'l piacer, il solazzo e la tresca
Che fa la moglie, e vol vincer le prove,
E sempre è calda e ne gli oltraggi fresca.

Hor pensa di far tu come fe' Giove,
Poi c'hebbe matteggiato un tempo a torno,
Quando come monton, quando come piove.

Che pensò non voler star sempre storno.
Né viver a le lor triste mercede,
Che fanno l'homo perduto e disorno,
E tirossi nel ciel con Ganimede.

Capitolo terzo

Eravi una matrona Padovana,
Che (come credo) fu de li Scrovigni,
Che facea versi et era poetana.

Questa sapeva tutti i belli ordigni
De silogismi, e formar l'entimema,
E disputar con tutti i più ferrigni,

Di Homero, di Virgilio, e di lor thema.
Sempre parlava in barbara e barroco,
D'ogni disputation quantunque estrema.

E riprendea Virgilio in alcun loco;
Ma più di Giuvenal levava il naso,
E di molt'altri facedoi da poco,

E parea nata nel monte Parnaso,
Fra li duo colli, e a pié del ricco fonte,
Et haver di quell'acqua impito 'l vaso.

Poi disputava di Bellerophonte,
E di Narciso, che diventò fiore,
E come sinistrò la via Phetonte.

Dicea di Tito Livio il gran rumore
Che fece Roma con Carthaginesi,
E dava a l'uno più ch'a l'altro honore;

E poi di Quinto Curtio i gran paesi
Che 'l Macedo Alessandro conquistava;
E quanto furo i Greci mal cortesi,

Quando ch'a saccomano Troia andava,
E far di stratio di tante ruine,
E quanto poi gli dii ne gli pagava.

Contava le diverse discipline
Che navigando il mar sofferse Ulisse,
E poi d'Agamennone il tristo fine;

E come che Virgilio il ver non disse,
Vituperando l'honesta Didone,
A dir che con Enea concubuisse.

Diceva d'Aristotile e Platone,
Di Socrate, Demosthene e d'Alano,
E molto dilettarse in Cicerone.

Laudava forte il gran popol Romano;
Ma riprendeva Cesar e Pompeo,
Et esaltava il maggior Africano.

E molto mal dicea di Tholomeo,
C'havesse incarcerata la sorella;
E discriveva tutto 'l mar Egeo.

Parlava di Vulcano e Mongibella,
Poi de l'Arpie, poi del Demogorgone,
E del monton de l'oro gran novella.

E raccontava poi come Plutone
Proserpina rapitte, e che Thesco
Con Hercule a l'inferno trapassone;

E come con la lira gli andò Orpheo,
Per ritrarne la moglie e far tacere
Cerbaro, e gli altri, qual era più reo.

Hor pensa qui, Silvestro, il gran piacere
Che debbia haver il marito di questa,
Udir la moglie sua tanto sapere.

Un'altra sa cantare e dir di gesta,
Formando gli atti con piedi e con mano,
E far con gli occhi segni di tempesta.

L'altra dirà che faccia il re Romano,
Il duca di Savoia e d'Austorich,
Il Turco, e l'Amorato, e 'l Tamburlano;

E quanto sia da Zara a Sebenich,
E quanto argento venga da Ragusi,
E come corra il mar da Salonich.

L'altra ti saprà dir perché s'indusi
Nove mesi la madre haver figliuoli,
E come gli si serran li menusi.

L'altra sa far l'archimia ne croccioli.
E saprà la virtù del jusquiame,
E partir li lambichi da gli orcioli;

E saprà separar l'oro dal rame,
E diratti i carratti de metagli,
E come li confonda 'l verderame.

L'altra è buona cozzona di cavagli,
E l'altra de la pata de la luna
Sa ben ragion, perche non li barbagli.

Sa dir la Pasca, e quando si digiuna,
E di qual anno correrà 'l bisesto;
E dice ne la man l'altrui fortuna,

E la disgratia tua di dirà presto,
Guardandoti negli occhi e ne le ciglia,
E se nel parto fusse alcun incesto.

E se per aventura altri bisbiglia,
Come fan le persone alcuna volta,
Ti saprà dir di ciò che si consiglia.

L'altra compartirà tutta la colta,
Ciò che ne viene fin'a una medaglia,
E se tutta la somma è ben raccolta,

E quel ch'ogni moneta d'oro vaglia,
E le sette vertù del petrosillo,
Et a qual porto passa il mar la guaglia;

E saprà indovinar che dice 'l grillo,
Che canta dentro 'l buco al focolare,
Et a qual tempo appar il pipistrillo;

E ragionando con la sua comare,
Dirà l'herede ch'ella debbia havere,
E 'l dì ch'ella si die discaricare.

Ma sa' tu qual è dolce e bel piacere,
Veder il suo marito star in frotta,
Udirla dir, e convenir tacere,

Et ella a guisa d'una infiata botta,
E non lasciar cianciar altri che lei,
E gridar al marito a hotta a hotta:

«Va'che sia tristo, e ciancia con lei
Che lava le scudelle a la cucina,
Che tu non sai partir quattro da sei».

L'altra saprà conoscer una orina,
E dar consiglio a ciascun'amalato,
E quando ei debbia tor la medicina.

E saprati incantar un huomo armato,
E qual ferito sia d'un veretone,
E saprà dir se sia attossicato.

Et ancho incanterà lo strangoglione,
Che non ti lascia bere né mangiare,
E la febbre, le gotte e l'orecchione.

E l'altra, che sa far inamorare
L'huomo e la donna con una poltremola
Cotta col vino, e poi spolveriggiare,

Ti saprà dir quanti stara di remola
Uscirà di sei stara di formento,
E poi de la farina quanto è gremola;

E così ti dirà di vento in vento
Dove si nasce, et in quant'hore strucciola.
Et anche la ragion d'ogni spavento.

Saprati dir per che ragion la lucciola
Porta di state il foco sotto l'humero,
E se la gatta può generar cucciola,

E se la zucca nasce del coccumero.

Capitolo quarto

Trovansi feminelle d'altre sorti,
Che sanno far malie prestigiose
Con acqua santa e con ossi di morti;

Altre più crude e più pericolose,
Che faranno una imagine di cera
Simile a quel di cui son'amorose,

E falla batteggiar colà da sera,
E poi li caccian de chiodi ne gli occhi.
E mettela a seccar ad una spera.

Et altre con cicale e con ranocchi,
Con teste di lucerte e con tavani,
Fanno fatture a far gli huomini sciocchi.

Altre son tanto matte de Christiani,
C'havendogli veduto un battifolle
Lungo due spane e grosso a piene mani,

Vengon per maneggiarlo tanto folle,
Ch'ogni pericol grande et ogni male
Le parrìa leve, picciolino e molle.

