FACEZIE E MOTTI dei secoli XV e XVI



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FACEZIE E MOTTI dei secoli XV e XVI

Codice inedito Magliabecchiano
Prefazione e trascrizione di Giovanni Papanti

BOLOGNA
PRESSO GAETANO ROMAGNOLI
1874

AVVERTENZA

Il codice Magliabechiano, certamente autografo, che contiene le Facezie e i Motti che ora per la prima volta io do fuori, è segnato del numero 196 (cl. VI), e porta la nota che qui appresso trascrivo: » Questo  libbro è di Theodoro di M. Nicolò» di ser Baldassarri delli Angèlij  dal Bùcine, cit.° fiorentino, a dì  p.° di Marzo 1515. »
Di scrittura del secolo XV sono le prime 263 narrazioni; posteriori le poche altre. Chi le dettasse non è noto, né così facilmente può indovinarsi: autore delle più antiche potrebbe essere però il su mentovato Nicolò di ser Baldassarre detti Angèlj dal Bùcime, il quale, come si leggerà più innanzi, fu uomo di qualche reputazione, e, secondo che apparisce da alcune tra le Facezie meno remote (264, 269, 270), di « gran doctrina et ingegno; » e senza dubbio di non volgare scrittore, se giudicar dobbiamo dallo stile e dalla lingua non ispregievoli affatto, e dalle molte cognizioni che mostra avere delle cose d'Italia.
Le altre diciassette (Fac. 264280), io sarei per reputarle fattura del figliuolo di lui Teodoro, possessore del codice; non meno pel carattere molto somigliante a quello della nota surriferita, che dal trovarle quasi che tutte relative ai Da Bùcine, ed allo stesso Teodoro. Comunque siasi non torneranno sgraditi i seguenti ragguagli intorno a cotesta famiglia fiorentina, gentilmente trasmessimi dal cav. Gaetano Milanesi, pronto sempre a far parte delle sue cognizioni a chi lo domandi.
Nacque Niccolò in Firenze nell’ anno 1448, ed ebbe in moglie madonna Caterina di Francesco di ser Jacopo Cini da Montevarchi. Godette fama non comune nelle lettere, sicché nel 1497 era professore di umanità nello studio di Firenze. Nel 1512 fu ascritto alla cittadinanza fiorentina, e tra le portate al Catasto se ne ha di lui una del 1480 e un' altra del 1498. Nella prima si legge quanto segue: » Il qual ser » Baldassarre (suo padre) si truova  nel primo libro de' Catasti 1427  haver di graveza sol. 6, den. 6, e  poi per povertà vixe assai absente  e morì nel 1448, lasciando 4 bambolini, 2 femmine e 2 maschi; li quali ci alevammo a Siena atendendo alle lettere. Il primo si morì: rimase detto Nicolò in detta Siena infin 1472.
» Monna Agnesa, sua madre, ha  anni 66.
» Alessandra, sorella di Niccolò, vedova, 36.
» Niccolò, d' anni 32, senza avviamento e studiante.
Parlano di lui il Negri (1), il Mazzuchelli (2), il Fabroni (3), il Prezziner (4) e il Mehus (5); e nella biblioteca comunale di Siena è cutodito un codice membranaceo con alcune sue poesie volgari in lode di Senesi, e in particolar modo di madonna Francesca di messer Bartolommeo Benassai. Morì intorno ai 1532.
Il figliuol suo Teodoro nacque il primo di Gennaio 1495, e da quanto pare si mantenne celibe, o se pur prese moglie, non n’ebbe figliuoli. Visse agiatamente in Firenze con le rendite de' molti beni ereditati dal padre, ed ivi morì verso il 1567.
Tornando quindi alle nostre Facezie, soggiungerò, che parecchie di esse non offrono argomenti affatto nuovi: ad esempio quelle segnate coi numeri 13 e 58 corrispondono a due aneddoti danteschi, che abbiamo dal Boccaccio (Vita di Dante) e dal Sacchetti (Novella VIII): ne troviamo alcune altre inserite nel Cortegiano di Bald. Castiglione, benché sia a notarsi che le nostre sono scritte in antecedenza; altre finalmente fanno parte della raccolta di messer Lodovico Domenichi; e perchè da lui riportate quasi che colle identiche parole, è lecito supporre, che egli abbia avuto alle mani il nostro codice. Con tuttociò io reputo la presente pubblicazione di qualche importanza, considerato che molto illustri e ben noti sono i personaggi ai quali i fatti narrati si riferiscono; e se tale vorrà pur giudicarla l’erudito lettore, mi terrò largamente ricompensato della tenue fatica.
                 Giovanni Papanti

(1) Istoria degli scrittori fiorentini.Ferrara, Pomatelli, 1722, infol., pag.420.
(2) Gli scrittori d'Italia. Brescia, Bossini, 1753, infol.; Vol.1°, parte 2., pag. 738.
(3) Historiae academiae pisanae. Pisis, Cajetanus Mugnainius, 1791, in4°, Voi. 4° pag. 95.
(4) Storia del pubblico Studio e delle Società scientifiche e letterarie di Firenze. Firenze, Carli, 1810, in 8.°; Vol. 4.°, pag. 480 e 490.
(5) Ambrosii Traversarti Vita et latinae epistolae. Florentiae. Ex typographiò Caesareo, 1759, infol.; Vol. 4° pag. XLIX.


1.
Il conte di Tondiglia inbasciadore del re di Spagna a papa Innocentio octavo, trovandosi a Firenze nel 1486, vennero a' Fiorentini tre imbasciadori del re di Francia per rimuovere e Fiorentini da' favori del re Ferrando, et per fare intender loro, come el re di Francia volea fare la impresa del reame di Napoli, et mandare el duca de Loreno alla recuperatione di decto reame. Il prefato conte di Tondiglia, havendo inteso la proposta et minacce di decti oratori franzesi, dixe a uno cancelliere di Lorenzo de' Medici et a uno secretano della Signoria di Firenze a questo proposito, lo infrascritto motto. Che in Hispagna a casa sua era stato uno povero, che andava mendicando con un bordone, a capo del quale era un ferro acuto et lungho; e quando chiedeva la limosina ad alcuno, gli voltava la punta di decto bordone, come se gli volessi dare con epso, dicendo: Tale, dammi qualche cosa per l'amor di Dio, se no......Di che seguiva, che molti, cognoscendolo matto et importuno, vedendosi vòlta la punta, et interpretando quello se no: io ti darò con questo bordone; per non havere a chonbatter con lui, gli davano la limosina. Seguì un giorno, che, faccendo il decto povero questo acto a un cavaliere, huomo giovane et animoso; trovandosi la spada allato, come costumano in quel paese ciascun portarla; sdegnandosi questo cavaliere, messo mano alla spada, et voltatosi al povero con epsa: Che seno, o non se no? Il povero incontinenti rispose: Se non, me n' andrò con Dio sanza danari. Et così per la più corta si partì.

2.
Il conte Iacopo, nel tempo che lui passò di Lombardia nel reame col duca Giovanni, essendo già colle gente dell' arme in Romagna Federigho duca d’ Urbino, el quale haveva a loro promesso et affermato, che el conte Iacopo non potrebbe passare nel reame, et che gli terrebbe el passo; mandò un suo cancelliere al prefato conte per certe occorrentie; et parlando decto cancelliere con il conte, circa el suo passare, dicendo che non passerebbe; et il conte: Chi mi terrà? Il cancellier rispose: Il mio signore, che è savio et ghagliardo. Rispose il conte: Gagliardo non è egli; savio? non so io.

3.
Il signore Gismondo Malatesta, trovandosi allo incontro di Federigho duca d'Urbino ( il quale, in una giostra facta per festa dello aquisto che '1 duca Francesco Sforza haveva facto di Milano, gl' era stato tratto uno occhio da uno suo huomo d'arme giostrando insieme), essendosi un giorno, nel volere appiccare un facto d'arme, avicinati tanto l'uno a l’altro che si vedeano et pò teano parlare; il decto signore Gismondo dixe: Guercio traditore, questo è quel di che ti ghastigho. Al quale el prefato duca d'Urbino rispose: Tu hai decto el nome mio et il tuo: guercio sono io, ma traditor se' tu, et ha 'ne facto prova.

4.
Bartolomeo Valori, cittadino fiorentino molto nobile, et ne' tempi sua tra' primi administratori della repubblica sua, trovandosi imbasciadore de’ Fiorentini a papa Martino, de’ quali decte papa era molto inimico, la sua beatitudine un giorno gli dixe: Io ho disposto di far tre cose ad ogni modo: io voglio spegnere e frati di sancto Francesco; cacciare di Roma li Orsini, et disfare e Fiorentini. Al quale Bartolomeo rispose: Beatissime pater: de prima non curamus; de secunda condolemus; de tertia non timemus.

5.
Messer Giuliano Davanzati, trovandosi imbasciadore de’ Fiorentini allo Imperadore in compagnia, seguì che la mattina, che haveano ad esporre la ambasciata della prima audienza, messer Giuliano volle fare coletione, et bevve una piena tazza di malvagia. Il compagno ne lo sconfortava, dicendo, che era bene ire sobrio a tale acto. Messer Giuliano rispose: Non temere, che questo non darà noja. Havendo poi exposto la'mbasciata, messer Giuliano predecto, molto degnamente et bene et con somma commendatione di tutta la corte; et tornati allo alloggiamento; il compagno si gli gittò al collo faccendogli festa assai dell' onore havea riportato. Al quale messer Giuliano dixe: Pensa, se n'avessi beuta una più, quel che harei facto !

6.
Messer Rinaldo de gli Albizi, nel 1435, essendo confinato fuora di Firenze, et praticando decto messer Rinaldo di far muover guerra a' Fiorentini, con speranza di tornare in istato et cacciarne Cosimo de' Medici; mandò a dire a decto Cosimo, che la ghallina covava. Cosimo gli mandò a rispondere: Va, digli che la può mal covare fuor del nidio.

7.
Niccolò d'Andrea Giugni, trovandosi imbasciadore de' Fiorentini al re Alphonso a Napoli, la cui maestà in quello tempo amava una madama Lucretia, gentil donna napoletana; et per suo amore havea facto feste et dimostratione assai, dicendo et affermando sempre, che l'amava per gentileza et con lei non era venuto ad alcuno acto carnale; segui che, cavalcando un giorno il prefato re, et in suo compagnia Niccolò decto, scontrorono madama Lucretia, la quale, con molta gentile maniera et venustà, fece riverenza alla maestà del re. Ragionando poi Nicolò della decta madama, dixe: Certamente la vostra maestà ha facto buona electione in amare questa donna, la quale mi pare exemplo et spechio di bellezza; ma mi dispiace havere inteso, che nel corpo suo ella ha un gran mancamento. Il re sì come haveva preso gran piacere delle prime parole di Nicolò, cosi di queste ultime essendosi turbato assai, dixe subito: Che cosa è questa che avete inteso? Niccolò, mostrando et fingendo dirlo mal volentieri, dixe: ho sentuto, ch'ella è villuta sotto oltra a modo, et ha peli lunghi un dito per tutto. Il re incontinenti rispose: Per cap de Deu, non è vero. Et Niccolò, ridendo: Per cap de Deu, la vostra maestà l'à fottuta

8.
Essendo i Fiorentini in guerra col duca di Milano, fu mandato da loro Niccolò Giugni a soldare il marchese di Monferrato, il quale era allora a soldo del prefato duca. Appiccatosi adunque col prefato marchese, et richiestolo all' effecto della sua commessione, il marchese rispose, che, essendo obblighato col duca di Milano, non poteva venire per allora a soldo di Fiorentini con suo honore. Niccolò riplicò: Marchese, noi vi soldiamo et acceptiamo con ogni nostra cosa, con tutti i nostri incarichi: dell' onore nostro, lasciate il pensiero a noi, et venitene liberamente. Et così fece.

9.
Nel 1482, essendo la città di Siena in divisioni, et essendo tornati dentro alla città i Riformatori, et chacciatone i Nove con qualche aiuto de' Fiorentini; messer Antonello Petrucci, secretario allora, del re Ferrando, dixe a Piero di Gino Capponi, oratore in quel tempo de Fiorentini a decto re, al proposito de' Fiorentini e Sanesi: che a' Sanesi averrebbe come alla donnola, la quale ha più in fastidio et più fugge la botta che veleno che sia, et quando la vede, incontinenti si fugge et monta in su uno arboro: la botta vi si pone a pie, né parte sino a tanto che la donnola affatichatasi et agitatasi assai su per l'arboro, casca per la stracheza et per fame dinanzi alla botta.

10.
Luca Borgognoni, cictadino et mercatante fiorentino, trovandosi in ponente in quel tempo che in Pera, o vero Gonstantinopoli, era stato tagliato a pezzi da' Turchi uno consolo della natione vinitiana; occorse che andando galee fiorentine in ponente, et essendo mandato a decto Luca, come si fa, il charicho di dette galee; et leggendolo lui in un luogho ove si riducono mercatanti; uno Vinitiano havendo inteso leggere, et essendo l'ultima cosa una campana, per dirisione, dixe a Luca: Quella campana ha ella il battaglio? Luca incontinenti rispose: No, che egli è rimasto in culo al vostro consolo in Pera.

11.
Il duca Francesco Sforza, trovandosi a Mantova con papa Pio, quando vi fece el concilio, et consultandosi di fare la impresa contra a' Turchi; venendosi a' meriti del numero delle genti, parendo a epso duca, che si desegnassi piccolo numero, dixe: Beatissime pater, la vostra Santità sa con quanto gran numero di gente el Turcho esce in campagna, a pecto del quale i pochi non bastano: facci la Santità vostra che habbi gente assai et buona, et vinceràssi; perchè in efetto i pochi Iddio gliaiuta, ma i più vincono.

12.
Il principe di Taranto, cioè quello che fu in guerra col re Ferrando, usava dire: Guardiamoci dal danno, che dalla vergogna champeremo.

13.
Il signore Ruberto da san Severino usa dire: E' si vuole vincere. Item: Chi vuole ire, vada. Et però il duca Giovanni , quando era in consulta di far la impresa del reame, dubitando delle cose di casa sua, disse: Se io sto, chi va? et se io vo, chi sta qui Signore?

14.
Braccio vechio, havendo preso in una rotta Carlo Malatesta, capitano del campo oposto a Braccio, et tenendolo pregione nel suo padiglione honoratamente; lo domandò un giorno: Signore Carlo, se voi havessi preso me, che m'aresti voi facto? Rispose: Volete vi dica el vero? io v' arei inpiccato. Braccio sogiunse: Tale acto non intendo io già fare a voi, ma ben voglio mi facciate parte delle vostre cose. Et postogli di taglia 100.000 ducati, non lo lasciò prima che gli paghasse.

15.
Nel 1483, trovandosi a campo ad Asola, terra de' Vinitiani, Alphonso duca di Calavria, primogenito del re Ferrando di Napoli, con tutto lo exercito della magnifica lega che era allora tra Sixto papa quarto, il prefato re, duca di Milano, Fiorentini [e] duca di Ferrara; et essendo el signore Ruberto da san Severino capitano de'Vinitiani alla difesa; ma, per essere con assai minor numero di gente, stando largo et in su' vantaggi;il prefato signore Ruberto, per mostrare animosità et ghagliardia, mandò a dire al duca di Calavria, che voleva venire ad allogiare in luogo, onde e’ sentirebbe cantare e galli di Asola; affermando e giurando di farlo ad ogni modo. Intanto, per accordo, el duca vinse la terra; et messo e galli di quelli di Asola in una ghabbia, gli mandò per uno suo trombetto al signore Ruberto, con questa imbasciata: Di' al signore Ruberto, che havendo lui promesso et giurato di venire alloggiare in luogho, onde e' sentirebbe e ghalli di Asola; havendola io presa, et portandogli affectione, non voglio resti ispergiuro: però gli mando de’ ghalli di Asola, acciò gli senta cantare a suo posta.

16.
Erono i Fiorentini in guerra con Giovan Galeazo Vesconte duca di Milano, et ciascuno havea e campi opposti l'uno all' altro in dua diversi luoghi. De' campi fiorentini erono chapitani messer Giovanni Aguto et il conte di Ormignacca. Seguì che il conte di Ormignacca fu rotto dal prefato duca di Milano, il quale poi venne a dosso all' altro campo de' Fiorentini, del quale era capitano messer Giovanni Aguto, che allora era tenuto capitano astutissimo. Parendo adunche al duca di Milano haver ridocto messer Giovanni predetto in luogo che non se ne potessi andare, gli mandò una golpe in una gabbia. Messer Giovanni cognosciuto quello significava questo acto, rocto colle dita 2 gretole della ghabbia, per le quali la gholpe ne poteva uscire, la rimandò al prefato duca. Poi la nocte seguente, senza suono di tromba, lasciati nello alloggiamento tesi i padiglioni et le tende, si levò et ridussesi in luogho salvo, perso solamente i padiglioni et le tende, i quali lasciò per duo rispetti: l'uno, perchè gli nimici, vedendogli tesi, non stimassino et non sapessino si presto la sua partita; l’altro, perchè i soldati del duca di Milano, per la speranza del sacheggiare gli alloggiamenti, non gli fussin tutti alle spalle.