E l'altra, fuor del senno naturale,
Andrà discalza senz'affanno e noia
Dietro a colui per quel membro cotale.

Et ancho assentirà che 'l padre moia.
E figliuoli, e fratelli, e 'l suo marito,
Per la lussuria grande e per la foia.

Altre si conduranno a tal partito,
Che se 'l farebber far al Causana,
Pur che di sotto ei fusse ben fornito.

Levavassi del letto Monna Nana
Per andar a toccar un suo muletto,
Che n'haveva un sommesso et una spana,

E lasciava 'l marito suo nel letto,
Che si chiamava Neri di Buccialla,
Dicendo: «I' vo a cucir un tuo zuppetto».

E così se n'andava ne la stalla
Con una rabbia tanto furiosa,
Quanto mai fusse d'asina o cavalla.

Poi si riversa la camiscia ontosa,
E con le mani a quella mangiatora
E con la testa ferma si riposa.

Chinossi un poco, e gettò 'l cul in fuora,
In su le spalle si tirò le gambe,
Poi con le spalle al muletto s'aprora,

Larga di dietro, e la orinaria spande,
Che pareva una vacca o un'asinella:
E 'l muletto s'accosta a le vivande,

Perché drizzata havea la ciaramella,
E già l'havea lecato il bulicame,
Per ch'era usato a far cotal novella.

Et ella ammestrata col bestiame.
Preseli il battisteo con la man dritta,
E tutto se 'l cacciava nel forame.

Poi che compiuta ell'ha tutta la scritta,
Andossi a coricar dov'era Neri
Dicendo: «Tu pur dormi? la mia vita,

In buona fé tu sei buon mulattieri.
Tu ti raccordi ben del tuo muletto.
E pur tu lo fatichi volentieri.

Io non ho ricusito il suo farsetto,
Perché gli è morto il foco, ch'io cercava,
Onde per questo son tornata al letto,

E perché ne la stalla il mul ragghiava,
Io andai senza lume, e portai meco,
Pcr darli cena, un concolin di biava;

Che, ti prometto, non son stata teco
Tanto quanto stei li per darli cena,
Che m'era quasi incavestrata seco.

Io non haveva lume, onde ch'a pena
Da lui mi sarei io svilupata,
Se non gli havessi porta quella vena.

Anzi io ne son anchor quasi sudata.
Ma s'ei m'havesse dato un calcio al petto,
E morsa in qualche modo, o scalprecciata,

Tu te ne rideressi a gran diletto,
Dicendo: «Ben ti sta'Nana mia bella».
E questo è tutto quanto tuo difetto,

Che quando tu gli hai tolto la bardella,
Tu non ti curi poi di lui covelle,
Però che 'l poveretto non favella;

E poi 'l dì gli scorteghi la pelle
A caricarlo sì che si disfaccia,
Che non sia buon da soma ne da selle.

Io era quasi fredda come ghiaccia.
Ei m'ha si rescaldata nel star là,
Ch'io sudo tutta: cercami le braccia».

E 'l povero marito, per non farla
Turbar più seco, la convien toccare,
E far un'altra volta a rifrescarla.

O sciagurato,che ti credi fare?
Metter carne senz'osso in quella buca,
Che 'l tuo muletto non puote stroppare?

La Nana tua convien che si conduca,
Per la rabbia del culo, a disfamarsi
Con altro saccagnar che di festuca.

Hor pensi questo chi non vol disfarsi
Del senno, de la robba, o de l'havere,
Di non tor moglie, et ad altro attaccarsi.

Che questo con effetto poi vedere
Che l'huom c'ha moglie non harà mai posa,
Né pace in casa sua potrà godere.

Ella piglia 'l riverso d'ogni cosa,
Et ha in odio quello che l'è caro,
E pute come vacca fastidiosa;

Sì che piglia per questo un buon riparo,
E lascia star quel diavol infernale,
Che mai non viverai con seco chiaro.

La femina è cagion d'ogni gran male.
La femina disfé 'l regno troiano,
Priamo, e tutta sua casa regale.

La femina cacciò Tarquin Romano
For del suo regno, ond'ei convenne andare
Mendicando soccorso al fine vano;

E così va chi vol potta licare.

Capitolo quinto

Gentil fantine d'otto o di dieci anni,
Che stanno in casa e imparano a ballare,
Ch'a pena den saper levarsi i panni,

Si serran ne le camere a fregare
L'una con l'altra, e misurarsi 'l fico,
E provar chi più lungi può pissare.

Levati i panni poi fin l'ombelico,
Montansi adosso, e menan le culatte;
Imparan per saper servir l'amico.

E l'una in su in giù l'altra ribatte,
Cacciandosi la lingua per la bocca,
Zuzzandosi, che par che zuzzi latte.

E là di verno, quando 'l tempo fiocca,
Elle fregansi il cul con la pellizza,
O qualche panno grosso d'una socca;

E tanto la pignata si stropizza,
Che le ne fa sentir qualche dolzore;
E così s'usa a rimenar la zizza,

Come le cresce e discresce l'amore.
E tanto son più ribalde puttane,
Quanto le madri n'han maggior sentore,

Le quai diventan poi di lor roffiane;
e però si den ben guardare le madre
dishonestarsi inanzi le tosane.

E così die guardar il caro padre,
Dove sia 'l figlio picciolino o grande,
A far le cose dishoneste e ladre;

Che se 'l padre userà ghiotte vivande.
E dado, e culo, e la madre puttana,
Figliuol e figlie andran per quelle bande.

Madonna Ferrarese era si vana,
Ch'ammaestrava quattro sue figliuole
A torsi via dal cul tutta la lana,

E lavar d'acqua rosa e di viole
Le coscie, e 'l pettignone, e la fissura,
E poi esser cortesi a chi ne vole.

Ell'eran piccoline di statura,
E portavan patechi alti un somesso;
Et haveano una spana di natura,

El volto sempre carico di zesso,
De li suoi bambasel, belletto o biacca,
Che ti parrebbe rimirar un cesso.

Tant'era il viso suo tento di cacca,
C'havendosi lavate d'acqua chiara,
Saria paruta pisso d'una vacca.

Così come la madre era squartara,
Eran le quattro figlie squartarelle,
E così via chi da cattivo impara.

Ogni mattina queste puttanelle
Correvano a lo specchiio a la primiera,
A rimirarsi e faccionarsi belle;

E la madre era buona cameriera,
chiamando tutte l'altre lor fantesche
A pettinarle et a polir la ciera.

Così stavano a torno a le berlesche:
«Concia qui, concia lì, drizza quel fuso»;
Che ti parrebbe udir dritte Thedesche.