17.
Il conte Iacopo Braccesco, essendo preso a Napoli dal re Ferrando, dixe: Non tel dix' io, Broccardo ! Il quale Broccardo era primo secretario del decto conte, et havea confortato il conte a ire a Napoli, disputando tra loro prima insieme, se era da irvi, o no; et il conte neghandolo.

18.
Messer Ridolpho da Varano da Canterino, quale fu capitano di gente d'arme nei sua tempi assai riputato, trovandosi in Bologna alla difesa, alla quale era il campo; il capitano de'nimici gli mandò a dir per un trombetto, che si maravigliava assai, che, essendo lui valente soldato, non uscisse mai fuora a romper qualche lancia. Al quale messer Ridolfo mandò a rispondere: Va, digli che io non esco fuori, perch' io non voglio mai che lui entri dentro.

19.
Haveano i Fiorentini comperato da messer Lodovico da Campo Freghoso Serzana et Serzanello, con altri torri circunstanti, nel 1468; nel qual tempo Galeazo duca di Milano havea nelle mani il castellecto di Genova, et se ne chiamava Signore. Seguì che la comunità di Genova, tenendosi gravata di decta compera, mandò imbasciadori a' Fiorentini, dolendosi di tal compera et quasi protestando qualche cosa di male. Era allora ghonfaloniere di iustitia messer Luigi Guicciardini, il quale, intesa tal proposta, rispose a' decti inbasciadori, che la Signoria di Firenze si maravigliava assai, che venissino ad exporre tale imbasciata sanza lettera di credenza del loro Signore: pertanto che venissino con lettera del duca di Milano, loro Signore, et sarebbe loro prestato fede et poi risposto.

20.
Federigho duca d' Urbino, consultando [nel] 1482 con li oratori del re Ferrando, duca di Milano, et i Fiorentini, el modo di difender Hercole duca di Ferrara da'Vinitiani, i quali gli preparavano guerra non piccola; dixe: non essendosi anchora potuto deliberare ove con le genti si havessi a voltare, che per una maxima et potissima cosa era da provedere di havere una volta le genti a ordine; dicendo, che si era visto bene alle volte che i pochi haveano vinti gl'assai, ma non mai che sanza genti si vincesse.

21.
Messer Diomede Caraffa conte di Matalona, molto stretto et intimo et primo consigliere del re Ferrando di Napoli, et nei suoi tempi riputato uom savio; usava dire, che le genti d'arme erano facte come le pechie, le quali, se erano assai et sparte qua et là, non faceano male; ma unite in uno vaso o chassette, insieme, ne faceano assai.

22.
Guido dal Palagio, trovandosi imbasciadore de'Fiorentini a Giovanni Galeazo Visconte duca di Melano, e trattandosi tra duca et Fiorentini pace, et havendo ferme tra loro le conditioni et i capitoli, il prefato duca disse a Guido: Questa pace chi laoserverà? Guido incontinenti tractosi dallato uno coltello, rispose: Questo, signore. Et però è in proverbio, che l’arme sono il iudice dell' appellagion de' potenti.

23.
Giovanni da Gaviole architettor fiorentino, nel riparare et acconciare il palagio della Signorìa di Firenze, facto uno disegno con molte armadure et catene, vedendolo messer Francesco araldo di palazo, cioè della Signoria di Firenze, volendo beffare el decto Giovanni, lo dannava con suo ragioni, intra l'altre dicendo: Tanti leghami et tante chatene mi impaurischono. Giovanni subito dixe: Non ti maravigliare, che tutti i pazzi il fanno.

24.
Il ducha Hercole di Ferrara quando fece le noze di madama Lionora sua consorte, et figliuola del re Ferrando; taxò tutti gli uffici et arte di Ferrara dovergli dare uno tanto per le noze, come si costuma in terre di signori quando menano donna. Oltra a questo per hornar la piazza vi fece fare più cose: tra le altre, alzare et dipignere la faccia del palagio del podestà, et la spesa asegnò sopra i notai et procuratori, che stavano in decto palazo a procurare. I quali, inteso questo, et havendo tra loro disegnato di fare certi vasi d'ariento per presentargli a decto Signore; andorono a lui, preghandolo che fussi contento perdonare loro la spesa di racconciare il palazo, havendo loro preparato già di fargli il decto presente degli arienti. Il duca rispose, che gli avea sempre cognosciuti magnifici et da bene, et però gli ringratiava assai del presente degli arienti, il quale aceptava; ma, per gentileza, voleva facessino ancora la spesa del palazo. E così feciono.

25.
Nel tempo che i Turchi havevon preso Otranto in Puglia, che fu nel 1481, essendovi a campo il duca di Calavria, et in suo aiuto Maglierblax capitano del re d'Ungheria; consultando insieme i capi del campo, tra le altre cose, se era da trar di nocte con le bombarde a Otranto et fare il peggio si poteva, o pure seguitare el modo consueto del militare italico (ad che molti si accordavano per ridurre i Turchi, che erano in Otranto, ad fare anchora loro il simile; i quali insino allora havevano facto alla turchescha, et facte contra a quegli del duca crudeltà assai); il prefato Maglierblax dixe, che era da trar di nocte et fare il peggio si poteva, perchè ogni riposo dato, et rispiarmo facto al nimico, tornava a danno propio et era gittato via.

26.
Messer Antonio, piovano di Cercina, huomo per doctrina et per sperientia molto riputato ne' suo tempi, standosi un giorno alla suo pieve, per trarsi tempo, giucando con un contadino; venne tra loro una posta in disputa, et tirandola a sé messer Antonio, il contadino gli die una gran ceffata. Del che messer Antonio nel primo punto si turbò assai, ma incontinenti raccoltosi, se ne rise; et, stato alquanto (per non mostrare ira et di essere stato offeso, come in verità era), sanza dire o fare altro acto al contadino, lasciatogli la posta, si levò da giuoco. Alchuni amici suoi, presenti, maravigliandosi tshe di tale acto se ne passassi così di leggieri, lo domandorono della cagione. A quegli lui rispose, che conosceva bene che il contadino che avea troppo offeso, et che se ne poteva vendicare; ma considerato la qualità et grado della persona sua et del contadino, et molto più l’origine della cosa, la quale bisognava si havessi a intendere quando lui procedessi contro il contadino; vi sarebbe per sé più perdita che guadagno, et però se ne stava cheto. Dicendo in ultimo: La ceffata mi darebbe egli, se io ne facessi dimostratione.

27.
Scio, isola, chome è noto, è de' Genovesi; et Rhodi de' Frieri, ma li habitanti sono Greci, et secondo e chostumi de' Greci vivono et si governono. Per essere vicine, queste due isole hanno tra loro conventioni et capitoli rispetto a commertij quotidiani. Occorse che alchuno di Rhodi havevano facto alchune cose in graveza di quegli di Scio: i Genovesi mandorono a Rhodi a querelarsene et dimandare la satisfatione de’ danni, et la punitione de’ malfactori. Chi n'avea cura et potestà, trovati i delinquenti, fece loro, sopra un pulpito in piaza, radere la barba; et senza fare altro gli lasciò ire. I Genovesi, parendo loro questa punitione molto leggieri, mandorono a dire, che di questo non erono né si chiamavan satisfatti: a'quali fu risposto, che a un Greco non si poteva fare maggiore ingiuria et vilipendio che radergli la barba. Per il che, ripigliando i Genovesi questo acto a delusione, ordinorono che alcuni de' loro facessino ingiuria et danno a quegli di Rhodi; del che mandando poi quelli di Rhodi a querelarsene, i Genovesi, trovati facilmente i delinquenti, mostrando procedere sinceramente et con verità in questo caso, facto fare un pulpito in piaza, fecero a tutti costoro radere il culo. Dolendosi quelli di Rhodi di sì vile punitione, risposono, che la maggior ingiuria et vilipendio si potessi fare a un Genovese, era radergli el culo.

28.
Il marchese Nicolò di Ferrara.andando a uccellare un giorno, et sopravenendo una gran piova, mentre lui era in campagna, si ridusse al coperto in casa d'un contadino (la prima che trovò), al quale la precedente nocte era nato uno figliuolo maschio. Scavalcato il marchese, il contadino gli disse: Buon prò faccia, signore. — O di che? — Stanotte è nato uno asino a tuo signorìa. — In che modo? — Stanotte ho havuto un flgliuol maschio. — GÌ' uomini sono asini ? — In questo paese si, perchè noi sopportiamo tante gravezze, et facciamo tante fazioni per te, che in effecto tutti ci possiamo chiamare asini. Il marchese, visto con quanto animo et buono modo l'havea decto, fece exempte lui et tutti e suoi figliuoli.

29.
Messer Simonetto Belpratto, di natione catelano, et dal re Ferrando di Napoli molto operato in leghationi, et spetialmente nelle cose di Genova, delle quali decto messer Simonetto ha grandissima notitia et pratica; havendo esso messer Simonetto appiccata una pratica d'accordo tra'Fiorentini et messer Lodovico et messer Agostino da Campo Fregoso, et havendone havuta (1) da'prefati Freghosi intentione molto affermativa di farne conclusione; poi inanellandogli della loro fede et promessa, dixe: che i maggiori traditori che sieno al mondo sono i Genovesi; tra' Genovesi e Freghosi; et tra' Freghosi messer Lodovico et messer Agostino sopra scritti. Et in su questo, per pruova del suo dire, riferì questo motto apresso.
(1) Il codice: havuti.

30.
Il re Alfonso havendo gran desiderio di havere a suo divotione Genova, fece una conventione con messer Lodovico da Campo Freghoso, di dargli danari et altri favori perchè lui si facesse doge di Genova, con promessione et obligho di fare verso el prefato re alchune cose; et per sicurtà del re gli decte uno suo figliuolo naturale per statico. Seguì che, observate il re dal canto suo le promesse et conventioni, messer Lodovico si fece doge di Genova; et mandando il re a chiedere l'oservatione delle cose haveva a fare messer Lodovico verso del re, sotto varij et quesiti colori l'andò qualche tempo tranquillando. Il che conosciuto el re, gli mandò a dire et protestare, che, se non gli observava le promesse, impicherebbe il figliuolo. Messer Lodovico rispose, che ne facessi quello gli piaceva, perchè non era suo figliuolo. Il re considerato nella perfidia del padre quello figliuolo non ci haveva colpa; et visto, doppo che lo tenne qualche tempo sostenuto, che '1 padre non se ne curava, et contra il re faceva quello gli venia a proposito; lo lasciò facilmente ire ove egli volse.

31.
Messer Pandolpho Collenuctio oratore del signore Costanzo Sforza, nel 1485, a' Fiorentini; usava dire, che alle principali potentie d'Italia si davano gliinfrascritti epiteti et propietà: Auctoritas pontificis: sapientia regis: potentia venetorum: arma mediolanensium: aurum florentinorum.

32.
Messer Pandolfo sopra decto usava dire, che chi vuole reggersi in istato bisogna facci tre cose: Iustitia a corte, dovitia in piaza et nodo alla bracha.
33.
Anchora el sopra decto messer Pandolpho usava dire: Chi vive al dì d'oggi bisogna facci tre cose: Spalle d'asinello, braccia di porcello et orechi di mercatanti.

34.
Sixto papa quarto trattandosi dinanzi a lui, nel 1463, di tirare e Genovesi nella legha che era tra il papa, el re, duca di Milano, Fiorentini et duca di Ferrara; et mettendo gl'oratori di Milano per ferma et conclusa la cosa; dixe, che se ne 'nghannavano, perchè non era da porre speranza, o fare fondamento in su parole o promesse di Genovesi, i quali erano fondati in ariento vivo; et chi voleva dipigner Genova, dipigneva una anguilla.

35.
Innocentio papa octavo, essendo nel 1484 i Fiorentini a campo a Prieta Santa, terra allhora de’ Genovesi, dixe all'oratore fiorentino che si trovava allora a Roma, che arebbe caro de plano et equo accordare la cosa tra Fiorentini et Genovesi, acciò non havessi a seguire qualche gran disordine in Italia; et essendo lui Genovese, cognosceva et sapeva la natura de' Genovesi, i quali, per satisfare alli appetiti loro, non si curerìano di subvertere un altro mondo.

36.
Messer Aghostino Adorno usava dire: che Zena vince Zena, et non altri; inferendo, che Genova da una potentia externa si difende, ma che, per le divisione sono tra loro, chi la vince, non la vince mai se non con loro medesimi. Item, a Genova usono dire: Gatto fa gente, ma fa niente.
37.
Uno mercatante fiorentino, il cui norme a buon fine si tace (1), huomo nobile et ricco, trovandosi a Genova per sua mercatantìa, et andando a veder la terra in compagnia di due mercatanti genovesi; stando alcune donne nobile a sedere all’uscio di casa loro, onde a caso costoro passorono; essendo le decte donne, oltra al consueto et naturale delle donne genovese, molto licentiose nel parlare; cognosciuto che il mercatante fiorentino era forestiero, mostrando colla mano uno pelo del capo, o vero delle loro parti più coperte, a quelli Genovesi che l'acompagnavano, et de'quali esse donne haveano notitia,, dissono: Quello mercatante (per derisione) , comperia 50 broche (sic) d'esta lana? Il Fiorentino cognosciuta la delusione loro, messo mano alle sue coperte parti, et tractone fuori chi vi sta, rispose: E' ne vuole dimandar prima el sensale. Il che visto le donne, levatesi a furia, si ridusseno in casa con loro verghogna.
(1) Nel margine del codice si legge: Messer Bongianni Gianfigliazi.

38.
Messer Piero Minerbetti consultandosi aFirenze in consiglio generale, nel 1478, quello fusse da fare per difesa della guerra, che papa Sixto quarto et re Ferrando mossono a'Fiorentini; proferendo (1) esso messer Piero el suo consiglio, tra le altre cose, dixe lo infrascritto motto. Che il patriarca, quale stette già in Firenze più anni, usava dire, che de' più tristi huomini che erano al mondo si faceono i preti; de' più tristi tra i preti, vescovi et altri prelati; de’prelati, cardinali; et de' chardinali, papi.
(1) Il cod.: preferendo.

39.
Uno Bergamasco, trovandosi a caso con uno Fiorentino all’osteria a scotto, il Fiorentino, preso cura di tagliare, puose in sul tagliere, innanzi a sé, tutti i buoni bocconi. Il Berghamasco, non gli piacendo questo acto, domandò il Fiorentino di che famiglia et città fusse a casa sua, et se gli basterebbe l’animo o le forze di fare novità in Firenze. Il Fiorentino rispostogli circa alla famiglia et auctorità al proposito, et alla parte del fare novità, che questa era pazia a dimandamelo, perchè in si facta città non si potea per uno suo pari fare simile acto; il Bergamasco disse, che era da molto più di lui, perchè gli bastava l’animo di voltare, Berghamascho come [era], quello tagliere; et cosi preso et giratolo, tutti i buoni bocconi restorono dal lato suo. [E], sobgiunse, perchè queste non son cose da ragionarne, attendiamo a mangiare.

40.
Marco Trocto, segretario del duca di Milano, essendo stato oratore di decto duca al re Ferrando nel 1480, visto et esaminato uno dì la speditione (1) di quella corte, dixe: che a Napoli il primo di si faceva ogni cosa; il secondo la metà, e '1 terzo niente.
(1) Il codice: et la speditione.

41.
Il castellano Sarto, trovandosi un sabato a Prato in un barbiere, sopravenne uno mugniaio, al quale il castellano disse, per giuoco et motteggio, che si havessi cura, perchè in Prato si era facta una legge, già suta a Roma, per la quale si disponeva, che ogni sabato si punissi qualche maifactore per terrore degl'altri: mancando malfactori si togliessi uno mugnaio o uno sarto, come ladri ordinarij et noti. Rispose il mugnaio: La cosa è hora mutata, perchè ogni mugnaio, per vendecta, porta inpiccato uno Romano.

42.
Al tempo che i Turchi havevano occupato Otranto, il re Ferrando sollicitava i Fiorentini a dargli favore, per obli della legha che era tra loro. I Fiorentini chiedevano al re che ristituissi loro le terre che sua maestà teneva, sute prese nella guerra allhora de proximo stata tra papa Sixto quarto, el prefato re et Fiorentini, alleghando gli administratori della repubblica fiorentina, non potere indurre né disporre i cictadini né il popolo a paghare le graveze per dare aiuto a sua maestà, non rendendo le terre. Il conte di Matalona non gli piacendo questa risposta, dixe all' oratore fiorentino che allora si trovava a Napoli, a questo proposito, lo infrascripto motto. Madama Lucretia, gentile donna napoletana, fu amata da re Alphonso, la quale era bella et d'ingegno, ma la più superba fusse mai vista; et teneva quel conto del padre et della madre, che del famiglio et della fante. Quando il re Alfonso la mandava a invitare a qualche festa o ballo, se le piaceva d'andare, andava senza dire altro o a padre o a madre; non gli piacendo, rispondeva: Mia madre non vuole

43.
Messer Poggio Bracciolini, essendo cancelliere della Signorìa di Firenze, et trovandosi un giorno nella audienza di Dieci, dei quali allhora era Cosimo; et soprastando i Dieci per casi importanti, sonò nona. Udendola messer Poggio, dixe: Cazzo in culo a questo popolo: odi nona! io ne voglio ire a desinare. Cosimo, udendo, dixe: Maledictus puer centum annorum.

44.
Nel tempo che i Turchi teneano Otranto in Puglia, il re Ferrando chiedeva aiuto a1 Fiorentini sua collegati per recuperarlo; e i Fiorentini [risposero] , che sua maestà rendessi loro le terre, che, nella guerra che papa Sixto quarto et decto re havevano facta contro a' Fiorentini, l aveva occupate. El conte Girolamo , la cui origine è notissima, per qual si vogli cagione governava allhora papa Sixto, et faceva quello gli piaceva del pontificato, o bene o male che fusse. Il re diceva poter mal fare la restitutione delle terre senza el consenso di papa Sixto et conte Girolamo, in compagnia de'quali l'havea aquistate; et cercando haver da loro aiuto gli bisogna[va] non altercargli; confortando anchora i Fiorentini ad fare dal canto loro qualche opera, per fare restare contenti il papa et el conte di questa restitutioné. Fiorentini dicevano non poter dare gagliardi aiuti a sua maestà sanza questa restitutioue. Et andando da Napoli a Firenze, (1) per questa cosa, lettere et imbasciate assai né tra loro accordandosi messer Antonio Calcinello, gentile huomo napoletano, consigliere del re, nella sua corte riputato da alchuni huomo savio et modestissimo fu mandato dal re imbascìadore a Roma per intender l'ultima intentione del papa et conte circa a questo et per praticare qualche altra cosa, Tornò a Napoli [poco] satisfacto della risposta fattagli dai prefati papa et conte, i quali mostrorono di fare poco conto di lui, o di cosa che proponessi; et stando le cose in questa suspensione, il prefato messer Antonio ad questo proposito, dixe all’ oratore fiorentino residente allora a Napoli, lo infrascripto mocto (2).
Furono già nel reame di Napoli duo baroni, l'uno conte d'Avellino, l'altro Signore della Tripalda; i quali (3) per confini venneno in dissensione, et in ultimo in guerra et inimicitia mortalissima: ogni dì l'uno contra all' altro, con rapine, incendij et uccisioni, faceano il peggio che poteano. Per esser le facultà loro piccole, et l'entrate non apte a sostenere spesa propia di soldati a pié et a cavallo; ciascuno di loro dava ricepto a sbanditi et malfactori et altri simili, dei quali si servivano per guerreggiare l'uno contro all'altro; [et] per havergli più fedeli et volentieri, gli carezavano et tenevangli a corte sino alla propia mensa. Occorse che al conte di Avellino fu presentato un fagiano; et ordinato che fusse cotto per il desinare, et venendo in tavola con altre vivande, uno dei sopra nominati, trattolo del piattello, se lo mangiò con altri che gli erano apresso. Il conte ricordandosi nel disinare del fagiano, lo chiese; et non si ritrovando, et inteso chi l'avea mangiato, sdegnandosi assai che d'un suo fagiano che v' era, lui non havessi havuto minima parte; simulato el dispiacere, cominciò in su questa minima cosa a pensare quello che lui sopportava da simili huomini, et in continui affanni jn che dì et nocte viveva. Et doppo lunga examina, facto ultima deliberatone di quello voleva (4) fare, stato alquanto, montò a cavallo; e fingendo d'ire a sollazo, solo, se n' andò alla terra del Signore della Tripalda; ove giunto, con grandissima amiratione di ognuno, del Signore maxime, sboccatosi con lui, doppo che l'ebbe salutato, gli parlò in questa forma: Signore, io sono venuto a te, solo et senza alcuna difesa, chome tu vedi, non per escusarmi né per chiederti perdono di ciò che contra di te ho facto fino a qui; ma [a] rimettere in te solo la guerra et la pace. Et se tu vuoi pace tra noi, et me per tuo huomo et fedele vicino et amico, et in luogho di fratello, io sono parato a farne la tua voluntà, et acepterò quelle conditioni che tu medesimo vorrai. Volendo guerra, eccomi qua colla persona et colla vita: falla come ti pare, perchè io al tutto sono disposto fare, prima la guerra a tuo modo, et la pace a tuo posta, et rimettere in te (che almancho sé' Signore naturale) lo stato et la. vita propia, [anzi] che stare più a discretione di tanti rubaldi et malfactori, tra'quali vivo et di
et nocte. Da loro che sono molti sop porto molte ingiurie per non sopportare da te una sola ingiuria. Eleggi adunque tu quello ti pare, che io sono qui a tuo arbitrio et discretione. El Signore havendo ascoltato con grandissima intentione et meraviglia il parlare suo, et domandatolo che accidente l'avessi così de facto indocto a pigliar tal partito, et lui riferitogli el caso del fagiano; dopo che hebbono tra loro parlato et riplicato alquanto, finalmente abracciandosi et baciandosi, con grandissima festa et allegreza di tutt'i loro parenti, feceno tra loro sincera et buona pace, et strettissima coniuntione et legha. Nella quale, licentiatì tutti e sopra nominati sbanditi che ciaschuno di loro teneva apresso di sé, continuorono et vissero talmente, che non era tra loro alcuna differenza delle cose l'uno dell' altro, et in comune tra loro si viveva; et vixero a guisa di carnalissimi et amantissimi fratelli.
(1) Il codice: et a Firenze.
(2) Il ms. ha questa giunta: a Piero di Lutozo Nasi.
(3)Il codice legge: tra i quali.
(4) Il codice: soleva.

45.
Cosimo de’ Medici, vedendo un giorno in dosso a messer Dietisalvi, o vero Nerone Neroni, una bella vesta et più là che l’ordinario dell' uso de' Fiorentini, gli dixe: Questa è troppo bella cioppa a sì poca gravezza. Messer Dietisalvi rispose subito: Et cotesto è troppo poco cervello a sì grande stato.

46.
Cosimo de’ Medici, andando un dì a spasso con alcuni cittadini, trà’ quali era ***; a caso si scontrarono in uno Uguccione pazzo, il quale dixe a Cosimo: Cazzo in culo, Cosimo. Rispose Cosimo: Dallo qui a ***, che se ne dilecta. Soggiunse ***: Cosimo, Cosimo, tu vuoi piacer de' savi, come de' pazi: se le poste fussino del pari, io ti risponderei altrimenti .

47.
Nel 1480, tra Ferrando re di Napoli, duca di Milano, Fiorentini et duca di Ferrara, si tracciava di fare legha particulare, per la legha che allora di proximo Sixto papa quarto liavea facto con Vinitiani. El duca di Ferrara non voleva intrarr in questa legha, se non era condocto dal duca di Milano et Fiorentini et re di Napoli, et chiedeva oetanta mila ducati 1' anno a tempo di guerra., et cinquanta mila a tempo di pace. A'decti potentati questa spesa dall'un lato pareva troppa grande, dall'altro ognuno induceva essere molto necessario tenere in decta legha il prefato duca, accioché, restandone fuora. non s' aplicnssi col papa et Vinitiani. Tractavasi questa cosa a Napoli, et essendo li oratori di Milano et Fiorentini con la maestà del re un giorno in disputa sopra questa materia, il re (che sollecitava molto la conclusione di questa legha per potere opporsi ad ogni inpresa che il papa et Vinitiani avessino disegnata) parlò ai prefati imbasciadori in questa forma: Signori imbasciadori, mentre che '1 bisogno ne stringe per fare i facti nostri et levar via a papa et Vinitiani concepti et disegni: non è da guardare in questa spesa, né curarsi di spender al duca di Ferrara questi danari; perché quando saranno usciti di suspensionesione, et che haremo stabilite meglio le cose della nostra lega, porremo sempre diminuire questa spesa. Il re Alphonso, mio padre, oonduxe già Federigo duca d'Urbino, in tempo che gli bisognava, a ducati ottantamila Tanno: dipoi, seguendo pace et cessando el bisogno, lo riduxe a 5000, et ne restò patiente. Vediamo una volta dare alla nostra lega riputatone, colla quale poi potremo risparmiare di molte spese et conservare i nostri stati; che chi ha a tenere Signorìa et stati con danari, senza servirsi della riputatione et col suo mezo rispiarmarsi nelle spese, tutto l'oro del mondo non gli basterebbe.

48.
Al tempo di Octamanno inperador de' Turchi, quello che aquistò tante Signorìe, et intra le altre cose lo imperio di Costantinopoli; era una nave vinitiana surta nel porto tra Costantinopoli et Pera. Et andando un giorno sopra una piccola barca il decto Octamanno, sconosciuto, da Costantinopoli in Pera, chome solea fare spesso; passando vicino a decta nave, uno nochier d'essa, cognosciuto el Signore, dixe: Hora sarebbe da fare uno bel tratto! Quello che guidava la barca del Signore, havendo udito et inteso questo, lo dixe al Signore, il quale subito fé dar volta. Et tornatosi a corte comandò che tutti gli uomini di quella nave fussino esaminati, tanto si trovassi chi havea decto quelle parole; et, trovato, gli fussi apresentato. Et perchè era molto rigido, et molto temuto et ubidito, cercando ciaschuno di quegli della nave di sé medesimo, trovato facilmente chi Tavea decte, gli fu apresentato. Il Signore lo domandò se havea decte quelle parole, [et egli] confessò, con grandissima paura et quasi certeza dell'avere a morire, esser vero. Il Signore sogiunse: Sarebbe ti bastato l'animo di farlo? Rispose arditamente: Signore, per fare sì bel tracto forse che sì. Il Signore, visto con quanto animo li havea risposto, gli perdonò; et donatogli alquante migliaia di orsini, lo ripuose in sua libertà.

49.
Marco de’ Ricci, chiamato il Giallina, cictadino fiorentino, havea con interesse et usure accumulato alquante centinaia di ducati. Sopravenendogli grave et mortal malattia, et confessandosi, il confessore lo strigneva a ristituire questi danari. Lui, parendogli restar povero, lo ricusava. Il confessore gli diceva, che sanza questa restitutione, o proposito di farla, non potea [assolverlo]; et per consequente, succedendo la sua morte, l’anima sua n’ andrebbe in perditione e non sarebbe ricevuta da Dio, come d'ogni fedele et buono cristiano; [il] che dovea sopra ogni altra cosa cercare. Marco finalmente gli rispose: Se Cristo vuole dell' anime, stiacci de' nòccioli; che questi danari non intend' io ristituire.

50.
I Pisani, al tempo che erano in istato et Signorìa, contendendo co' Genovesi delle cose del mare et di chi v'era più valente et forte, dicevano contro a’ decti Genovesi: Galea per banda, et Dio dal vostro.

51.
II conte di Matalona per mostrare quanto il re di Napoli, duca di Melano et Fiorentini stavano bene in legha insieme, et quanto tra loro la legha è durabile; tra le altre ragioni asegnava questa: che gli stati loro sono in modo distanti et non confinanti insieme, che non anno materia da desiderare cose l'uno dell'altro; né per confini, come spesso adviene, può tra loro nascere contese o discrepanza alcuna.

52.
Attilio de'Medici, nel 1484, disdicendo in nome della Signoria di Firenze una tregua tra decta Signorìa et Genovesi , et faccendo tale acto con dua Genovesi commessari; i decti commessari, rispondendo, protestarono che non acceptavano tale disdecta, se none in quanto di ragione valessi. Attilio, parendogli aver satisfacto alla commessione et intentione de'sua Signori, replicò: La ragione et la forza sarà per noi. Et cosi decto si partì da loro.
53.
Il re Alpbonso, in quegli primi anni che aquistò el reame di Napoli, era nelle impositioni et e xactioni de' tributi et censi molto rigido; del che molti regnicoli, non solamente plebei o vulgari, ma gentiluomini nobili et baroni, si querelavano assai, sparlando acerbamente contro a sua maestà. Il che essendogli da'sua amici riferito, rispondeva: Se io fo quello che io voglio, et eglino lo sopporto[no]; ben posso sopportare io quel che dicono (1).
(1) Nell’ originale segue questa variante: Se sopportono quello che io fo, non poss’ io sopportare quel che dicono?

54.
Fu, non è molto tempo, uno Signore, il quale havea per via indi retta occupato uno stato, et verso de' sua subditi faceva in più cose portamenti sì tristi et molto disonesti. Il che vedendo e subditi , et non potendo né volendo più sopportarlo, la più parte di loro feciono congiura contra a lui di torgli la vita; et essendo la cosa nel pecto di molti, ne seguì che '1 Signore n'ebbe qualche lume; et factone pigliare alchuni de'più sospecti, alla tortura intese (1) da loro l’ordine dato, et la moltitudine de'congiurati. Considerando adunche, che la più parte de' suo subditi erano compresi in questa congiura, et che, volendo punire ognuno, non gli restava subditi; dispuose di lasciargli per allora impuniti, et fece metter un bando in questa forma: che qualunche fusse stato in decta congiura o capo o membro, o in tutto o in parte conscio et partecipe; se fra XV giorni si andava alla corte a notificare et paghava un grosso, si intendesse esser libero da ogni altra pena et preiudicio. Cominciorono alcuni, i meno delinquenti, et successive tutti li altri, a fare questo; et così facto, si stavano. Il Signore havea facto fare uno libro, nel quale faceva scrivere i nomi di tucti costoro et porgli debitori di quel grosso, chiamandolo el libro del grosso: attese intanto con ogni opportuno rimedio ad assicurarsi dello stato, et a tutti costoro observò liberamente il bando. Ma come ne'popoli adviene, che spesso, et giorno per giorno si fanno degli inconvenienti, ordinò che i delicti et disordini che si facevano in suo dominio gli fussino notificati, né alcuno suo rectore procedessi contro alcuno malfactore senza sua licentia. Eragli adunche alla giornata notificato un malfactore, lui incontinenti faceva vedere se era a libro del grosso scripto: non vi essendo, faceva in parole dimostratione assai di volerlo punire, ma poi in facto lo trattava humanissimamente; se vi era scripto, subito per ogni piccolo errore lo faceva inpiccare, o punire acerbamente, con oltre all'un venti di quello meritava.
(1) Il codice dice inteso

55.
Gualterotto conte di Verni e teneva già per suo cancelliere uno Romano, il quale, secondo l'uso della suo patria, nel parlare diceva tu a ognuno a chi parlava, fussi chi volesse, se non a Gualterotto che gl'era padrone. Gualterotto ne l’ havea più volte ripreso, dicendogli: Terra che vai, uso che truove; sì come: cum fueris Rome ec; che se bene a casa sua si costumava a dir tu, che a Firenze era il contrario, che per più modestia si diceva voi, maxime a huomini di conto. Et tanto ne lo riprese, che cominciò pur qualche volta a dir voi. Et quando al cancellier parve haver preso questo uso, non potendo però discostarsi dal suo naturale, dixe un giorno a Gualterotto: Signore, i’ò caro, che tu m’ài insegnato dir voi alla brighata.

56.
Gentile degl' Albizi, cittadino fiorentino, giucava spesso a tavole, benché non fussi buon giucatore; et conoscendosi dall'un lato giucar male, et dall'altro pigliando piacer di far pure a quel giocho, giucava molto adagio. E essendo domandato perchè giucava si adagio, rispondeva farlo per havere perduto meno la sera.

57.
Sancto Ambruogio arciveschovo di Milano, et sancto Zanobi arciveschovo di Firenze, furono a un tempo; et per essere di santità et doctrina conformi, teneano insieme strettissima amicitia. Occorse che sancto Ambruogio andando a Roma, et passando per Firenze, sancto Zanobi lo ricevè alla suo chiesa; et la mattina che dovea partire gli preparò di far coletione. Sancto Ambruogio richiese sancto Zanobi, che in suo compagnia facessi colectione. Sancto Zanobi il neghò, dicendo che voleva, partito lui, celebrare. Sancto Ambruogio lo richiese di nuovo, che dovessi far colectione in suo compagnia per carità. Sancto Zanobi, udito questo, lo fece incontinenti. Partito di poi sancto Ambruogio, et, poco lontano, essendosi scordato di domandare sancto Zanobi di alcune cose, delle quali desiderava risposta; mandò indrieto un suo cappellano colla imbasciata, el quale venendo a san Zanobi, trovandolo che diceva messa, bisognò aspectassi tanto l’avessi finita. Dipoi, facta la sua commessione et tornando a sancto Ambruogio con la risposta, sancto Ambruogio il dimandò, perchè havessi tardato tanto. Il cappellano gli disse la cagione; del che sancto Ambruogio restò molto maravigliato, non senza qualche mormoratione verso sancto Zanobi, che havendo la mattina facto colectione, dicessi poi messa, contra alla forma de’ cànoni et constitutioni pontifice. Giunto a Roma ne scripse a saneto Zanobi, ricercandolo che gli giustificasse questa cosa. Sancto Zanobi gli rispose, riducendogli a memoria che alla prima sua richiesta non havea consentifo, ma alla seconda, essendo da lui suto richiestone in carità, non havea potuto né dovuto negharlo; perchè la carità era sì grande et sì potente virtù, et tanto accepta a Dio, che collo stilo suo poteva difendere et sostenere ogni impeditone, che gli fusse potuta dare dell' avere facto colectione (non essendo altrimenti in caso di alcuna necessità), et poi el medesimo dì celebrato.