«Tu ti disconci un poco troppo il muso»,
Dice l'una con l'altra; e l'altra poi:
«Deh! fatti quelle treccie un poco in suso...»

«O ladroncelle! che cianciate voi?
Toglietele quel pelo di sul naso.
Non ragionate, ma guardate a noi.

E non c'è più belletto in questo vaso.
Come farem? dimandate la Momma,
C'ha governato quel che l'è rimaso.

Tu le metti sul viso troppo gomma,
Levale un poco, e dalle del belletto,
Io, n'ho quattro oncie ne la bella somma.

Fatti presso a colei, concia 'l ciuffetto,
E storgi un poco il fuso su i capelli,
Ch'ei parerà più vago e più rizzetto.

Portate in là le roche e quei cestelli;
Serra quell'uscio, e caccia via la gatta,
Che non mangiasse questi figatelli.

Deh! fate in là, vecchiarda mentecatta,
Che tu non vedi lume a metter ponto.
E mai non vidi la più vana matta.

Mettile su la fronte un poco d'onto.
Che farà bianca, e lucerà la pelle.
E raspa 'l ciglio, dov egli è congionto.

Dalle un poco di rosso a le masselle,
Che le farà la faccia colorita,
E ristringete anchor quelle mammelle.

Drizzati la persona, e stammi ardita.
E mi par maneggiar una villana.
Va per la strada un poco su la vita.

Tu non le sai conciar quella collana.
Fa che l'orecchie stian sotto le treccie,
Ch'ella non parà una matta christiana.

Lavati i denti, e cavati le freccie,
Sì che sia bianca la tua dentatura,
E purgati la puzza de l'orecchie.

Togli di sotto 'l mento quella ontura,
E fa ch'ell'habbia 'l labbro un poco rosso.
Va col mal'anno, non haver paura.

Deh! dalle, ladroncella, un calcio grosso
A quella trista'che non sa far nulla.
Rompile que'baston di botte addosso».

Che t'ha fatto la povera fanciulla,
Che la batti così disconciamente?
E s'ella si solazza e si trastulla,

Che vo'tu ch'ella faccia del tuo dente,
E de le labbre tue, se l'hai tu grosse?
E se sei piccolina infra la gente?

Tre hore son che fai cotante mosse;
Poi ti corrucci, e batti hor questa, hor quella,
Con bastonate e con altre percosse.

Tu non troverai mai più fanticella
Che teco stia, che tanto le sei dura,
Che saria meglio andar con la rochella.

Tu voi pur contrafar la tua natura,
E mai non ti potrà far tanto bella,
Che tu non sia una sozza figura,

Puzzolente di merda come sella.

Capitolo sesto

Venite, puttanaccie da Ferrara,
A presentarvi tutte a questa mostra,
Che chi fotter non sa da voi s'impara.

Io mi ricordo una vicina nostra,
Che ne la sacrestia di San Francesco
Servì quaranta frati in una giostra;

Et eragli fra gli altri un fra thedesco,
Che nome havea Messer frate Nicollo,
C'havea un cazzo com'un pié d'un desco.

Costui se la fottette a gamb'in collo,
Perch'ella haveva una potta spacata,
Dentro con li coglion tutto cacciollo;

In tanto che le ruppe la corata,
E moritte fottendo questa troia,
E prestamente l'hebben sotterrata.

Un'altra, ch'era apresso a Schivanoia,
Che s'era innamorata d'un giudeo
Che parea, a vederlo'un proprio boia;

Egli havea si diverso battisteo,
Ch'ad altra cosa non si curò nulla
Voglia esser christiano over hebreo:

E tanto seco l'asina trastulla,
Ch'ella renegò Dio per andar seco
Mendicando d'intorno scalcia, e brulla,

E lasciò 'l suo marito e 'l padre cieco,
Seguendo quel guideo per la Turchia,
E per lo golfo e 'l gran paese Greco.

Ma quella che teniva l'hostaria
Del Giglio su la strada del portello,
Ch'a la gabella grossa riuscia,

Fu quella che fé far il bel zambello
Di sessanta persone in una notte,
Che stette sempre ferma al gaiardello,

Che serian state troppo a diece potte,
Sempre più fresca fin'a la giornata
a ricever al cul cotante botte.

Le monache che stanno a Sant'Agata,
In un cortile apresso i fra menori,
Ogni sabado fanno una bugata.

Quivi son tanti frati de migliori,
Quante li sian de le monache acconcie
A ben ricever questi fottatori.

E riversate sopra le bigoncie
Tutte in camiscia a lavar le tovaglie,
Apron le potte larghe di dieci oncie.

I frati non si curan di chiavaglie,
O voglian pur in culo, o voglia in potta,
Né anch'elle refutan le battaglie,

E ragunati tutti quanti in frotta.
Quando le donne gridan zua zua,
Ciascuno senza bracche corre all'hotta,

E quivi s'inchiavicchian con la sua,
Che pareno a veder proprie asinelle.
Con tanta rabbia insieme si s'addua.

Quand'han fottuto fin'a le cervelle,
Dan loco a gli altri, e mettonsi le cappe,
E vannosi coperti a le lor celle.

Gli altri, ch'aspettan, ch'aguzzan le zappe,
Vengono a rifrescar questi budelli,
Che s'han lavate e forbite le chiappe.

Così si cambian questi fraticelli
Tutto quel dì, che fur ben più di trenta,
Facendo carità come fratelli.

Un'altra saccagnata si presenta
Di quattro vedovastre Ferrarese,
Che si partir per andar ad Argenta.

Venti provigionati del Marchese,
C'havean ben con seco il pesamento,
Le andaron dietro molto a la cortese.

Elle furon fottute volte cento,
Venticinque per una, che ciascuna
Havea cinque di lor al suo talento.

Ma pur fra queste quattro ve n'era una
C'havea un pié di potta appresso 'l culo,
Che le parea per questo esser digiuna,

La qual sentendo che ragghiava un mulo,
Andò subitamente a la casella
Senza forbirsi né potta né culo.

Cacciosi sotto, com'una asinella,
Da la gran rabbia che si scompissava.
E ricevette quella ciaramella;

Poi, presta come volpe, ritornava,
E dicea che venia da far suo destro,
E le compagne non se lo pensava.

E un di lor, il qual era cavestro,
Che l'haveva fottuta a gamb'in collo,
Ch'era de riffiani un gran maestro,

Havea comprato avanti un grosso zollo,
Ch'era ben otto libre a la menuta,
Sì come a lui un pescator pesollo.

La chiamò e disse: «O Donna Benvenuta,
Fate qualche piacevol leggiadria
A questa compagnia si ben fottura.