58.
Zanobi di Raphaello Acciaiuoli vagheggiava già la Maria di Girolamo Moregli, fanciulla ne'suo tempi molta bella, la quale si maritò poi a altri; et trovandosi una sera, decta Maria, a una cena ov' era il decto Zanobi; et essendo essa Maria grossa; uno huomo da bene, dixe: Zanobi, tu non havevi al tuo amore altro riparo, se non che la Maria ingrossassi. Et essendo decto: Perchè? Questo tale sogiunse: Perchè in questa grosseza le potrebbe venir voglia di qualche strana cosa, come aviene spesso alle donne grosse, che sarebbe la ventura tua.

59.
*** huomo, ne’ suo tempi, savio et tra' primi administratori della republica fiorentina, havendo tardato assai a tor donna,*** lo domandò un giorno della cagione. Il quale rispose farlo, perchè non si cognosceva di buona natura, come lui, che e’ potessi reggere all' uno et all' altro.

60.
Il Gheldole, essendo minacciato da’ sua di metterlo nelle stinche, rispose loro: Se io v'imparo dentro qualche articella, voi me ne vorrete trarre a hora che io non ne vorrò uscire.

61.
Il patriarcha Vitellescho, il quale fu molto inimico de’ Fiorentini, nel 1444, a tempo di papa Eugenio, essendo suto preso a Roma in sul ponte di Castel Sancto Agnolo, et in decto castello messo in prigione, era da quegli che lo guardavano confortato che n'uscirebbe presto; a’ quali rispose: I mie pari non si pigliono per lasciargli (1).
(1) Il codice ha questa variante: I mia pari non non presi per lasciargli.

62.
Papa Pio II, al tempo che Ottomanno imperador de’ Turchi procedeva contro a’ cristiani, mandò uno suo secretario a Cosimo de7Medici, a richiederlo di parere di quello che fusse da fare in questo caso; dichiarandogli però, che a lui pareva di fare impresa contro al decto Turcho, et per questo pensava che fusse di fare una dieta de’ potentati cristiani, et maxime quegli italici, per intendersene insieme. Cosimo adunche, parendogli che fusse d'aver l’ochio a' Vinitiani, dixe per risposta al secretario, lo infrascritto motto a questo proposito.
Fu uno Pratese, chiamato il Serpe, il quale con usura havea guadagnato danari .issai: venendo a morte, i figliuoli gli ricordarono, se voleva si facessi bene alcuno per rimedio dell'anima sua, lo dicessi prima si morissi. A’ quali lui, essendo in proposito di non fare restitutione dell'usura, dixe: Habbiatevi voi cura da questi diavoli di qua, et con quegli di là lasciate fare a me.

63.
La famiglia di quegli da Canneto, come è noto, teneano già lo stato in Bologna; et havendo, i decti da Canneto, confinati molti cittadini della parte de' Bentivogli, loro adversarij; e essendo Bologna terra di Chiesa; questi confinati, ricorsono a papa Eugenio, che gli facessi ritornare in casa loro. Scripse il decto papa a Batista, capo di questi da Canneto, confortandolo et strignendolo molto rimettere i fuorusciti. Tenea Batista strecta amicitia con Niccolò da Uzzano, cittadino fiorentino, nobile, et ne’ suo tempi riputato molto savio: mandò Batista uno suo intimo a consigliarsi con Niccolò, quello gli pareva dovessi fare. Niccolò tenne alcun giorno questo mandato di Batista sanza fargli risposta alcuna; et standosi un giorno in casa doppo desinare con uno suo amico, et, per trarsi tempo, giucando insieme a tavole alla presentia del mandato di decto Batista; Niccolò, havendo perso uno gran giuoco ? dixe a quello suo amico lo infrascritto motto. Che e' gl’era suto uno cittadino fiorentino, el quale giucava a tavole spesso, et quando perdeva si adirava et bestemmiava: giucando un giorno con uno huomo da bene, et havendo perso uno gran giuoco, cominciò a bestemmiare; di che turbatosi il compagno, dixe non voler giucar più con lui, per non essere causa di tanto suo errore. Lui per l’ordinario havendo voglia di giucare et per allhora di riscuotersi, dixe: Da hora io ti prometto di non bestemmiare. Dicendo l'altro: Tu non lo farai; rimasano insieme, che, in caso bestemmiassi, havessi a pagliare uno ducato. Et cosi seguendo il giucare, et perdendo il decto un altro gran giuco, con ira dixe: Ritornar possino i fuorusciti in paradiso. Il compagno disse: Paghami il ducato, che tu hai bestemmiato. Negando colui essere bestemmia, ne feceno remissione: finalmente fu giudicato che fusse bestemmia, et così paghò il ducato.
Decto questo motto et levatosi da giuco, Nicolò licentiò questo mandato di Batista; il quale, tornato a Bologna, dixe a Batista: Voi tenete questo vostro Niccolò per huomo savio: a me par egli insensato; che di cosa che io gliabbi decta per vostra parte, non m'a risposto cosa alcuna. Maravigliatosene molto Batista, et ricercando tritamente di ciò che havessi decto et facto con lui; gli riferì in ultimo non havergli mai udito dir altro, se non il sopradecto motto. Batista, che era huomo pratico et prudente, dixe: E't'ha risposto d'avanzo, poi che il rimettere i fuorusciti è iudicato bestemmia. Et chosì prese per partito di non rimettere i fuorusciti in Bologna.

64
Ser Cozzo, notaio fiorentino, huomo di vita molto stolto, dixe a’ figliuoli per ricordo: Dite bene, et nol fate; fate male, et nol dite.

65.
Filippo Machiavegli, essendo del mese d'Aghosto piovuto una grand’ aqua, et l’aria rinfrescata; trovandosi lui in lucco, con alcuni sua amici che haveano il mantello, dicendogli che essendo rinfrescato doveva portare il mantello; di ehe lui rispose: Non crediate io l’abbi al giudeo, perchè egl' è sì tristo, che io non harei trovato d'acattarvi su cosa alcuna.

66.
Erano nella città di Firenze, al tempo di Cosimo de" Medici, alchuni doctori più di titolo che per scientia, talché havevano il corpo pien di consigli et leggi, et, tra gl'altri, messer Biagio Nicholini. Messer Bernardo Buon Girolami, trovandosi a ragionamento con Cosimo, disse, che il membro de' doctori verrebbe meno in Firenze, perchè non vedeva che giovani fiorentini fussino a studio. Cosimo soggiunse: Non maraviglia, che c’è chi ne fa hendicha.

67.
Philippo di ser Brunellescho, cictadino fiorentino, il quale, per praticha, havea buona notizia di assai cose, et era architectore de’ suo tempi el primo et più stimato; standosi a ragionamenti con altri suo pari, sopravenne Niccolao Niccoli, cictadino fiorentino, il quale haveva dato opera alle lettere, et accumulati libri assai; del che, più che di leggerli et intenderli, era suto studioso, benché non era però ignorante. Dixe adunche Niccolao a Philippo: Bene stia il poeta sanza libri. Al quale Philippo rispuose: Ben giunghino i libri sanza il poeta.

68.
Il conte Francesco Sforza, essendo a campo a Piacenza, e trahendo quelli della [città] una bombarda, investirono il cavallo, talché gli portò via la groppa. Il che visto, dixe: Nondum venit hora mea; et montato a cavallo incontinenti sopra un altro cavallo, seguitò il facto suo.

69.
Messer Piero da Noceto, cittadino luccese (sic) et huomo prudentissimo, venendo a Firenze, messer Luca Pitti gli mostrò el palazo che decto messer Luca murava; il quale, per magniflcenzia et grandeza, excedeva l’ordinario et consueto de' cittadini fiorentini. Et dimandandogli messer Luca quello gliene pareva, rispose (commendandolo prima in molte cose ): che finito che fusse, gli bisognava alla prima parte ciento provigionati per guardia: alla seconda 50, et alle altre 25; sanza i quali il decto palazo resterebbe imperfecto et con manchamento grandissimo.

70.
Uno giovane sanese havendo tolto moglie di nuovo, et per questo tutti e sua amici et noti gli dicevano: Buon prò ti faccia. Uno suo compagno, havendo visto che assai gliavevano decto questo, et essendogli venuto in fastidio [disse]: Che bisogna tanti buon prò ti faccia? basta oramai. Al quale il sposo rispose: Lasciagli pur dire, che non diranno mai tanto che vi s'abbàtino.

71.
Soleva dire *** huomo di non piccola auctorita et prudentia non minore, che al mondo erano quattro buone madre, che havevano quattro tristi figliuoli: Veritas, odium: prosperitas, superbiam: securitas, periculum: familiaritas, comptentum.

72.
Bernardo Bellincioni, cictadino fiorentino, stando a provisione col duca di Melano, et un giorno andando a corte turbato nel volto et con cera maninconosa; uno cortigiano che gli veniva doppo gli dixe: Bernardo, che havete voi? e' mi pare che voi vi andiate a impichare, in modo siate attonito et inviluppato Al quale e'rispose: E'pareva molto più a me, che havevo il manigholdo drieto.

73.
Piero dì Cardinale Rucellai, cictadino fiorentino assai da pensieri et cure sciolto, al quale doppo la morte furono trovate molte lettere suggellate, perchè ricevute che l’aveva, sanza aprirle, le gittava su uno cappellinaio; quando era dimandato della cagione, diceva farlo, perchè non voleva, che, leggendole, lo mettessino in pensiero.

74.
Haveva il decto Piero in villa Uno orto molto mal tenuto: vedendolo alchuni suo amici gli dissono, perchè lo teneva così male in assecto. A'quali rispose: Se egli stessi meglio, stare'di peggio io.

75.
Bernardo di Giovanni Rucellai, trovandosi imbasciadore de' Fiorentini a Milano, nel 1484, et consultandosi tra'1 signore Lodovico Sforza (allora administratore del duca di Melano) et altri, di alchune cose di importanza, le quali el signore Lodovico le haveva già disegnate in uno modo, in che alchuni se gli opponevono; il decto signore Lodovico, dixe: Duodecim sunt ore diei; inferendo, che si potrebbe mutar di proposito. Bernardo, sappìendo che in quella corte si faceano mutatione assai et spesso, dixe: A Milano sono ventiquattro.

76.
Ferdinando re di Castiglia, essendo in Catalogna (suo reame) alchuni giudei molto richi, trovato loro a dosso la cagione del pretesemolo, et fattigli incarcerare, gli spogliò d'ogni loro facultà; et per più iustificatione di quello haveva facto, mostrando che il loro delicto fusse grande et di maggior punitione, gli fece condennare a morte, in caso non si facessino cristiani. Eravi tra glialtri uno Ostich, il quale, perchè haveva notitia di molti cortigiani, fu da loro menato alla chiesa per battezzarlo; ad che lui, con parole et non coll'animo, acconsentì; più per paura della morte, che per buona volontà. Tutta volta, nell’acto del battesimo (1), quando gl'era decto: Credis in Deum ec.; rispondeva: Sis se mi torneres lo che maves tomao. Et così gli fu posto nome Martino. Vivendosi poi miseramente, et non entrando mai in chiesa, come quello che non haveva un capello a dosso che pensassi di credere in Christo Jesu e (2) sua sancti; ne era da molti christiani sua noti suto ripreso. A'quali lui rispondeva: Se io non vi piaccio a questo modo rendetemi el mio Ostich, et toglietevi el vostro Martino.
(1) Il ms.: del battesimo dicendo.
(2) Il codice: o.

77.
Fra Ruberto da Leccio, observante, per quello che i panni mostrano, dell'ordine di sancto Francesco, et predicatore ne' suo tempi di grandissima fama et reputatione; predicando in Perugia de pace, hebbe a sé uno matto, chiamato Marcone, col quale, datogli certo prezo, si compose, che, quando lo dimandasse quello che vorrebbe, rispondessi: pace; et circa a questo lo admaestrò quanto meglio seppe. Dipoi, montato in perghamo, et facto stare il decto Marcone a sé vicino, entrò nella sua predica circa alla pace; et doppo ch’ebbe narrato molte cose, per mostrare la necessità della pace, et quanto da ogni cosa ella fussi desiderata et chiesta; cominciò a dir: Se tu dimandassi e cieli quello che vogliono, direbbono: pace. L'aria: pace. L'aqqua: pace. La terra: pace. Li huomini: pace. I bruti: pace. Le piante: pace. Sino a'matti, direbbono: pace. Et che sia vero, voltatosi a Marcone sopra nominato, dixe: Et tu, Marcone, che vorresti? Il quale, trovandosi quivi a rincontro d' alchune belle giovane, et essendo acceso di desideri carnali talmente, che qualche suo membro era in ordine per giostra; rispose con voce alta molto più che 1' ordinario: Vorrei fottere. Fra Ruberto, rimanendo beffato, dixe: Va, inpàcciati con pazi.

78.
Cosimo de' Medici usava dire, che della invidia era bene haverne nell' orto, ma non si voleva inaffiarla.

79.
Gismondo Malatesta, signore di Rimini, haveva uno cavallo, per grandezza, bontà et belleza [che] in ogni sua parte et membro excedeva l'ordinario degl'altri cavagli; ma da altro lato era tanto sinistro et spiacevole, che pochi si assicuravano cavalcarlo, maxime che haveva guasto alquanti, che, confidandosi in loro sapere cavalcare, vi s'erano messi. Il Signore dall'un lato l'aveva carissimo, et tenendolo tra le sua delitie, non voleva né sapeva lasciarlo; et da altro non se ne potendo servire per la sua spiacevolezza, non sapeva che farne. Il chavallo cresceva ogni dì in bellezza et spiacevoleza, et al Signore cresceva il piacer del cavallo et il dispiacere di non se ne potere servire. Perchè consultandosi con molti, circa il modificare questa sua spiacevoleza, uno manischalcho si offerse al Signore di farlo mansueto, quando non lo volessi per stallone. Il Signore aceptò l’offerta. Questo maniscalcho lo castrò, et guaritolo del taglio lo rendè al Signore, sperando che havesse deposto quella vivacità et spiacevoleza; et volendo il Signore farlo cavalchare a1 sua servidori, il cavallo faceva il consueto et peggio. Per il che mandato per il manischalcho, et fattogli vedere i modi del cavallo, lo riprese assai che havessi preso una cura simile, in che non havessi facto alcun profìcto. Il maniscalcho rispuose: Signore, e' non s' è ancora accorto che egli non ha danari in borsa. Et fattolo menare in un prato, ove erano alquante cavalle, et lasciatolo ire et stare tra esse uno giorno; il cavallo più. volte se pruova di comperare di quella mercatantia, ma non potendo pagharla, perchè non haveva danari in borsa, rimase tutto abbatuto. Onde il seguente giorno il maniscalcho lo rimenò al Signore, mansueto [et] agievole; et da quel di innanzi si lasciò maneggiare et cavalcare come uno agnello.

80.
*** re di Castiglia, di natura avaro et, secondo che alchuni affermano, agli exercitij di Venere inperfecto; essendo oltre con gli anni et senza figliuoli, per non rimanere sanza successore di sua linea, prese per donna una figliuola del re di Navarra, della quale ( da poi che fu giaciuto con lei alquanti anni sanza haverne figliuoli, imputando a lei la cagione) fece divortio, et prese per donna una figliuola del re di Portoghallo. Il prefato re faceva spesso ancora guerra con il re di Granata: per non spender di sua propia richeza, richiedeva et comandava baroni et subditi del suo reame, et sempre se ne tornava a casa sanza fructo alcuno. Mandò adunche sua maestà honorata comitiva a condurre a casa la novella sposa, et, tra gli altri, uno suo araldo, huomo nel parlare oltra al consueto de’ suo pari molto licentioso et sciolto; et essendo in Portoghallo al conspecto della sposa, disse verso di lei: Chi non ha finito il ballo in Navarra, manco lo farà in Portoghallo. Tornati di poi in Castiglia, fu rapporto al re le parole che il decto araldo havea decte; per il che, chiamollo a se, riprendendolo di quello per motteggio havea decto alla sposa in Portoghallo. A cui l’ araldo rispose: Sa' tu quello che io dissi, Signore? — Che? — Dico, che vos chieres azer lo che Dio non puode azer gherra sin dineros et sotter sin charaggios.

81.
Fra Christophano dalla Pieve da sancto Stefano, dell'ordine di sancto Francesco, fu da molti volghari alquanto tempo tenuto come sancto, et erasi sparta voce per Italia, ch'egli havessi facto miracoli. Venendo da Pisa a Firenze per predicarvi, alcuni Fiorentini scrissono a Jacopo Morelli, che allora stava a Pisa, che li havisassi de’ miracoli che chostui havessi facti a Pisa, et in quali circunstantie. Jacopo, non havendo visto in lui altre opere che di huomo mortale, rispose loro: E miracoli che egli farà costi vi mosterranno come sono stati quegli che egli ha facti di qua.