Alzatevi li panni in cortesia
Ch'io vo'vedere s'io posso cacciare
Questo tencon in vostra pottaria».

La Benvenuta, che lo sapea fare,
Levossi i panni suso all'hotta all'hotta,
E prese il zollo in man senza indugiare.

E tutto se 'l cacciava ne la potta.

Capitolo settimo

Scrivono alcun de la mendace Grecia,
Come Penelope honesta visse,
Et alcuni altri a Roma di Lugrecia:

Questa, perch'aspettò 'l marito Ulisse,
Rivolgendo le fila sul telaro;
E l'altra, perché par che s'uccidisse.

Ma chi sarà colui che scriva chiaro,
Che quella non satiasse l'appetito
Con l'asinel di casa o col fornaro,

Prima che ritornasse il suo marito;
E l'altra, che fu poi di Colatino,
Non si menasse la fregna col dito?

Che vidi da Pistoia un Ser Bandino,
C'haveva una moglier ch'era santessa,
Che se 'l facea con un membro di lino,

Pien di panizzo, e poi a la messa
Stava, ch'ella pareva una pinzotta,
Et havea per suo nome Monna Tessa;

Che gli è tanta la rabbia che la scotta,
Che gli è mestier ch'in secreto o in palese.
Elle ne tirin fuor qualche riccotta.

Madonna Beatrice dal Farnese
Tenea con seco due sue villanelle,
C'havean buone culatte e buon'arnese.

Questa fregava a lor spesso la pelle,
Menandole la fregna in sul culaccio,
O su le coscie, ch'eran ritondelle;

E tanto travasava il budellaccio,
Che ne venia fuor lardo bolito,
Sufficiente a frigger un smeiaccio;

E questo parse a lei miglior partito,
Che farsi travasar la castralecca
Da niun'huomo, poi persò 'l marito.

Scrivessi de la nuora di Rebecca,
Che vivesse gran tempo a la pastura,
E di sto fatto star a bocca secca.

Io credo ben a la Vecchia Scrittura,
Dov'ella dice che le pastorelle
Facesser con le bestie la bruttura,

Perch'elle veggon far le pecorelle
E le capre con bocchi e con montoni,
E similmente il porco e le porcelle.

La femina ha diverse conditioni
Che non ha l'huomo, et ha minor virtue.
E trovassi ch'ell'ha sette coglioni

Ne la matrice, e l'huom maschio n'ha due;
Sì che non è da haver gran meraviglia
S'ella ha più calde le vesiche sue.

Io vidi madre già de la sua figlia
Esser ruffiana, perch'ella non vada
Pazza per l'appetito che la piglia,

E lo amante che passa per strada,
Chiamarlo dentro, e serrarlo con essa
Perch'ella non si uccida con la spada.

Che già non si può dar a la lor fessa
Né legge, né costumi, né ragione,
E mettila, se sai, gentil contessa,

Che quanto ell'ha maggior conditione,
Maggior pericol, e men fenza dotta,
Perch'ella mette più confusione.

Non sa'tu ben de la Regina Isotta,
E di Genevra, e di molte madonne,
Che s'han fatto picchiar la calza rotta?

Io vidi entro a Bologna quattro donne
Andarsene una sera in Bella Bina,
Chiuse e serrate sotto le lor gonne,

A casa del rettor di medicina,
Che stava andando verso Saragozza,
E ciascuna di lor era vicina.

Quivi era di scolari una gran rozza,
Da venti o più, che le donne aspettava,
Che tutti senza bracca si raccozza.

Com'uno for'usciva, l'altro intrava.
A quattro a quattro andava in bella frotta,
Fin che 'l numero lor si consumava;

E poi si serran tutti a lor berlotta,
Spogliati senza bracca in giupparello;
E tutta notte seminan reccotta.

Le donne scapigliate et in guarnello,
Che parean che cadesser da quel male,
S'andavan' appigliando a questo e a quello.

Così durò questa festa cotale
Infino appresso di tutta la notte
Del mese di Febrar da Carnessale;

Poi se n'andaro a casa tutte rotte,
Dicendo ch'eran state a Santa-Chiara,
A vegghiar lì con le donne pinzotte.

E se non che non vo' ch'altri l'impara,
Io direi 'l nome de le lor casate.
Ma meglio è volger mano a batter d'ara,

E ragionar di due altre sacrate,
Ch'alcuna volta andavano al bordello
Di sera sconosciute e disvelate.

Poi, come accade, qualche fanticello
Le menava a dormir a l'hostarie,
E lì si pettinava ben e bello.

Et ancho non vo dirti le bugie,
Che conobbi la moglie d'un dottore
Che stava in Mirasol a le tre vie,

Che faceva al marito tanto honore,
Che del suo letto spesso si levava,
Quand'ei dormiva'poi con gran furore

Nel letto a duo scolari se n'andava,
Che stavan seco in casa a sua dozzina,
E molto ben con lor si pettinava,

Poi si levava a buon'hor la mattina,
E mettevassi indosso un peliccione,
Dicendo c'havea preso medicina.

Hor lascia star queste triste persone,
La mala bestia, e piglia altro diletto,
Che rosto e lesso egli è mortal boccone,

E non haver quella puzza nel letto.

Capitolo ottavo

Leverassi la moglie indiavolata
La mattina del letto, se la notte
Il suo marito non l'harà toccata,

E voltassi a le serve con le botte
Battendo fieramente hor questa, hor quella,
Fin che l'ha tutte scapigliate e rotte:

«E dov'è la Philippa, e la Zanella?».
Questa con calci, e quell'altra con pugne.
Straccia le treccie, e batte le massella;

E chiamerà 'l biffulco, e seco rugne:
«Perché non va tu fora a lavorare,
E tua moglier le mie vacche non mugne?»»

Et udirà la cagnola baiare
Per aventura forse del vicino,
Che per la casa la sente gridare.

Presto commanda a qualche ragazzino:
«Fa che tu amazzi quella cagnoletta,
E gettala nel fiume di Tesino».

E reccasi per mano una bacchetta,
E romperà la testa a le fantine,
Che fileranno sopra una cassetta;

E gridarà con tutte le vicine
Appresso a casa ad una balestrata,
Che l'habbia tolto l'oche o le galline.

Poi si riduce in una caminata,
E fassi star a torno le servente,
E fassi pettinar discapigliata,

E con un ferricciol fregassi 'l dente,
E pulisse la faccia di belletto,
Per parer bella fuora infra la gente;

Che l'amoroso suo prenda diletto
A vederla polita in sul galante
Andando per la via, com'un galletto.