82.
Bertoldo di Gherardo Corsini, huomo faceto et di nobile stirpe della cictà di Firenze, passando per Siena, perchè è molto grasso et col ventre eminente, uno Sanese, vedendolo, dixe: Mira quello che porta la bolgetta dinanzi ! Bertoldo rispose: In terra di ladri convien fare così.

83.
Stavano alchuni giovani fiorentini di buona stirpe insieme a parlamento, et per festa et giuoco vennero in disputa, se una giovane si doveva più contentare d'uno marito di età di anni 30 incirca, o di uno che fusse di 22 o meno. Chi diceva di 30 n'assegnava ragione, che in quella età sono più gravi et maturi, et stanno la nocte in casa, et stanno più assidui et continui con la donna. Chi diceva di 22 o meno n'assegnava, che in quella età sono più caldi et solleciti alla cupide carnale, et fanno miglior macinato; non obstante quello era opposto loro dell' andare spesso fuori la nocte, tornare tardi, et stare meno con la donna che non fanno quegli de 30. Et stando in questa disputa, per facetia, ne dimandonno parere a madonna Bartolomea, donna di Tommaso Betti, donna facetissima et molto da bene, la quale rispose: che non obstante quegli de 22 anni o meno andassino fuori la nocte et tornassino tardi a chasa; tuttavolta, sempre che tornavano, tornavano giovani.

84.
Philippo Manetti, cictadino fiorentino, trovandosi alla presentia di alchune donne a parlamento con altri, di sua qualità per cose di qualche momento, fu da quelle donne più volte interpellato; del che in ultimo turbatosi, iratamente le admonì che tacessino. Un altro quivi presente, per difesa delle donne, dixe: Non vuo'tu che le dichino quel eh' elle'ntendono? Philippo rispose: Se le donne parlassino quello che le intendono, le starebbono sempre mutole.

85.
Era suto tolto a’ Fiorentini Serezana per tradimento et sotto la triegua, et per la recuperatione della quale, da Ferrando re di Napoli et duca di Melano, era suto loro promessa ogni loro opera et favore. Et proccurando et instando i Fiorentini per l’effecto, e i prefati re et duca differendo la cosa, secondo dicevano, per riservarla ad altri più opportuni tempi; messer Thommaso Soderini, cictadino [et] cavalier fiorentino, nobile, et huomo prudentissimo, dixe a questo proposito: che Antonio da Rabatta, cictadino fiorentino molto ricco, ma di natione non molto nobile, desiderava d'essere gonfaloniere di giustitia, il che è la prima et suprema dignità della città di Firenze; et a questo suo desiderio alchuni cittadini gli prestavano favore (era voce), perchè da lui traevano commodità di danari. Messer Dietisalvi Neroni dixe a questi tali che lo favorivano, che se lo facevano gonfaloniere e' non harebbe poi più sete.

86.
È sententia et proverbio vulghare, che una donna, a voler essere bella, bisogna habbi tutte queste parte: Tre cose [nere], cioè: cigli, ochi, natura. Tre bianche: capegli (1), denti, carni. Tre piccole: bocca, naso, orechie. Tre lunghe: dite, imbusto, collo. Tre grosse: braccia, ghambe, cosce.
(1) Capelli bianchi intendali per l’ uso, comunissimo ne' tempi antichi, della cosidetta polvere di Cipri; e capelli bianchi nel significato d’incipriati o inpolverati manca al vocabolario. Pure simile esempio ce ne offre il Sacchetti nel volume manoscritto (Cod. Magliab. 852, CI. VII, Palch. 4) delle sue Opere diverte, in parte tuttora inedite. Eccolo:
» Tre cose nere, tre bianche, tre piccole, » tre lunghe e tre grosse conviene avere alla » donna a esser bella.
» Le nere. Gli occhi, le ciglia e la natura.
» Le bianche. I capelli, i denti e la carne.
» Le piccole. Il naso, gli occhi e la bocca.
» Le lunghe. Le dita, lo 'mbusto e '1 collo.
» Le grosse. La gamba, la coscia e '1 braccio. »

87.
Haveano i Sanesi facto legha col duca di Milano, del che e Fiorentini non restavano contenti; et per questa cagione mandorono per imbasciadore a Siena Guido dal Palagio. Al quale, giunto là, uno Sanese dixe: Imbasciadore, sapete che habbiamo facto? — Che? — Habbiamo maritato Siena, et datole per dota Firenze. Guido rispose: La prima fottuta.sarà Siena: la dota poi si piatirà a bell'agio.

88.
Uno huomo da bene, il cui nome a buon fine si tace, havea usato con una Sanese, alla quale dipoi disse: Madonna, voi havete una largha faccenda. La Sanese rispose: Voi dite cotesto per vostra bonità.

89.
Messere Agnolo della Stufe, cictadino et cavaliere fiorentino, era commessario in Romagna col campo de'Fiorentini et loro collegati, al contrasto di Bartolomeo da Berghamo. Era capitano del campo de' Fiorentini Federigho duca d'Urbino, per vicinità dello stato de' Malatesti; a'quali, decto messer Agnolo della Stufa era molto affezionato. Haveva il decto duca d'Urbino sopra nominato uno cameriere molto bello, et si era accorto che messer Agnolo della Stufa lo guardava volentieri: per il che, amaestrato questo cameriere di quello voleva facessi, lo mandò uno giorno, tra la nona e '1 vespro, con una lettera a messer Agnolo della Stufa; il quale, vedendosi nel padiglione costui, preso speranza, per la opportunità, di obtenere da lui quello desiderava, cominciò a dilacciarlo. Il cameriere, secondo lo admaestramento del suo Signore, in principio stette fermo, ma non molto doppo, dixe: Lasciatemi ire, che io non farò mai cosa che vi piaccia. Messer Agnolo della Stufa lo domandò perchè. Rispose, che essendo lui tutto de'Malatesti, inimici del suo Signore, l'animo non gnene comporterebbe: pertanto che lo lasciassi andare. Messer Agnolo, trovandosi acceso dal desiderio, affermò non havere alcuna stretteza coi Malatesti, et voler meglio a uno dito del suo Signore, che a tutti i Malatesti. Il cameriere, havendo quello volea il suo Signore, uscitogli delle mani sanza compiacerlo, se ne tornò al prefato duca, al quale riferì quanto havea la lettera seguito.

90.
Era nella cictà di Firenze ser Nicolaio da Sancto Gimignano, tra loro (sic) molto emuli, per riputarsi, l'uno et l'altro di loro, huomo docto et esperto. Fu decto a ser Niccolaio, che Simone haveva compilato una bella opera. Rispose: Se la è bella, la non è di Simone; se là è di Simone, la non è bella.

91.
Messer Diomede Caraffa, conte di Matalona, usa dire: che nelle guerre la grossa spesa fa grossa Victoria e grossa pace. Ancora usa dire: che non si vuole tanto dire: buon dì comare, che il compare l’havessi per male.

92.
Essendo un giorno Jacopo Salviati a ragionare in cerchio con molti huomini da bène et de’ primi della terra, disse: che gl' uomini non son mai si ben pazzi, se non quando e’pare loro essere ben savi. Item: che il chane, scherzando colle mosche, spesso se le mangia.

93.
Giovanni di Cosimo de’ Medici edificò nella costa di Fiesole uno bello palazzo, et essendo in luogo sterile et saxoso et dificile allo edificharvi, Cosimo, suo padre, lo dimandò, perchè si fusse posto in luogho si aspro a edificare: assai spesa, con espectatione di piccola utilità. Rispose farlo, perchè il luogho è alto, per havere di quivi la veduta. Cosimo rispose: La più bella veduta che tu possa havere è di Cafaggiuolo. Et perchè quel palazzo è in luogho basso, Giovanni sobgiunse: In che modo? Perchè ciò che tu vedi di quivi è tuo; il che non ti adviene a Fiesole. Et per questo diceva Cosimo de’ Medici, che la casa loro di Cafaggiuolo vedeva meglio che quella di Fiesole.

94.
Messer Zacheria Barbaro, gentiluomo venitiano et in quello senato molto riputato, trovandosi imbasciadore a Napoli al re Ferrando per la sua Signoria; fu uno giorno (parlandosi tra alchuni cortigiani di più chose) domandato, perchè i Vinitiani si chiamavano porci. Rispose: Perchè in dua cose si somigliano coi porci: l'una, che sì chome quando uno porco è ferito, tutti li altri corrono a difenderlo; così facevano i Vinitiani. per la conchordia loro. L'altra, che si come del porco è buono ogni cosa, et ogni cosa si mangia; così è de'Vinitiani, de’ quali il tucto è buono et niente se ne getta.

95.
Era in Firenze uno dipintore, chiamato Gherardo, non però il migliore maestro de' suo tempi: andò a lui uno ad farsi fare una pictura, et, non confidando molto in decto Gherardo, l’havea più volte repetito et rimostro el suo disegno, domandandolo anchora se lo saperrebbe servire. Gherardo, parendogli che chostui l’havesse troppo importunato, havendo quivi uno figliuolo assai bello, voltatosi a chostui, chon ira, dixe: Questo fanciullo ti par egli bello? Costui rispose: Se Dio lo guardi, si. Gherardo allora sobgiunse: Questo ho facto col cazzo; pensa quello farò col pennello !

96.
Messere Octo Nicolini stando a ragionamento con Bernardo del Nero delle chose spirituali et della brevità della vita humana, gli dixe: che era pazzia appetire roba et honori in questo mondo, atteso il poco tempo che l'huomo ci stava. Al quale Bernardo rispose: Et però si vuol egli sollecitare et menar le mani, poiché e’ ci avanza poco tempo.

97.
Il duca Francesco Sforza usava dire: che non era alchuno in questo mondo, che fusse huomo grande o basso, che alla sua vita non si conducesse qualche volta in luogho estremo et di perder lo stato, et così ad occasione di farsi grande. Ma che alla vita d'uno huomo non gli veniva mai tale occasione, se non dua volte o al più tre; e però, che quando la si presenta, si voleva saperla usare et dar di sproni al chavallo.

98.
Cosimo de'Medici usava dire: che T ultima chosa che l'huomo voleva et doveva fare, era condursi al paragone.

99.
Coridone haveva donate alchune chose ad Alexi; et essendone da lui ringratiato, Coridone dixe, non accadeva ringratiarnelo, perchè non gli dava del suo, essendo di Alexi ciò che Coridone haveva. Alexi sobgiunse: Coridone , tu lo dai a te medesimo.

100.
Recho Capponi era in differenza con Giovanni da Ghaiuole di alchune cose occorse tra loro, et perchè Recho era di nobile famiglia, et Giovanni huomo mercenario, Recho gli dixe: Tu credi sbizzarire me eh ? Giovanni rispose: Voi pigliate errore, che io non vi voglio sbizzarrire, ma imbizzarrire si.

101.
Lorenzo de' Medici, essendo richiesto di fare de' Signori in Firenze uno sospecto allo stato, et al quale piaceva assai el frutto della vite, cioè el vino; et dicendogli chi ne lo richiedeva: Tu gli farai fare ciò che tu vuoi cho un bichiere di vino; rispuose: Se un altro gne [ne] dessi un flascho, uve mi troverrei io?

102.
Cosimo de' Medici richiesto dallo arciveschovo Antonino di favore, circa a una prohibitione voleva fare che i preti non giuchassino, gli dixe: Cominciate ad sfar [sic) prima da voi, che e’ non mettino captivi dadi.

103.
Macteo del Teghia rispose a Cosimo deì Medici, che lo dimandò in quello studiava: In libris. Cosimo, voltatosi al Teghia suo padre, che l’haveva menato a lui, pensando fusse introdocto assai, gli dixe: Fallo studiare, che n’ a bisognio.

104.
Parlavano insieme alchuni huomini di auctorità et consiglio de' preti, dicendo, che e' sono sì facti, che huomo non si può guardare da loro. Lorenzo de’ Medici, essendo presente, dixe, non essere maraviglia, perchè havendo i preti i panni lunghi, hanno prima dato il calcio, che [si] vegha muover loro la ghamba.

105.
Puccio Pucci, confortando uno cictadino di Firenze ad acceptare l’uficio del gonfaloniere della giustitia, in uno tempo che andavano pel tavoliere cose d'importanza assai; et rispondendo costui, non si conoscere tanto savio quanto a quello magistrato si richiedeva; lo dimandò, se gli bastava l'animo d'esser savio quanto Cosimo. Rispuose, che se fusse pure alla metà gli basterebbe l'animo suplire. Puccio dixe: Io t'insegnerò essere più savio di lui. Dicendo: Non hai tu punto di senno da te? Replicò: Io ne credo havere pure qualche poco. Sobgiunse Puccio: Fa adunque ciò che Cosimo ti dice, et cosi harai tutto el suo sapere et soprapiù il tuo; et così verrai a esser più savio di Cosimo.

106.
Lionardo Benvolenti, oratore sanese a’ Fiorentini nel tempo che il conte Carlo era a danni de’ Sanesi, prese un giorno Lorenzo de' Medici per mano, et, toccandogli il polso, lo domandò come si sentisse. Lorenzo, scosso el braccio et preso il polso a Lionardo, dixe: Questo tocca a fare a me, che sono de’ Medici, e lo infermo siate voi.

107.
Galeazo Sforza, quinto duca di Milano, scrisse a messer Agnolo della Stufa, cictadino e cavaliere fiorentino, una lettera piena di molte parole grate et offerte assai; inter cetera scrivendogli, che ciò ch' egli haveva era di messer Agnolo. Al quale e’ rispuose: Oimè! Signore, non lo dite, che se in Firenze si sapesse fussi sì ricco, io sarei disfacto colle gravezze.

108.
Messer Giovanni Argiropolo, di natione Greco et huomo doctissimo, lesse in Firenze più anni; dipoi se n'andò a Roma, et sempre portò barba lungha, secondo el consueto de' Greci. Tornando di nuovo a leggere in Firenze, et perchè da Roma si partì travestito et sanza barba, Jacopo Pandolfini, volendo mostrare che non si fermerebbe, come e' non fece, dixe: Egli non s'appiccò l'altra volta con la barba, pensa come hora e' si apicherà sanza barba.

109.
Cosimo de'Medici usava dire, che Francho Sachetti era chome l'arnione, perchè stava sempre co' docti essendo indocto.

110.
Martino dello Scarfa, cittadino fiorentino, era del corpo molto compresso et grasso oltra l'ordinario, talché lui medesimo non si poteva vedere le parti interiori più coperte. Orinando uno giorno, uno fanciullo si fermò et guardavagli sótto. Martino gli dixe: Se tu lo vedi, salutalo per mia parte; che egli è dieci anni che io non l'ho visto (1).
(1) Lo stesso aneddoto tornasi a leggere in questo volume sotto il numero d'ordine 280.

111.
Lorenzo de’Medici, essendo a una veghia di dame, ove si faceva alla Invidia (2), l’ Ipolita de' Pazzi, maritata a Bartolomeo Nasi, dixe a uno: Io t'ho una grande invidia, che tu hai gran naso. Lorenzo, toccando poi a lui, dixe alla decta Ipolita: Io t'ho invidia. — A che? — Che tu t'intendi de' nasi. Alludendo al nome del marito, et anche ad altro.
(2) Intorno a questo giuoco, V. Ringhieri, Cento giuochi liberali et d'ingegno (Vinegia,Bonelli, 1553, in 4.; Lib. VIII, Cap. LXXII).

112.
Bernardo Gherardi, essendo ghonfaloniere di giustitia al tempo che papa Pio venne in Firenze, volendo decto papa essere portato dalla Signoria di Firenze, come era stato portato da’ Sanesi; dixe a sua Santità: Sancto Padre, egl' è meglio che vi portino questi nostri capitani della parte ghuelfa, che noi habbiamo i panni troppo lunghi.

113.
Papa Pio, volendo fare arcivescovo di Firenze il figliuolo o vero nipote, et alleghando che a Roma era stato vescovo sancto Piero, che fu ebreo et forestiere; Bernardo Gherardi rispuose: E' ne capitò anche male, che vi fu morto !

114.
Il Cardinale di Pavia tra' sua familiari haveva uno giovane sanese chiamato Giovanni Antonio. Desinando uno giorno Con papa Pio (el cardinale predecto) et il cardinale di Siena, il quale haveva notitia di decto Giovanni Antonio, et, per le sua virtù, l'amava assai; il prefato [cardinale] di Siena dixe a Giovanni Antonio, che gli serviva a mensa, se haveva facto quistione con lui, perchè non l'andava più a vedere. Gli rispuose: che non poteva fare quistione con sua signorìa, essendo tutto suo. Monsignore di Pavia dixe: Adunche tu non se'punto mio? Et lui: Io ho nome Giovanni Antonio: Giovanni è di vostra signorìa, et Antonio è di monsignor di Siena. Papa Pio sobgiunse: Io adunche non ci ho a fare nulla? Il giovane rispuose: Giovanni Antonio tutto insieme è di vostra Santità.

115.
Mona Veronicha Mazochiaia domandata da uno giovane innamorato, che male havessi una sua dama che era inferma; volendo honestamente significare, che ella si corrompeva, dixe: Mentre che ella si sta, ella fa.