Poi che tornata al marito è davante,
Non si cura parer una tegnosa,
Perch'ella è fuor de gli occhi de l'amante;

E va per casa lorda e stornacosa,
Per volergli parer buona massara,
E con le chiavi serrerà ogni cosa,

E mostrerassi misera et avara,
E soffrirebbe a spender le budelle,
Per cosa far ch'al roffian sia cara.

Farà spinarli tutte le vaselle,
E poi tirar il collo a i buon capponi,
E fa far torte, tartare e fritelle,

Per mandar a la stuva a i compagnoni;
E daratti un canton in pagamento,
Per correr là con li allessi rognoni.

Metteratti sul ciurlo e sul tormento,
Che tu debbia comprar trenta vacchette,
Et un molin che macini formento,

E qualche capre, e qualche pecorette,
E la vigna di qualche tuo consorte,
E d'un qualche vicin le stazzonette.

Ella consentirà fin'a la morte
Di quel che ti parrà più caro amico,
E caccierallo fuor de la tua corte,

E per farti d'ogni huom mortal nemico,
O voglia grande, o voglia piccollino,
Ella non presterebbe un tristo fico.

E se per aventura un tuo vicino
Si havesse fatto un povero horticello
Dove ella vede pur un rosmarino,

Ella 'l vorrà, s'ei costasse un castello;
E se tu non farà presto che l'habbia,
Ella caccierà foco ne l'hostello.

Se tu havessi più fiorin che sabbia,
Ella se li vorrà tutti a sua posta,
O ch'ella ti farà morir di rabbia;

Né curerà quel ch'una cosa costa,
Se ben tu ne dovessi esser disfatto,
Pur ch'ella ottenga ciò ch'ell'è disposta.

Diratti villania al primo tratto,
E farà le risposte in tua persona,
E faratti parer un brutto matto.

Se non ascolti quel ch'ella ragiona,
Ella ti dirà tristo e doloroso:
«Tu non sei degno udir la mia persona.

Se fossi, come tu se, di me sposo,
Io farei altro che tu non sai fare,
E non saresti pegro et ocioso».

E non c'è modo che tu possi stare
In pace in casa tua, se tu non fai
Ciò ch'ella vol, e lasciala regnare.

E s'al suo senno non ti reggerai,
In picciol tempo ella ti farà cosa
Che poco in questa vita durerai.

Vipera non fu mai tanto rabbiosa,
Né fuor di folto bosco uscì mai belua,
Che fosse quanto questa venenosa;

Né lupo, né leonza esce di selva
Cotanto infuriata, quando è calda,
Come fa questa rogogliosa belua.

Lasciala star, per Dio, questa ribalda;
Che se volessi dir di trovar'una
Che fosse buona e non fusse magalda,

Tu non potrai trovarne mai nessuna
Che non sia maledetta renegata,
Cercando ciò che c'è sotto la luna.

Puttana, vacca, porca, svergognata,
Asina, strega et affatturatrice,
Crudel, roffiana, lorda, insanguinata,

Cascar ti possa quella tua matrice
Lorda, gaglioffa, puzzolente e storna,
Che mai non se ne trovi più radice,

E 'l diavol te ne porti su le corna.

Capitolo nono

For di Ravenna stava un'abbadessa,
Che si chiamava Madonna Castella
Nata da i conti de la Leonessa.

Questa, con una sola vecchiarella,
Si partiva da casa entro la sera,
Quand'in cielo apparea la prima stella;

Et ad un monastier, che presso l'era
Un miglio, o poco più, si se n'andava
Senza portarne seco altra lumiera;

Et una barba al mento si legava,
Che parea santo Honofrio o san Brandano,
Quando nel bosco ad adorare stava;

Et un baston ritorto haveva in mano,
A guisa che sen gìa san Benedetto,
O altro fraticel fedel christiano.

La vecchiarella, che l'andava a petto,
Portava una cestella d'ove fresche
Et una scattoletta di confetto.

Così n'andavan queste due barbesche
Con due cappe de i frati di Certosa,
Disconosciute con barbe francesche,

Che parevan venir di Vallambrosa,
A trovar venti monachi e l'abbate.
Tanto l'ardeva la sua fistolosa.

Quivi furon la notte traccassate
Da quanti gli eran fino al portinaro,
Assai pasciute, ma non saturate;

E 'l dì seguente, prima che sia chiaro,
Ritornavano a casa'infarinate
D'altra farina che di molinaro,

Dicendo a le compagne: «Noi siam state
Discalce questa notte benedetta
Nel bosco ad adorar inginocchiate,

A pregar Christo e santa Elisabetta,
Che ne dia gratia a tutte di ben fare,
E cacciar via la rabbia maledetta

Di quel demonio che ne vol tentare;
E gli angioli di Dio ne son'apparsi,
Che ne dieder conforto a sopportare,

Sì che ciascuna pensi a confessarsi,
E dover digiunar questa quaresima
Infin'a Pasqua'e poi communicarsi.

E questo farò prima io medesima,
A ciò che Dio ne dia de la sua gratia,
De le nostre primiere e de la desima.

Poi, per far ben di queste carni stratia,
Io gli vo ritornar quest'altra notte,
Fin ch'io del dolce amor ne sarò satia.

E voi, figliuole mie, non siate indotte
A levarvi a mattino e pregar Christo,
Che ci difenda da le male botte.

Questa è la vita e l'appetito tristo
Di queste scelerate, lupe, ladre.
E l'animo divoto a Gesù Christo.

Fin'al tempo che 'l figlio cacciò 'l padre
For del regno de l'isola di Crete,
Quando `l nascose in Ida la sua madre,

Furon giustitia e pudicitia sprete
Da Giove con Giunon, ch'eran fratelli,
E posti in ciel fra le cose secrete.

Hor pensa ben, quando tu sai che quelli
Commisser adulterio, ch'eran Divi,
Come den far le pecore e gli uccelli,

E gli huomini e le femine hoggi vivi,
Che son di carne e d'ossa concreati,
E di diversi humori corruttivi.

Gli homini son da poi sempre formati
Di peggio in peggio, tanto che 'l fratello
Con la sorella son adulterati,

Il padre con la figlia in un'hostello,
E la madre col figlio in ogni grado,
Hanno pescato tutti in un vasello.

Sì che tu troverai troppo più rado
Femina casta, che l'uccel Phenice,
O ch'asina cornuta in sul marcado.

Onde per questo il mio consiglio dice
Che tu non prenda moglie in alcun patto,
E non voler gustar quella radice,

Che ti farà venir povero e matto,
E daratti a mangiar qualche pastello
Di cantarella o del cervel d'un gatto.