116.
Ser Viviano, notaio alle Riformagioni, preghato da uno che in favore d'una sua petitione parlassi a qualchuno de' primi cictadini, gli dixe: Va, parlane da te stesso; et se tu truovi nessuno che ti dica di no, e io t'aiuterò. Volendo mostrare, cbome a Firenze facilmente si promette.

117.
Bernardo di Nicolò Carducci era stato ammalato più mesi, et per guarire haveva provato molti ripari. Non guarendo, Giuliano Ghondi suo amico visitandolo, gli ricordò, che poi che le medicine temporali non giovavano, che usassi le spirituali, faccendo voti et rachomandandosi a Dio et a’ sua sancti. Al quale e' rispuose, con voce tremula: Oimè ! se per cotesto andassi, io sarei buon pezzo fa guarito; che non è rimasto zugho in paradiso, a chi io non habbi facto [oratione].

118.
Santi che non ride, così decto perchè non era mai stato visto ridere, la prima volta che andò a vedere la sposa, vedendola bructa, cominciò a ridere; et dicendo ella: O! tu ridi? Rispuose: O chi diavolo non riderebbe a vedere chotesta cachastraggine di viso!

119.
Messer Giorgio Ginori impiccava a Prato uno Capperuccia pratese per casi di stato, et dicendo colui: Lasciatemi dire una Avemnaria; gli rispuose, dandogli la pinta dalla finestra: Va pur giù: dira' la poi.

120.
Erano nella città di Firenze dua. chiamati, l’uno il Poltrone de' Cavalcanti , et l’ altro Arrigho Rucellai, i quali tenevano insieme stretta amicitia, consumando quasi lo intero del tempo in giuchare, et in mangiare et bere; et benché fussino di nobile stirpa, con questi loro costumi et modi di vivere erono tenuti adrieto da magistrati et dignità della terra. Pensava Arrigho, el quale era semplice, questo procedere dal non essere [n]el consiglio degli 81, che in quel tempo usava così, chi gli cognoscesse. Essendo un giorno facto el consiglio di nuovo di decti 81, et leggendo Arrigho predecto i nomi loro, vedendo che erano tutti huomini da bene, prese speranza che da loro sarebbe cognosciuto et sub seguentemente favorito alle dignità et magistrati; per il che, trovato subito il Poltrone, gli dixe: Buone novelle; e' sono facti gli 81, i quali sono huomini da bene: lodato sia Iddio, che hora noi saremo pure cognosciuti. Rispuose il Poltrone: Aimè! Arrigho, tu non te ne intendi: per noi si sarebbe [meglio], che e’ fussino huomini che non ci conoscessino.

121.
Ser Giovanni Tinghi, prete in Sancta Liperata, canuto et molto vechio, confessava una donna: occorse che faccendo egli sembianti di essere adormentato, la donna dixe uno peccato, di che si verghbgnava; et questo è che col dito s'era solleticata. A questo decto ser Giovanni la dimandò, se ella harebbe acconsentito a uno huomo. Rispuose di si. Sobgiunse il prete: Stato vi fussi io !

122.
Ser Piero Locti passando per la vigna, ove si votava uno pozzo nero, essendo quivi il votacesso col pionbino in mano, uno Ciompo dixe a ser Piero Lotti: Togliete quella anguilla. Al quale e' rispuose: Togli quello intingholo, tu.

123.
Una donna fu una volta presa in uno campo di gente d'arme, et sforzatamente fu violata da forse 50 sachomanni. Confessandosene poi, il prete le disse, che non era peccato, poi che lei era stata sforzata. La donna dixe: Lodato sia Iddio, che io me n' ò pure cavata la voglia uno tracto sanza peccato!

124.
Mino schultore haveva tolto a rachonciare una statua di sancto Pagholo a papa Pagholo, la quale assotigliò tanto, che la guastò. Il papa se ne dolse con messer Batista Alberti, peritissimo in architettura. Alla cui santità messer Batista rispuose: Mino non ha errato, che questa è la miglior chosa che facessi mai.

125.
Ser Benedecto da Staggia haveva uno figliuolo chiamato Bruno, il quale, spesso et volentieri, mangiava a pasto cavretti. Il padre ne l'aveva più volte ripreso, ma non giovava; et, non che giovassi, si era grandemente innamorato di uno, intorno al quale stava dì et nocte. Havendo adunche ser Benedecto amicitia con Bernardo del Nero, huomo di auctorità et prudentia, lo preghò che admonisse questo suo figliuolo, et lo strignesse a lasciare simile imprese. Bernardo così fece; et strignendo molto con le parole et con le ragione il decto Bruno a desistere da simile cosa; Bruno, havendo sempre taciuto, in ultimo rispuose: Provare la possa Christo!

126.
Maso Calderotti, nipote per madre di Gino Capponi vechio, era molto dato al vitio di Soddoma, et in ultimo si era perditamente inamorato di uno frate di Sancta Croce. Gino, havutone notitia, et parendogli cosa al tutto detestabile, come in verità era; chiamandolo a sé, ne lo riprese et admonì molto acerbamente. Maso per risposta lo domandò, se conoscesse questo frate. Gino replicò: No, col malanno che Dio dia a te et a lui. Maso sobgiunse: Voi non vedesti mai el più bel frate. Allhora Gino: Ben bè, a buon' bora te ne rimarrai.

127.
Era in Firenze al tempo di Donatello scultore excellentissimo, un altro scultore chiamato Lorenzo di Bartoluccio, ma era piccola stella allato a quel sole. Il decto Lorenzo haveva venduto una sua possessione, chiamata Lepricino, della quale traeva poco fructo. Fu domandato Donatello, qual fusse la miglior cosa che havessi facto Lorenzo, intendendo, chi domandava, di cose di scoltura. Donatello rispuose: Vendere Lepricino

128.
Donatello fiorentino, scultore ne'suo tempi excellentissimo, faceva a' Vinitiani una statua di bronzo di Ghatta Melata, quale era stato loro capitano; et essendone da loro assai importunato et molto più che non gli pareva honesto, sdegnatosi, con uno martello stiacciò il capo alla decta statua. I Vinitiani, irati di questo, gli feciono assai sopraventi et minaccie: tra l'altre, che ancora a lui si vorrebbe stiacciare el capo, come egli haveva facto a quella statua. Donatello rispuose: Io sono contento, se vi da il cuore di rifarmi il capo, come io lo rifarò a quella statua.

129.
L' Albizotto deglì Albizi, murando una casa, chiese a Cosimo deì Medici, in prestanza, cento fiorini. Cosimo, parendogli ch'egli havessi facto impresa troppo grande, et che lui non fusse per condurla ad fine, gli rispuose, essere contento prestargnene dugento, ma che lo riservasse allo 'ntonicare.

130.
Spandino di Valdisieve bestemmiando Iddio a giuco, essendone ripreso, diceva: Io gli do di quel eh' e' vuole. Item, essendo facto decto Spandino signore a una festa, per nacta, gli fu dato in mano una bachetta sucida; il quale, presola, dixe: Perdio ! ell' è merdosa. Dicendo uno, che sapeva la cosa: Egl’è indovino; sobgiunse: Perdio non sono, che, se fussi stato, non l’harei presa.

131.
Uno, soleva dare a ogni fanciullo che correva su pel muro d' Arno uno quattrino: essendo dimandato perchè spendeva quelli danari a dilecto, rispuose: Se uno tratto ne cade uno, è bene speso ogni cosa.

132.
A messer Macteo di Franco fu decto, che uno suo amico era impazato. Uno non più savio che si bisognassi, gli dixe: E' non è vero. Il predecto sobgiunse: Oimè! e' sarà pur vero, poi che costui è dal suo.

133.
Bernardo Gherardi raccomandava uno cliente per lo squittino, al quale voleva satisfare in dimostratione più che in facto. Et però lo menava seco, et parlava forte alla sua presentia: di poi, pian piano, diceva a quegli a chi l'haveva racomandato, che per suo parole non facessino altrimenti che a loro si paressi; et voltatosi al cliente, gli diceva (non partendosi dal vero): Questa è quella che vale et tiene.

134.
Bernardo Gherardi raccomandava uno contadino a uno magistrato in Firenze, dicendo: Egl'è tutto mio. Il contadino: Egl' è '1 vero, che io sono tutto suo, che ogni anno gli dono uno cogno del mie vino.

135.
Lorenzo de'Medici, havendo visto uno frate in una disputa, che mai haveva aperto bocha, dixe: Egl’ è mattugio; et che e' sarebbe cattivo uccellino da inghabbiare.

136.
Giovanni di Cosimo de’ Medici, essendo ito a Roma per impetrare uno cardinale fiorentino, et tornandosene sanza l'effecto, dixe: Io andava a Roma per uno cappello, et honne arrecato la mitera.

137.
Dionigi Pucci diceva di Giovan Francesco Venturi, che per havere sempre qualche faccenda, non ne faceva mai nessuna.

138.
Giovan Francesco Venturi diceva: Io voglio perder dua anni in dare opera alle lettere. Uno gli dixe: Coteste non sono tuo parole.

139.
Lorenzo de' Medici, costumandosi levare la mattina molto tardi, una mattina fra l'altre, andando fuora, si riscontrò in Ugholino Martegli, el quale, a quellora, tornava a desinare (che costumava levarsi la mattina a buon' ora ); et riprehendendo decto Lorenzo, che si levava troppo tardi, Lorenzo gli domandò quello che egli haveva facto dappoi che s'era levato. Rispostogli Ugholino, che haveva [facte] certe sue gite per divotione, et udito la messa de'chantori in Sancto Giovanni; Lorenzo gli dixe, che valeva molto più quello haveva sognato in quello tempo, che ciò che lui havessi facto in tutta la mattina.

140.
Dante desinando con uno suo amico, il quale era riscaldato facilmente dal vino et dal parlare, che tutto sudava; et dicendo questo tale: Chi dice il vero non si affaticha; sobgiunse: Io mi maraviglio bene del tuo suddare.

141.
Aristippo essendogli decto a una sua adulatione di uno tracto el vero, rispuose: E' si vuole dirlo a chi lo vuole udire.

142.
Il piovano Arlotto diceva, che non volle mai essere compare, per non havere a dire abrenuntio; acciò che non fusse chi interpetrasse che lui rinuntiasse la pieve sua.

143.
Uno povero huomo haveva ripezato uno mantello bigio con una toppa di panno rosato; et essendone ripreso et dileggiato, dixe: Così fussi egli altrove!

144.
Messer Octo Nicolini, cictadino, doctore in J. Civili et cavaliere fiorentino, huomo di auctorità et prudentia non piccola, trovandosi imbasciadore de'Fiorentini a papa Pagholo; et a sua santità exponendo in concestorio la 'mbasciata; essendo scevola a nativitate, il cardinale di Sancta Maria in Portico, curiosamente, et più importune che opportune (come suole nelle più delle sua actioni), lo domandò più volte, perchè havessi chosì mozza la mano. Continuando la sua oratione, dixe: Testé vi risponderò. Et così procedendo in exporre quello haveva da’ sua signori in mandatis, inserì nella expositione sua queste parole: Beatissimo Padre, a chi mancha una cosa et a chi un' altra: sono alchuni che nascono sanza il pie: un altro nasce mutolo; io naqui scievola, et un altro sanza cervello. Et lo dixe in modo, che fu inteso da'circunstanti; et Sancta Maria in Portico lo potè pigliare per risposta.

145.
Una donna vedova oltre cogli anni si haveva a maritare con buona dote: ragionandosene tra alchuni, i quali erano in differentia della età, perchè v'era chi diceva più et chi manco; Braccio Martegli, dixe: Quanto più tempo ha, tanto è migliore dota.

146.
Predicava in Sancto Spirito uno predicatore, che non era sancto Pagliolo Adeo (sic), che alla sua predicha non si contendevano mai e luoghi. Ragionandosi poi tra molti, qual fusse il miglior predicatore, che quello anno predicasse in Firenze; ser Matheo di Franco, huomo molto faceto, dixe: Quello di Sancto Spirito. Domandato della ragione, rispuose: Perchè egli ha solamente tre auditori, et tutti gl'altri ha convertiti.

147.
Erasi maritata una donna oltre con gl'anni. Braccio Martegli, dixe: Questa è unn moglie da dirgli voi. Ser Giovanni Strozzi, dixe: Se la fussi mia moglie, io ordinerei di andarne preso ogni sera per di nocte.

148.
Dante domandando uno contadino, che hora fusse; gli rispuose: È hora da ire abeverare le bestie. Sobgiunse Dante: E tu che fai?

149.
Messere Antonio, piovano da Cercina, standosi alla sua pieve, domandando uno contadino che veniva da Firenze: Che si fa in Firenze? che vi si dice? Dicci qualche bugia. Et egli: Dicevisi, che vo' siate uno buono huomo.

150.
Luigi Pulci, dixe, che '1 brucho chiese di gratia a Dio di morissi nel ghuscio, chome ha vessi facto la seta, per non vederla poi in dosso a mille poltroni, che se ne vestivano.

151.
Lorenzo de'Medici, vedendo a Pisa uno scolare guercio, dixe, che e' sarebbe el più valente scolare di quello studio. Dimandato perchè, rispuose: Perchè e' leggierà a un tratto amendue le facce del libro, et così potrà imparare a doppio.

152.
Uno, volendo rimproverare a un altro suo emulo che '1 suo padre haveva zappato la terra, gli dixe: Tuo padre non sputò mai in terra. Inferendo che si era sempre sputato nelle mani per tenere meglio la zappa.

153.
Uno Ciompo dixe a un altro: Tuo padre haveva sempre rotto la ghonella dinanzi. Dimandato perchè, dixe: Per ricevere dalle finestre i tozi del pane, che lu' andava mendicando.

154.
Dionigi Pucci chiedeva licentia a uno degl'Octo per l’arme per uno compagno: Braccio Martegli, che era presente, dixe: Cotesta che tu porti è bene per uno compagnio, che, a uno bisogno, ella ti sarebbe tolta»

155.
Parlando in uno cierchio Giovanni di Brunecto, perchè parlava lungho, come è suo costume, uno gli ruppe el parlare. Bernardo di Giovanni Rucellai, che era presente [dixe] a quello tale: Tu l’ài apunto tagliato tra le duo terre. Alludendo alla natura delle piante, che, tagliate in quello luogho, fanno più lungha messa

156.
Sandro Biliotti, huomo buono ma semplice et molto amico di Cosimo de'Medici, essendo ghonfaloniere digiustitia, quando si proponeva qualche chosa n'assegnava et vi diceva su qualche ragione (che gli erano state insegnate et richordate), ma grossamente; et, qualche volta, [in] diverso modo dal senso loro. Andava poi Puccio in ringhiera, et diceva con ordine tutte quelle chose che decto Sandro haveva voluto dire, premettendo sempre: chome saviamente ha decto il ghonfaloniere. Diceva poi Sandro a Puccio: Che dira’ tu, che io mi piaccio più quando tu di’ tu, che quando io dico io!

157.
Puccio a uno che si doleva chon lui della graveza, dixe: Tu biasimerai tanto cotesta gravezza, che tu non troverrai poi huomo che la voglia.

158.
Uno pazzo soleva dare consigli in publico, et in premio si faceva dare qualche braccio di refe; poi diceva: Vuoi uno buon consiglio ? non t’appressare a pazzi quanto è lungo questo filo.

159.
Il piovano Arlotto era in ghalea a dormire con alchuni giovani, et manomettendo a uno di loro el canestro, quello tale, dixe: Piovano, che fate voi? Rispuose: Perdonami, io credetti che e' fussi il mio.

160.
Papa Ioanni andando a concilio, domandò uno suo buffone, quello si diceva di lui. Rispuosegli: Sancto Padre, e' si dice, che voi siate uno ghagliardo huomo. Replicò el papa: Tu di’ el vero, che e' non è mai ghagliardìa, che non habbi parechi carati di pazzia.

161.
Papa Ioanni, sentendosi leggere in concilio el processo contro, confessava tutto, dicendo: Aio facto anchora peio. Dimandato che fussi quello peio, rispose: A lasciarmi condurre qui.

162.
Giuliano Ghondi era in letigio con la casa de'Martelli per cause mercantili; et dicendogli uno di loro: Noi siamo in casa 32 paia di coglioni, dixe: Egli è '1 vero; ma fra tutti voi non faresti uno zugho.

163.
Fu decto a Lorenzo de' Medici, che il conte Girolamo voleva dare Imola al re Ferrando, et il re a lui, in cambio, uno ducato nel reame. Dixe Lorenzo: Guardi che quel ducato non sia falso.

164.
Uno contadino, chiamato il Fella, essendo in articulo inortis, chiamati a sé i figliuoli, dixe loro: Figliuoli mia, io vi lascio tanti danari: tanti del tale, et tanti del tale. Hora dimandan i figliuoli l'uno l’altro, che danari fussino questi. Il maggiore, dixe: Questi sono danari che egli ha debito. Il Fella sobgiunse: Questi non ti paion forse danari? al pagargli te n’avvedrai !