O mescieratti 'l vin in un vasello
Col sangue de l'uppupa o d'un allucco,
Che ti farà rivolger il cervello,

E faratti parer un novo cucco
Che si trovasse in Genova fra banchi,
Tanto sarai di feminuccia stucco;

E faratti venir i capei bianchi
Inanz'il tempo, e diventar gottoso
Col capo grosso e con dolor de fianchi;

Sì che per forza tu serai geloso,
E verrai a filar con seco a rocca,
Per ch'ella non ti dica sboghioso.

E se la gelosia troppo ti tocca,
Ella ti getterà sopra la cassa,
E daratti del culo su la bocca,

E faratti licar quella bardassa,
Quanto più lorda sia e che più puta,
A guisa che fa 'l can la lupa grassa;

E diratti: «Ruffian, hor fiuta, fiuta.
Licala ben'e saprami poi dire
Se la bellina mia ti sa di ruta».

E s'a le voglie sue vorrai disdire,
Ella ti metterà corna di libbia,
Che di faran da l'angoscia morire.

E faratti levar, e si ti cribbra
Suso le spalle de la sua fantesca,
E poi ti batte 'l cul con una fibra;

E molte volte quando è stata in tresca
A marenda con frati, et ella torna,
Che ti parrebbe udir una thedesca,

E pute da sentina e da saorna,
E per la casa va di sasto in sasto,
A guisa d'imbriacca e di musorna,

E spesse volte rebuttando 'l pasto.


Capitolo decimo
Madonna cara, cosa Brunamonte,
Ch'era moglier di Messer Baldovino,
La dapresso Paris un ricco conte,

Rimase in casa con un suo mastino
Di Ethiopia, ner com'una mora,
Due labbre grosse, e l'occhio picciollino,

E non havea ventiquattr'anni anchora,
Ch'era rimaso a menar la carretta,
Quando madonna volesse andar fuora.

E fra l'altre serventi una vecchietta
Havea con seco, che nomea Sandrina,
Che le secrete sue sapea soletta.

Questa era di contrata Savoglina,
Et un fattor, che si chiama Gilletto,
E questo attende a fornir la cucina.

E suo marito cavallier perfetto,
Era partito et andato al perdono
Del sepulchro di Christo benedetto.

E lasciò la moglier, come ragiono,
Non dubitando che quella l'inganni,
Donna di tutto '1 suo in abbandono.

Un dì di festa, là da San Giovanni'
Questa madonna, ch'è molto rubesta,
E non haveva anchor trenta sei anni,

Deliberò d'andar ad una festa,
E fece dimandar le sue schiavone,
Che la carretta apparecchiasser presta.

Poi su vi monta con poche persone,
Con bei tapedi e cussin da sedere,
E coperta di sopra d'un ciallone,

Sì che niun non poteva vedere;
e dice al schiavo: «Va a tal castello,
E pigliaremo un poco di piacere».

Così guardando, ella vide che ello
Non havea brache, e mentre ch'ei montava,
Li vide sotto un grosso manganello

Ch'apunto a un braccio mozzo assimigliava,
Con una testa che parea d'un luzzo
Di cinque libbre, che buttasse bava;

E la boccaccia havea senza capuzzo,
Che parea di foco, tanto è rossa
E negro com'un merlo l'altro buzzo.

La schena larga quattro dita, grossa
Come d'un spetiale un gran pistone,
Dura la pelle come di camossa;

Et havea pochi peli al pettignone,
Con duo coglioni che parean duo sassi
Tanto eran duri, e ner come carbone.

E mentre che costei con gli occhi bassi
Pur li mirava, le venne un'angoscia,
Sì come d'esta vita trappassassi.

E puosesi la faccia su la coscia,
E rise un poco, e disse: «Alessandrina,
Andiamo a casa e tornerem daposcia,

Che m'ho dimenticato sta mattina
Le perle mie su lo balcon de l'horto,
E duo gioielli in una cassettina;

Io non potrei hoggi prender conforto,
Se non vedessi 'l fin di questo fatto,
Che lo stomaco mio è mezzo morto».

E così tornò a casa al primo tratto;
Poi la madonna disse: «Alessandrina,
Sta qui su l'uscio, e chiama questo matto,

E fa star l'altre tutte a la cucina,
Sì che niuna venga in sul castello,
E dirai lor ch'io piglio medicina».

Poi si ritrasse in ciambra con il Nello,
E dispogliossi insino a la camisa,
E messegli la mano al monticello,

Riversossi sul letto, e quivi strisa,
Che parea una porca che ruggisse,
E tirosse 'l sul ventre a bella guisa,

E prima che da lui si dipartisse,
Tre hore il tenne lì discapigliata,
Che parea che di rabbia ella morisse.

Sei volte ella fornì per quella fiata,
Poi tanto usaro insieme trambe dui,
Ch'in picciol tempo si fu ingravedata;

E fece un bel figliuol che parea lui,
Grosse le labbre, e negro come un corbo,
Tal che non sa che farsi di costui.

La vecchiarella, che sapeva il morbo,
Dice: «Madonna, non ti sgomentare,
Che ti caverò fuor di questo torbo.

Io 'l voglio meco a Paris portare
In questa notte, che vengovi assai
E 'l voglio con un bianco cambiare.

Dammi venti corone, e troverai
Che farò sì, se tu mi lasci fare,
Che ti caverò for di questi guai».

La donna dice: «Hor fa quel che ti pare»;
E dielle tutto quel ch'ella volea,
«E fallo via questa notte portare».

Ma quella buona donna, che sapea
Dov'era 'l gran concorso de puttelli,
E chi li porta, e chi li ricevea,

Andò a l'hospital de trovadelli,
E cambiò quel nero in un bel putto
Per sei corone che donava a quelli;

Poi tornossi col bello, e lasciò 'l brutto,
E presentollo a sua madonna cara,
E raccontava a lei il fatto tutto.

Quella mandò per una sua massara,
Ch'aveva latte, e dielle quel fantino,
Ch'ella lo latti e sia buona margara.

O poveretto Messer Baldovino,
Che navigando vai per divotione,
E tua moglier si giace col mastino!

Vedi, Silvestro, la conditione
Che l'huomo ha con la moglie, e quanto ria
Convien portar offesa e passione.

Fuggile col mal'an, che Dio le dia.
Lasciale star, e non le gustar mica,
Sì che non senti la lor parlasia,

E che non ti sia detto pappa fica.

Capitolo undicesimo

La femina si trova esser bugiarda,
Falsa, rissosa et affatturatrice,
Disconcia, porca, imbriacca e licarda.

La femina si trova incantatrice
Di herbe, di fatture e di demoni,
E d'ogni venenosa altra radice.

La femina ha al cul sette coglioni,
E di là vien ch'ell è tanto fottarda
Con asini, con muli e con poltroni.

La femina è più cruda, e più gagliarda,
E più rubesta che bestia che sia,
Così 'l mal foco la consuma et arda.

La femina è cagion d'ogni heresia,
Incendio, guerra, sangue e dura morte,
Sturpo, adulterio, furto e robbaria.

La femina è del diavolo consorte,
Apparecchiata sempre nel mal fare,
Con la malitia e con l'animo forte.

La femina non fa se non pensare
Di far cosa che spiaccia al suo marito,
Per farlo matto per la strada andare.

La femina fa 'l suo amico ardito
Con l'occhio, con lo sputo e col tossire,
E con un signo di mano o di dito.

La femina vol dir e vol disdire,
Come le piace, e vincer ogni prova;
Sì che in nulla cagion parà fallire.

La femina ogni dì sarà più nova
Col suo marito a far cosa ch'ei voglia,
Innamorata in altri, come scrova.

La femina si volge come foglia,
Senza stabilitate e senza fede,
Invidiosa, e piena d'ogni doglia.

La femina né in Dio né in santi crede,
Né sa che sia peccato o villania,
Né satisfar ad alcuna mercede.

La femina vorrebbe ogni balia
Nel regno, ne lo stato e nel denaro,
E pienamente in tutto signoria.

La femina vol meglio al molinaro
Ch'a Dio del ciel, pur ch'ei sia ben fornito,
E che spesso le unghia il culataro.

La femina vorrebbe che 'l marito
Fosse in un cesso per una medaglia,
Pur ch'ella riempisse l'appetito.

La femina è cagion d'ogni travaglia
Che si faccia nel mondo, e d'ogni guerra
Dove l'humana gente si barbaglia.

La femina è cagion che in una terra
Pace né carità si trovi mai,
Fin che la morte sua vita non serra.

La femina è cagion di molti guai,
Ferite, morti e stracciar di gonelle,
Bandi, e confini, e danni pur assai.

La femina fa mover le rodelle
Corazze, lancie, spade e bacinetti,
E tagliar gambe, e riversar cervelle.

La femina, per onta e per dispetti,
Metterà foco ne la vicinanza,
E l'acqua turberà de i pozzi netti.

La femina, s'ell'entra in una danza,
Farà tagliar a pezzi più persone,
Per dar la man altrui con più baldanza.

La femina è di questa conditione,
Che trovandola in danno o in follia,
Giammai non ti farà confessione.

La femina dirà sempre bugia,
Se tu ci havessi mille testimoni
Trovarla a fare qualche villania.

La femina non cura de'bastoni,
Né pugne, né minaccie, né sassate,
Né ferri o calci, né crudel spontoni.

Le femine son tutte inamorate
Di questo benedetto saccagnare,
Se tu le desti mille spadacciate.

La femina non vol a festa andare
Per divotione né per veder messa,
Ma solamente pur per vagheggiare.

La femina vol esser abbadessa
Per ritrovarsi con frate cazzocchio,
Che le riempia di sotto la fessa.

La femina ti fa signo con l'occhio,
Che tu vada a chiesa, e dopo a l'horto,
Per far parer il marito un capocchio.

La femina non piglia mai conforto,
Fin ch'ella non ha piena la baschiera,
E l'altro venga, quando l'uno è scorto.

La femina vorrìa sempre bandiera,
E più tosto trentone al badalucco,
Apparecchiata a sostenir la schiera.

La femina ti fa parer un lucco,
E grida se tu sei a la fenestra,
Che non ti direm poi maestro cucco.

La femina serà tanto silvestra,
Che ti darà parecchie bastonate,
Se tu non licherai la sua manestra.

La femina serà molte fiate
Trovata col fameglio o con un prete,
A darsi insieme de le sculacciate.

La femina trapassa la parete
Del suo vicin di notte, com'un ratto,
Tanto la tira la rabbiosa sete.

La femina è cattiva in ogni fatto,
Brodega, puzzolente e sempre lorda:
Si che non ci gustar a niun patto,

E guarda che 'l diavol non ti morda.

Capitolo dodicesimo

Anoia a me la femina, Signori,
A dirvi 'l ver come si dice al prete,
Perch'ella è piena di tutti i dolori.

Anoia a me, perch'ella pute e fete
Più che non fa lo stronzo d'una gatta;
E voi che le toccate, il sentirete.

Anoia a me, perch'ella è mentecatta,
S'ella non tocca il cazzo del cazzera,
Che la faccia ruggir com'una matta.

Anoia a me la sua mortal ferrera,
Quando cavalca Messer lo Marchese,
Che ti guasta del membro la testiera.

Anoia a me, né posso esser cortese
Inverso lei, quand'ella va di sopra,
A insanguinarmi tutte le mie arnese.

Anoia a me, quand'ella si discopra,
Sentir la puzza uscir di quella frogna,
Che 'l mal foco la stroppi e la ricopra.

Anoia a me sentir la sua carogna,
Ch'ella si mette al volto de la biacca,
E 'l fiato pute, com'una poltrogna.

Anoia a me, quand'ell'è tanto fiacca,
Ch'ella vol essere concia a cul busone,
Per darti per favor de la sua cacca.

Anoia a me più per simil cagione,
Quand'ella se 'l fa metter nel forame,
Per avezzarti a quel ghiotto boccone.

Anoia a me di quel suo bulicame
Che bolle e puzza com'una stazzone
Dove che s'usa a scortegar corame.

Anoia a me ch'un huomo è si minchione,
Si stomacato e tanto mal disposto,
Ch'usi la vacca e refuti il pippione.

Anoia a me la femina d'Agosto
Sopra ogni tempo, benché sempre puta,
Ma fino a tanto ch'è bolito 'l mosto.

Anoia a me la femina barbuta;
Ma quando tu la senti a te venire,
Da lunghi con tre sassi la saluta.

Anoia a me vederla imbizzarire
Con le vicine per una gallina
C'ha fatto l'ovo, e non glie 'l voglion dire.

Anoia a me la sera e la mattina
Udirla andar per casa borbottando,
E batter il ragazzo e la fantina.

Anoia a me sentirla andar cantando
Canzon francesi, e vie peggio thedesche,
E poi la pertusata zaccagnando.

Anoia a me, quand'ell'è in le berlesche,
E che non si contenti d'un amante,
Anzi si mostran con molti altri fresche.

Anoia a me, quand'ella sta davante
Al suo marito, e parla per gramuffa
Con qualche frate de le cose sante.

Anoia a me, quand'ella si rabuffa
Pur col marito, che le consente
Ciò ch'ella vol, e con seco s'acciuffa.