165.
Messere Agnolo della Stufa, essendo imbasciadore de’ Fiorentini a Roma, el cardinale di Tiano gli mostrò la sua argenteria, dicendo: Io non posso dire come sancto Piero: aurum et argentum non est mihi. Messer Agnolo sobgiunse: Et voi non potete anchora dire: surge et ambula.

166.
Una donna domandata quali fussino migliori bordoni per le donne: e grossi o e piccoli, o e mezzani; rispuose: E maggiori sono migliori. Dimandata perchè, dixe: De' grossi se ne truova.

167.
Un contadino si confessava dal piovano Arlotto, al quale fece qualche renitentia di dire, che haveva menato il chavallo a suo mano; et, doppo questo, di nuovo usava renitentia di confessare, come a esso piovano haveva rubato uno sacco di grano. Al quale el piovano dixe: Menati a tuo modo il cavallo a mano, et fa che io rihabbi el mio grano.

168. |
Giuliano Gbondi, cictadino et merchatante fiorentino, huomo industrioso et molto faceto, haveva maritata una sua figliuola a Ghuglielmo di Bardo Altoviti. Uno amico di Giuliano, congratulandosi con lui di questo parentado, gli dixe: Prosit. Lodando apresso molto il decto Ghuglielmo, et, tra le altre cose, dandogli per lode, che haveva tanta masseritia quanto lui haveva dal ghomito alla mano (et così si toccò con altra mano, come si fa); Giuliano rispuose: Se per questa ella è bene maritata, io la potevo alloghare meglio. — O a chi? — A te. — Perchè? — Perchè tu se’ dal capo al pie tutta masseritia, o vero priapo.

169.
Bernardo da Castiglione, quello che fu padrone di ghalee armate, et, tra le altre volte, al tempo di Sixto; volendo comperare in Firenze una borsa in una boctegha, ove a sorte non era se nonne uno piccolo fanciullo a guardia; trovatone una a suo modo, et rimasto col fanciullo di dargliene tre grossoni; non havendo danari allato, prese la borsa, dicendo al fanciullo: Come io ci passerò, te gli darò. Il fanciullo, tòltogli la borsa e ripostola, non gli piacendo dargliene in credito, dixe: Se non havete danari, non vi bisogna borsa.

170.
Antonello da Furlì, condoctier di gente di arme, si partì una volta dal signore Gismondo, col quale stava, non havendo anchora finita la suo condocta. Era allhora in Firenze più signori, tra li altri el signore Astore di Faenza, et ragionando con Cosimo de'Medici de'facti di Antonello; il signore Astore lodava molto il decto Antonello, et maxime della sollecitudine sua; il cbe replicò più volte. Cosimo dixe: Signore, non lo lodate più di questo, conciosiachosachè egli ha hora per esperientia dimostro d'essere sollecito, essendosi partito innanzi al tempo.

171.
Niccolò Cennini, essendo in articuìo mortis, la donna sua gl'era intorno inportunandolo et dicendogli: Marito mio, che mi lasci tu? Lui, trovandosi in affanno assai et in altri pensieri, non le rispondeva. Et lei di nuovo rimettendosi a dire: Che mi lasci tu? Le rispuose con ira: Làscioti la maggior potta che à femmina di Firenze.

172.
Ciarlando uno a mensa de' facti del Turcho a lungho, et dicendo, che mai si poteva intender nulla de' fatti sua, et ciò che si parlava era bugia; fu uno che dixe: Et però sta cheto tu.

173.
Il piovano Arlotto, passando una fanciulla per la via, [dixe]: O! ve' bella fanciulla ! Lei rispuose: È non si può già dir così di voi. Sobgiunse el piovano: Si, potrebbe bene, chi volessi mentir per la ghola come ho facto io (1).
(1); Sotto il N. 268 lo stesso motto è posto iu bocca a ser Chello dal Bùcine.

174.
Il priore di Lucardo, vedendo uno monoculo, dixe: Costui durerà men faticha di noi al morire, che non harà a chiudere se none uno ochio. Et il simi[le] d'uno sdentato diceva: Costui non tiene l’anima co’ denti.

175.
Chiedendo uno contadino a Malherba, cameriere di Piero di Cosimo de'Medici, di certo caso uno po'di fede; ser Matheo di Franco sobgiunse: È non te ne può dare sì poca, che non te ne dia quanta e' n' a.

176.
Dicendo uno a Cino, che haveva allato una coltella, che ella gli sarebbe tolta, rispuose: Io sono uso a tòrne a altri. Andrea de'Medici, dixe: Si, dal cappillinaio.

177.
Diceva uno, non havere praticba nel facto delle dame. Filippo da Ghagliano rispuose: Non me ne maraviglio, ohe tu stai sempre in sulle conclusioni.

178.
Messer Cristofano Landino, huomo di grandissima doctrina, essendo in mezzo di due preti, uno povero gli chiese limosina. Rispuose: Va in pace, che io non ho danari allato, et costoro sono due preti.

179.
Nacque un fanciullo circa uno mese doppo che la madre si era maritata. Martino dello. Scarfa, dixe al padre della donna: Fa come questo tuo nipote, e sarà' sempre dieci miglia inanzi agl’ altri.

180.
Cosimo de' Medici, quando vedeva qualche huomo prompto et accorto, soleva dire, che egli haveva il cervello in danari contanti.

181.
Antonio di Maraboctino Rustichi, havendo a cenare con uno, et dicendo: Io comperrò uno mazzo di tordi, et tu comperrai dell'uva per lo arrosto; colui dixe: B' costeranno più l’uve che i tordi. Antonio dixe: Si, a te, che non ti costono.

182.
Il re Alphonso, havendo inteso che uno mercante genovese, o vero vinitiano, haveva una tazza d'un pezzo di calcidonio, la quale, di simile cosa et per grandezza del pezzo et per bellezza del lavoro è tenuta delle belle gioie che si veghino al di d'oggi; et al presente l'à el magnifico Lorenzo de'Medici, et, per quello gli ò udito dire, non la darebbe per 10000 ducati; venendo il decto re col decto merchatante al pregio, l’hebbe per 2000 ducati. Dixegli adunche il prefato re: Tu non l'ai saputa né vendere né donare.

183.
Giraldo da Rimini, cortigiano di quello Signore, di statura piccolo, piacevole et molto faceto; havendo referto uno giorno più novelle et piacevole[zze] alla presentia di più cortigiani, et, tra li altri, di uno messer Andrea da Servigiiano, cavaliere famoso ma avarissimo; il decto messer Andrea gli dixe: Giraldo, tu se' sì piacevole et sì faceto, che non per altro la natura ti facessi sì piccolo, se non perchè l’ huomo ti potessi mettere in borsa per non ti perdere: io delibero metterti un dì nella mia scarsella, per haverti a mia posta. Giraldino gli rispuose: Oimè, no! che voi non me ne trarresti mai.

184.
Messer Panza Frescobaldi andava a ucellare a sparviere tra la nona et el vespro. Scontrossi in uno amico, il quale lo dannò in dua cose: l’una, che si domestichasse troppo con huomini vili; l’altra, che andassi fuora quando tutte le bestie si riducevano all' ombra. .Rispuose: che della prima si rimarrebbe, se sì tosto non sdimenticassi l'accorgersene; all'altra non essere vero, essendo fuor tale suo amico
185.
Messer Brunoro Malatesti, huomo docto et savio, essendo a uno desinare che faceva messer Vanni di Mugello, huomo di basso ingegno; fu da epso messer Vanni domandato, quale cittadino di Firenze si eleggerebbe d' essere. Rispuose: qual si fusse, non potrebbe se non migliorare. Strignendolo messer Vanni a nominare qualchuno, dixe: Brunetto Latini. — Messer Vanni: Costui è uno cervello di ghatta; a questi dì mi rivende per 10 lire. — Tanto più, dixe messer Brunoro, vorrei esser lui; poi che sa vendere dieci lire quello che non vale dieci danari. Dolendosi di questa risposta messer Vanni, messer Brunoro sobgiunse: Non vi dolete voi: lasciate dolersi al comperatore.

186.
Messer Arrigho Mainardo teneva amicitia con una madonna Biancha, che stava a Pisa. Andando a vederla, et entrando in chamera, essendo huomo grande, percosse col capo nel cardinale dell'uscio. Dicendo: La ben trovata, gl'altri lì sogliono percuotere la coda, et io ci ò percosso il capo: che vuol dire? Madonna Biancha rispuose: Perchè chi ha le corna, più facilmente percuote con esse, che colla coda.

187.
Messer Giovanni Barile da Napoli, essendo in compagnia di molti gentilhuomini et donne, fu dimandato da mona Oretta di messer Geri Spina, havendo a chiedere, che gratia chiederebbe; egli rispuose: Che voi fussi indovina, acciò che voi indovinassi quello io non ardiscilo di dire. E ella sobgiunse: Cavaliere, chi teme di dire, non ha ardir di fare.

188.
Messer Ciampolo, sanese, huomo prodighalissimo, mandò fagiani et starne una sera al podestà di Siena, perchè sapeva che con lui cenava messer Guido Ritto, capitano di guerra, nuovamente venuto in Siena et suo familiarissimo. All'hora della cena l'andò a visitare, et essendo lui per cenare, dixe il podestà: Voi sapete la forte legge che è in questa terra, che chi cena col rectore gne ne va 200 lire; et a me mille, se io non lo notifico. Dixe messer Ciampolo: Andiamo a tavola, che io stimo questa cena più di 2000 lire. Et cenò et paghò.
Costui, mancandogli la roba per usare magnifìcentia, vendè sé medesimo. Morendo, a tutti i frati che lo richiedevano che si facessi seppellire alla loro chiesa, promisse per non neghare nulla. Rimproverandogli i parenti la sua prodighalità parse, che e' moriva sempre; dixe queste parole: Quod donavi habeo: quod retinui perdidi: quod negavi dolco.

189.
Guglielmo Orsiere, huomo faceto, standosi a Bologna, veduto passare uno malandrino suo amico, molto in furia lasciato più cittadini coi quali era a circulo, con passo sollecito andò a decto malandrino et, quasi genuflexo, gli fé una grande accoglienza. Essendone ripreso, rispuose: A voi fo honore delle robe vostre, portandole in dosso; al malandrino perchè e' non me le tolgha. Et però si dice di costui, che gli appichava le candele a' sancti et a' diavoli (a' sancti perchè gli facessino bene: a'diavoli perchè non gli facessino male): Amico bene fac ut amicitia fiat; inimicum vero amicura facete stude.

190.
Il re Adovardo d'Inghilterra teneva in corte uno messer Merlino con buona provisione, il cui uffcio era scrivere le simplicità che si facevono nella sua corte. Occorse che havendo il re a mandare a Roma lettere in frecta, non si trovò (salvo uno Bichino) corriere, che gli bastassi l’animo d'andarvi nel tempo che '1 re voleva, quale era brevissimo. Rispecto alla distantia, fecegli il re dare mille ducati et spacciollo. Scripse questa cosa messer Merlino al libro: il re, saputolo, lo dimandò perchè l'avessi posto. Rispuose, perchè era impossibile che cholui observassi la promessa, et che per cento ducati harebbe facto il medesimo. Il re, dixe: Se non mi observa, m’a promesso rendermi i mille ducati; et però levatemene. Messer Merlino replicò: Sacra maestà, io scriverrò pure per hora la vostra; et quando Bichino vi renderà i danari, io leverò la vostra et scriverrò la sua.

191.
Cosimo de'Medici confortava uno povero contadino acostarsi al fuocho et scaldarsi, perch'era freddo et grande. Dixe il contadino: E' non mi fa freddo. Cosimo sobgiunse: Io vorrei che tu m'insegnassi, come tu fai. Rispuose: Se voi vi mettessi a dosso tutti i vostri panni, come fo io, non vi farebbe freddo.

192.
Lorenzo de'Medici, dixe che si voleva confessare da uno prete che era bugiardo. Domandato della ragione^ rispuose: Se pure e' ridirà i mia peccati, non gli sarà creduto.

193.
Dolendosi uno signore con Lorenzo di Pier Francesco de'Medici di alchuni soldati che si gli fuggivano; Lorenzo gli dixe esservi uno rimedio. — Quale ? — Cacciargli via prima si fughino.

194.
Luigi Pulci, quando lodava uno medico per antiphrasinim diceva: E' si porta come uno paladino, cioè, che n'amaza assai.

195.
Messer Pandolfo Collenuctio da Pesero, lodando per antifrasim uno medico, diceva: Egli attende a trionphare: alludendo alle leggi del trionphare de’ capitani romani, che non lo potevono fare, se non quando n’ havevono morti parechi migliaia.

196.
Luigi Pulci usava dire, che mai si vorebbe dare limosina a uno cieco, perchè, data ohe tu gnen ai, ti vorrebbe allhora allhora vedere impiccato.

197.
Uno doctore promisse a uno contadino, che gl’ insegnerebbe piatire (se gli desse uno ducato ) per modo, che sempre opterrebbe la causa. Il contadino gnel promisse. Il che il doctore disse: Niegba sempre et vincerai. Chiedendo poi il ducato, il contadino neghò havergnene promosso.

198.
Una donna aretina si stava un dì di festa a sedere air uscio a ghambe aperte: il marito gli mandò a dire, che serrassi la boctega, perchè era festa et non si teneva aperto. La donna rispuose: Il condannato sarà lui, che ha la chiave et non la serra

199.
I Vinitiani mandorono duo giovani per imbasciadori allo imperadore, il quale poi non dava loro audientia. Volendo intendere i decti dua la cagione, fé loro rispondere, che era consueto mandare allo 'mperio per imbasciadori huomini maturi di anni et gravi, et non sì giovani. Costoro preghorono lo imperadore, che ascoltassi da loro alquante parole, promettendo di non parlare circa alla loro commessione. Impetrata l’audientia, dixono: Imperatoria maestà, se la Signoria di Vinegia havessi creduto che la sapientia stessi nella barba, harebbono mandato per imbasciadori duo bechi.

200.
Iacopo Martegli, essendo vechio et havendo la moglie giovane, et non faccendo pepe di Luglio, lei lo trassinava; ma tucto invano. Messoselo a dosso; il medesimo. Montò in ultimo lei di sopra; il medesimo. Iacopo allhora: O sciocha! e'non può ire alla china, et tu credi che vadi all'erta?

201.
Maestro Zambino da Pistoia [usava dire]: che conosceva meglio gliamici sua [al] guardare loro alle mani, che al viso

202.
Giuliano di Particino, huomo audace, essendo de' Dieci (per artefice), in compagnia, tra li altri, di Cosimo de’ Medici et messer Agnolo Acciaiuoli; caricava molto Cosimo, con dire, che le famiglie [nobili] in Firenze teneano poco conto de’ popolani. Haveva Cosimo in mano uno bossolo d' ariento da ricogliere e partiti, et pinselo giù pel descho dinanzi a messer Agnolo; il quale (interpetrata cosi la voluntà di Cosimo), preselo, [et] volle dare con esso a decto Giuliano. Cosimo il tenne. — Se tu non mi tenevi, io gli davo con esso nel capo. — Cosimo dixe: Egl'era qui sano uno pazzo, et sarebbesi poi decto, che ce ne fussi stati due.

203.
Maestro Giuliano Ghostanza medicava a Roma di mal di pecto, et haveva nella scarsella di molte polize, che dicevano: Guardalo da carne et vino, et dagli lattugha et farferegli. Dipoi, a qualunche gli domandava consiglio, gli dava di decte polize.

204.
Messer Rinaldo degl'Albizi, secondo è voce, impazzò una volta: poi ritornò. Una donna semplice haveva uno flgliuol pazzo, et domandando consiglio et parere, gli fu decto, andasse a messer Rinaldo a domandarlo come havesse facto lui. Lei cosi fece. Messer Rinaldo, cognosciuta la semplicità della donna, le rispuose: Non fate, buona donna, che io non hebbi mai el più bel tempo, se non quando io ero pazzo.

205.
Cosimo de’ Medici admoniva uno contadino, chiamato Betto Araldini, che non andasse dritto a brighe; il quale, dicendo che non haveva se none uno inimico, Cosimo rispuose: Oimè! cercha di rappacificarlo, perchè a ogni grande stato uno nimico è troppo, et cento amici sono pochi.

206.
Maestro Bartolomeo da Pistoia, medico, et huomo singhulare, essendo vechio, prese donna. Fu dimandato come havessi tolto donna in vechiaia, rispuose: Perchè a’ vechi mancha il senno, e mentre che io fui giovane et di buono sentimento me ne guardai: hora, come men savio, vi sono incappato.

207.
Cosimo a uno huomo docto, ma vitioso et pazzo, dixe: Tu hai troppo buono vino a si cattiva botte.

208.
Uno cictadino pistoiese haveva preso per donna una fanciulla di statura molto piccola. Maestro Bartolomeo da Pistoia, suo parente, congratulandosene con lui, lo commendò dell’avere tòltola piccola, dicendo, che della moglie, quanto meno se ne toglie, tanto è meglio.