Anoia a me quand'ella mostra 'l dente
al medico, che pute ne la bocca,
Et ha mangiato l'aglio puzzolente.

Anoia a me, quand'ella fila a rocca,
E fa star il marito su la banca,
A ritener il fuso, che non scocca.

Anoia a me, quand'ella lieva l'anca
Per trar la vesta, e dice a le compagne
Ch'ell'è venuta da la chiesa stanca.

Anoia a me, quand'elle son più magne,
Vederle andar col cappuccio frombato
Robuste per la strada, come cagne.

Anoia a me, quando le pute 'l fiato,
Ch'ella vol pur parlarmi ne l'orrecchia,
E cacciammisi sotto'e viemmi a lato.

Anoia a me, quando la vedo vecchia,
Udirla fare voce di fantina
A ribambirse, quand'ella si specchia.

Anoia a me, s'ella fusse regina,
Vederla andar con gli huomini a la caccia,
Col spedo a porci e con la strembechina.

Anoia a me, quand'ella si procaccia,
Ch'ella si forbe 'l cul con la camisa,
E non cura trovar un'altra straccia.

Anoia a me, quand'ella rugge e strisa
In forma d'una volpe e d'una gatta,
Quand'ella chiama l'huomo a bella guisa.

Anoia a me, ch'ell'è cattiva e matta;
Anoia a me, ch'ell'è malvagia e ria;
Anoia a me, perch'ell'è mentecatta.

A noia mi fu sempre e sempre fia
Questa bestia rabbiosa e disfrenata,
Nata in dispetto d'ogni cortesia.

Però, Silvestro, fuggi sua brigata,
Non t'impacciar di sua mala ventura.
Lasciala andar, ch'ella sia scortegata.

Attendi ben a questa mia lettura,
Tratta dal buon poeta Giuvenale,
Che capo è pur de la vecchia scrittura;

E lascia star questa furia infernale,
Questa lupa maluggia e discorretta,
Che sempre fu cagion di ciascun male,

In cielo e in terra, e da Dio maledetta.

Capitolo tredicesimo

Da Roma venne a Bologna una Zanna,
Che si dicea de i Graccioli di Roma,
C'haveva potta assai più d'una spanna.

Questa di fotter mai non era doma
Sempre più fresca, e con maggior solazzo,
E a ciò soffrir er'atta a ogni gran soma.

Ella udì dir ch'a Modena era un pazzo,
Giovane e bel'c'havea ventiquattr'anni,
E havea due spanne, o più, di grosso cazzo.

Ella impegnò la sua coregia e panni
Per andar a trovar quel Modenese,
Tanto appetito havea de i suoi saccagni.

E su la piazza per lo braccio il prese,
E seco se n'andò fuor de la porta,
In una casa rotta in quel paese.

Quivi arrabbiata la puttana scorta
Più volte, prima che da lui partisse,
Tanto si corrompé che parea morta;

E, secondo ch'un Bolognese disse,
Ella straccò la notte tanto 'l pazzo,
Che la mattina par che si morisse.

Silvestro mio, non creder ch'a solazzo
Io mi sia messo a far questo libretto,
Per far andar le mie parole a guazzo;

Ma pigliale con savio e buon'effetto,
Che nel mondo non è più trista cosa,
Quanto è questo serpente maledetto;

Insaturabil fiera disdegnosa,
Animal senza freno e senza pace,
Vipera sibilante e venenosa;

Volpe, squartara e lupaccia rapace,
Asina di molino e strega lerza,
Per cui al mondo ogni mal far si face;

Porca, rognosa, distravolta e guerza,
Piena di fortiglioni e calandrazzi,
Sangue corrotto e puzzolente merza.

Non esser tu, Silvestro, di quei pazzi,
Ch'attenda a questa dolorosa fiera,
Ma fuggi suo scherzar e suoi solazzi;

Che, benché questa bestia di rivera
(Come si dice) sia necessa al mondo,
Ella si sia con la sua mala sera.

Non ti curare, tu vivi giocondo,
Perch'ella non ti scorti la tua vita,
Né ti conduca de l'haver al fondo;

Ch'ell'è ne la lussuria tanto orbita,
E s'ella vede cosa che le piaccia,
Ella è del senno e de l'honor partita.

Non sa ciò ch'ella dica o ch'ella faccia,
Se non seguir la sua rabbiosa fame,
Se tutto quanto 'l mondo si disfaccia.

Chi potrà contentar questo letame?
Che maledetta sia nostra natura
Che non la mise fra l'altro bestiame,

E non formar la sua vana figura,
Ma far noi nascer qual persico o pomo,
Senza passare per la sua fissura!

Anchor mi doglio che non fece l'huomo
Com'ella fece gli angioli animati,
E da questo fastidio haverlo domo;

Non sottomessi a febbre, né a peccati,
Né tosse, né catarro, né sputare,
Ma puri e netti in alberi creati,

E per quel bulicame non passare,
Che sempre getta goma e sempre pute,
Come ben sente chi la vol licare.

E se pur necessarie son venute
In questo mondo, per me non dic'io,
Né dirà mai chi l'ha ben cognosciute.

E vo'dirti per Dio, Silvestro mio,
Poi che sei nato, che veracemente
Per queste spesso l'alma cruccia Dio.

N'ha fatto uscir per quella puzzolente,
Sanguinolente, merdoso marzume,
E dapoi fatti a se quasi adherente,

Per lo intelletto e per lo bel costume
De l'anima gentil, che passa 'l cielo,
Che saria meglio uscir di fuor d'un fiume.

Ahi, Silvestro mio, ch'oscuro velo
N'è posto a gli occhi da queste ruffalde,
E quando duro e maculato pelo!

Hor facciam fin'a dir d'este magalde,
Che non mi basterebbe un lungo sermo
A ragionar quant'elle son ribalde.

Fuggi, Silvestro, il maledetto vermo,
E non esser nel numero de i pazzi
Che del mio dir si faran forse schermo.

Fuggi al postutto tutti i lor solazzi,
Perché son venenosi e pien di noia,
Di spine, di soghetti et altri lazzi,

Tanto che spesso avien che l'huom ne muoia.
E chi ne vol ne pigli: tu non 'l fare;
Lascia da parte questa mala troia.

Piglia 'l consiglio mio, non lo schiffare,
Che tu ne viverai gran tempo sano,
Allegro e bello, come si de'stare.

Vivi gentil'e non punto villano,
Come de, far ciascun sia chi si sia,
Perch'ogni altro pensier per certo è vano.

Fuggi ogni noia et ogni ricadia,
Sì come predicava frate Puscio;
Che morta sia tristitia e villania,

E chi riman da dietro serri l'uscio.

FINE

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