209.
Gino Capponi vechio, essendo commessario de' Fiorentini in campo contro a1 Pisani; messer Giovanni Ghamberoli gli mandò a dire, che tosto gli darebbe morti e cittadini di Pisa. Gli rispuose, che voleva gliuomini et non le mura.
210.
Cosimo usava dire, che si dimenticavano prima cento benefici, che una iniuria; et chi offende non perdona mai; e che ogni dipintore dipigne sè.

211.
Mariotto Baldovinetti, richiedendo Cosimo in uno suo bisogno, per captare da lui benivolentia, gli ricordò che, essendo lui de' Signori quando Cosimo fu sostenuto in palazzo et poi confinato, era stato cagione che a Cosimo decto non fusse tagliato la testa. Cosimo dixe: Se tu non mi havessi messo in quello pericolo, non ti sarebbe bisognato poi trarmene.

212.
Federigho duca d'Urbino usava dire, che se lui fussi a campo a un pozzo, et chi vi fussi dentro si volessi dare a pacti, lo piglierebbe per non havere a fare pruova della forza.

213.
Federigho duca d'Urbino, essendo a campo a Colle di Valdelsa, terra de' Fiorentini, et strignendola molto; per alchune occorrentie, Daniello trombetto della Signoria di Firenze, fu mandato al prefato duca, il quale gli dixe: Bè. che faranno hora questi tuo signori ? questa terra hora mai si può dire che sia nostra. Daniello rispuose: Ène tanti valentuomini, che sapranno riparare a questa et a molto maggior faccenda. Il duca soggiunse: Glien' era! Glien’ era!

214.
Tornando Piero di Cosimo imbasciadore de' Fiorentini da Roma, essendo a Perugia, andò a visitare quella Signoria. Uno di quegli priori gli parlò molto insulsamente: uno suo collegha, con dextro modo, voltatosi a Piero, dixe: Habbiate patientia, che anchora voi ne dovete hvere a Firenze. Piero gli dixe: Egl' è '1 vero, che n' abbiamo, ma non gli operiamo già a cose simile.

215.
Più cictadini fiorentini della contraria factione a Cosimo de' Medici, feciono, nel 1433, uno parlamento; il che più tempo avanti non s'era facto. Cosimo dixe: E' ci anno insegnato, come noi habbiamo a fare a loro.

216.
Il conte di Virtù soleva dire, che messer Coluccio, cavaliere della Signoria di Firenze, gli faceva più guerra colle suo lettere, che i capitani de'Fiorentini colla loro lancia. Onde per varie vie tentò di farlo capitare male; tra le altre fece fare una lettera contraffatta alla mano di messer Coluccio, nella quale erano scripte più cose contro allo stato de' Fiorentini. Et factala dare alla Signoria di Firenze, fu mostra a messer Coluccio; et dimandato se era di suo mano, rispuose: Questa è di mie mano, ma non la scrissi mai.

217.
Uno essendo dimandato, se, quando uno haveva buon viso, bisognava dimandarlo come stava; rispuose di si, perchè haveva molte volte veduto de' fiaschi rotti colla vesta nuova.

218.
El duca Francesco usava dire, che a volere fare bene una chosa, bisognava quattro cose: pensare, consigliare, deliberare et fare.

219.
Galeazo, quinto duca di Melano, usava dire, che a volere fare buona una torta, bisognava tre cose: sapere, potere e volere.

220.
Messer Marsilio Ficino usava dire, che le donne si volevano usare chome gli orinali, che come l’uomo v' à orinato si nascondono.

221.
Cosimo, perch' era ghottoso, si faceva portar per casa da'famigli: havendo una volta a entrare in uno uscio, dubitando di non percuotere, gridò. Dicendogli uno famiglio: Che havete? voi gridate per anchora niente v' a tocco. Rispuose: El gridar dappoi, che m'arebbe giovato?

222.
Uno papa voleva fare generale dell' ordine di san Domenico uno frate del medesimo ordine, il quale ricusava, dicendo, non volere ghovernare pazzi. Il papa a lui: Guarda qual sia meglio, o governargli, o essere ghovernato da loro.

223.
Iacopo Bini diceva, che nel ghoverno et stato di Firenze sono stati di tre ragioni: una di chi ha prestata .'a riputatione: l’altra di chi ha prestato o danari; l'altra di chi ha appiccato il sonaglio (1)
(1) Nel libro del Domenichi ( Facetie ecc. Venetia, Cornetti, 1688, pag. 174), questo motto viene spiegato dalla seguente giunta:
» Domandato, che voleva dire questo appiccare il sonaglio, contò allhora che certi topi deliberarono una volta insieme di appiccare un sonaglio alla coda della gatta per sentirla; ma poi che’1 partito fu vinto, non si trovava nessun di quo' topi, che volesse esser il primo a appiccarlo, Del pari dunque di Anto nio Puccio diceva esser di quelli che appicca vano il sonaglio. »

224.
Nel tempo che [nel]la ciptà di Firenze i Ciompi tolsono lo stato a' grandi, uno cavaliere degli Albizi, ragionando con un Ciompo suo noto, gli dixe: chome credete voi poter tenere lo stato, che non siate usi; che noi, che vi siamo nati et assueti, non l’habbiamo potuto mantenere? Il Ciompo: Faremo il contrario di quello havete facto voi.

225.
Cosimo de' Medici usava dire ( quando uno che tornassi d'uflcio era domandato ove fussi stato): essere buono segno, perchè di lui non si era inteso alchuno sinistro portamento.

226.
Al tempo di Cosimo, il re d'Araghona mandò uno imbasciadore a' Fiorentini , a chiedere per tributo, ogni anno, uno falcone; offerendosi poi loro defensore e conservatore del loro stato.
Fu commessa la risposta a Puccio, il quale rispuose così: che altra volta Giovali Ghaleazzo conte di Virtù havea, con fare a' Fiorentini simile offerta, chiesto uno sparviere, et non gnéne havevano aconsentito; et che a sua maestà non solamente non darebbono uno gheppio, ma, se lui si volessi aconciare per loro capitano (del che non si poteva verghognare, numerando molti altri non da meno di lui suti loro capitani), gli darebbono l’anno 40 in 50 mila ducati.

227.
Era Puccio Pucci oratore de' Fiorentini al duca Filippo, dai quale prima havessi audienzia tardò più giorni: questo, perchè decto duca si governava assai con punti d'astrologia, et aspectava uno punto gli satisfacessi. Essendone adunche venuto uno a suo modo, mandò per Puccio, el quale gli mandò a dire, che, se quello punto era per il decto duca, non era per lui; però si voleva indugiare a un altro dì.

228.
Neri di Gino Capponi, essendo oratori de' Fiorentini a Vinegia, nella guerra che loro havevano col duca di Melano, era da'Vinitiani tenuto in tempo della risposta; per il che, dixe a quella Signoria: Signori Vinitiani, voi volete fare il duca di Milano re, et noi lo faremo imperadore. Il che udito, i Vinitiani lo expedirono, et feciono tutto che haveva richiesto.

229
Sforza fu tratto di prigione dalla reina Giovanna, la quale lo fé suo capitano generale. Rimesse adunque Sforza predecto la compagnia insieme et in quello migliore ordine che per allhora potè, ma sanza sopravesta o pennachi; del che i soldati si querelavano. Sforza, intesolo essendo in cammino, smontò da cavallo, et posto il suo elmo, che haveva uno bel pennachio, sopra uno palo, dicendogli: difenditi poltrone; tutto lo percosse et tagliò con lo stocho. Non intendendo la compagnia la chagione, dixe haver facto quello, perchè conoscessino la virtù et la ghagliardìa non stare ne' belli pennachi; conciosiachosachè el suo, che era bellissimo, non haveva facto una minima difesa.

230.
Il piovano Arlotto, essendo a Romn, si trovò a cena col cardinale di Pavia, chiamato messer Iacopo da Lucca, il quale già era stato in Firenze come povero cappellano, et, tra li altri, maestro in casa Lorenzo di Piero Francesco de’ Medici. Dixe adunque monsignore più volte al piovano: Cognoscestimi voi mai in Firenze? Neghò sempre il piovano , anchora che l'avessi cognosciuto, perchè monsignore haveva per male gli fussi ricordato il tempo et termine in che lui s'era trovato a Firenze. Intercacenando poi, monsignore pose mente a una vesta, che haveva il piovano, vòlta ritto rovescio; et dicendo a caso il piovano, che non credeva havere alcuno inimico al mondo, dixe Pavia: E' non è maraviglia, che havete arrechato la ragione dal canto vostro! Inferendo ch'egli l’aveva il diritto della cioppa di dentro. Allhora il piovano: Monsignore mio, io scoppierei se io non vi dicessi una novella a cotesto proposito.
In Fiandra è questa usanza, quando si fa uno paio di noze, che i giovani che vi hanno a ballare, si mettono sopra alle carni stivaletti stretti et molto pulitati. Occorse che a uno paio di noze, faccendosi mettere uno giovane, al calzolaio, uno paio di stivaletti nel sopra scripto modo, uno se ne schiantò: turbossi el giovane; et il calzolaio: Non ve ne curate, che io lo ricucirò in modo, ohe nessuno se n' avedrà, se già non fussi uno propio calzolaio; et così fece. Ballando poi costui, et essendovi alle noze un altro giovane già suto calzolaio (ma per essere arichito lasciò l'arte, et ridoctosi in grado et condictione), visto lo stivalecto di costui, dixe: Palle! diavolo! vo' have' a ciabatta lo stivale! Rispuose el primo: Ben me lo dixe el calzolaio ! Intese monsignore. et tacque.

231.
Satanas, si dice, dava uno cavallo a uno diavolo, che haveva perduto tempo drieto a uno che haveva rubato, a operare che e' non restituisse; dicendogli: E' bastava haverlo facto rubare, perchè rubato che l'uomo ha, per sé medesimo si guarda dal rendere.

232.
Don Santi confessando una fanciulla, la quale gli parve terreno da porvi vigna; cominciando a toccargli e capegli et lodargli, venne descendendo air al tre parti, faccendo il simile; e, in ultimo, a usare l’acto carnale. La fanciulla dixe: O ! voi mi fottete! — Don Santi: È '1 diavolo che i’ò di sotto.

233.
Fra Sinibaldo dell' ordine di sancto Domenico, stante in Sancta Maria Novella confessando una donna, la domandò se '1 marito haveva facto con lei al mal modo. Dicendo ella: O! puòssegli fare a chotesto modo? rispuose mostrando che simil cosa gli piacessi.

234.
Uno prete essendogli morto uno cane, il quale haveva carissimo, gli fece sepultura et celebrò uficio. Fu accusato al veschovo: compari; et confessò. Temendo la punitione del vescovo, sotto ombra di excusarsi dixe: Monsignore, io lo feci, perchè voi non vedesti mai cane havere migliore sentiménto; et havendo apparechiato uno sachetto di danari, sobgiunse: tra le altre cose e' fece testamento, et mi lasciò che io vi dessi questi danari. Monsignore gli prese, et il prete fu absoluto.

235.
In Firenze fu uno cictadino chiamato messer Valore (al tempo del duca d'Athene), il quale, per sospecto di decto duca, finse d'esser pazzo. Fra le altre cose si empiè un dì la veste di ciriege, et andatosene in piazza, chiamati dimolti fanciulli, dixe: Piluccatemi, che io sono il comune.

236.
Il predecto comperò una volta uno campo di porri, et chiamati dimolti fanciulli, dixe, che gli trovassi [no] el più grosso. Trovatolo, se n' andava con esso per la terra. Domandato, che andassi a fare con esso, dixe: Vo a ficcarlo dritto al popolo grasso.

237.
Cosimo de' Medici usava dire, che tre cose inanimate sono più ferme et più constanti nel loro proposito et uso, che altra cosa: sospecto, vento et lealtà. Sospecto, perchè e’ non esce mai ove egli entra. Vento, perchè non entra mai ove non ha uscita. Lealtà, che la non torna mai onde ella si parte. Et però, nec vera virtus cum semel excidit non curat reponi deterioribus.

238.
Donatello scultore ne' suo tempi excellentissimo, haveva uno suo discepolo giovane, il quale, per quistione nata tra loro, si fuggì da lui et se n' andò a Ferrara. Donatello, dolendogli sopra a costui non poco il dente, se n' andò a Cosimo, et da lui, affermandogli che lo voleva seguitare et amazarlo, impetrò lettere di favore al marchese di Ferrara; ma, da parte, Cosimo avisò il marchese della natura di Donatello. Inteso il marchese la chosa, concedè a Donatello, che nelle suo terre, ovunche trovasse questo suo discepolo, l'amazasse. Scontrandosi adunche uno giorno insieme, il discepolo, di lungi, cominciò a ridere verso Donatello; il quale, incontinenti, ridendo et tutto rappacificato, l’andò a trovare et fargli motto. Il marchese poi domandò Donatello, se l'havessi ancora morto; il quale rispuose: No, in nome del diavolo! che e' rise a me, et io risi a lui. Il che poi è uscito in motto et in proverbio.

289.
Maestro Ghaleazzo dipintore, disegnava spesso a caso qualche cosa, la quale non si poteva conoscere che havesse ad essere o riuscire. Essendo dimandato quello havessi ad essere, rispondeva: Che so, mi? secondo che la si butterà.

240.
Tra li altri gran conestaboli del reame , ne fu uno nel mestier dell' arme excellentissimo, ma sanza alcuna notitia di lettere, et, non che altro, non sapeva leggere né scrivere. Havendo da’ sua canciellieri inteso più volte nelle lettere leggere et cetera, gli domandò uno giorno quello significava. Loro, per spiccarselo da dosso, gli rispuosono, che era parola importante assai al suo honore. Lui di poi, quando gli scrivevano, diceva loro spesso: Mettetegli ben di quelle zetera.

241.
Il Boccaccio, per uno proverbio, nel Comento di Dante dice, che la scriptura sacra ha it naso di cera; volendo inferire, che si può torcere a ogni proposito.

242.
Gigi pazzo, sentendo il padre, chiamato Nanni, manomettere la madre nel lecto, lo dimandò: Che fate vo'? Rispondendo Nanni: Che so? io fo. Dixe Gigi: Bè, fate presto, che io vo' fare anch' io.

243.
Nicholò Barbadori, cittadino fiorentino ne’ suo tempi potente, et della factione contraria a Cosimo, hebbe da uno forestiere in diposito buona somma di danari, et gliene fece fede et di suo mano. Richiedendo poi el forestiere e suo danari, gli negò; et accusatolo per falsario procurò tanto, che fu morto. Sapeva le verità di questo caso Piero d'Ugolino, sensale: visto questo, dixe, che non voleva più credere che Dio ci fussi, se non ne vedea vendecta; et così stette più anni, che non entrò mai in chiesa Ma nel 1434 essendo decto Niccolò confinato, et suo beni incorporati, et in ultimo facto morire; il decto Piero [dixe]: Dio, tu c’eri pure! et cominciò a entrare in chiesa et credere come prima.

244.
Neri Cambi, cictadino fiorentino, huomo faceto et acuto, haveudo udito da uno famoso predicatore, che 100000 anime starebbono in una cruna d'agno, dixe, non haveva più paura dello infer no. Essendo domandato, rispuose: Poi che tanto numero sta in sì piccolo luogo, apicchimmi i diavoli il graffio al culo a lor posta.
245.
Uno cittadino fiorentino, huomo molto faceto et prudente, per iocum diceva, che non si voleva haver tanta paura dello 'nferno, che l'uomo si conducesse allo spedale.

246.
Il medesimo, che non si voleva tanto guardare in cielo, che l'uomo percotessi co'pie in terra .

247.
Il medesimo diceva, che chi faceva cattivi contratti, meritamente doveva essere punito. Domandato qual fussino e cattivi contratti, rispondeva: Quegli che se ne perdeva.

248.
Federigho duca d'Urbino, capitano di gente d'arme ne'sua tempi molto riputato, quando consigliava qualche chosa o partito, non diceva mai: cosi sarà, o, noi vinceremo; ma sempre: è ragionevole che chosi se sia; sobìungendo ancora, che molte cose non restono secondo la ragione.

249.
Alexandro Nasi volendo fare fare a uno artetìce una certa cosa, né havendo suo notitia, operò il mezo d'un altro artefice, decto Michelagnolo, amico d'esso Alexandro, ma in ogni suo acto molto lungho et agiato. Venendo adunche Alexandro a Michelagnolo, et richiestolo che mandasse a sapere, se la cosa che li haveva a fare quell’ altro artefice era finita, perchè già n'era passato el termine tra loro statuto et promesso; colui mandò a rispondere che no. Alexandro sobgiunse a Michelagnolo: Costui debbe essere tuo amico; inferendo che doveva essere lungho come luì.

250.
Gherardo di Bertoldo Corsini, diceva, che nella vecchiaia sua vorrebbe fare come fanno tre animali nella loro, cioè: cecero, gallo et cane. Cecero, perchè quanto più invechia, tanto più diventa bello. El ghallo, per[chè] gli cresce più la foia. Cane, perchè quel facto gli diventa maggiore.

251.
Ser Ciuffa, essendo ripreso aspramente dal padre del vitio di soddomia; dicendogli il padre: E' non fu mai nessuno in casa nostra, che havesse questo vitio; rispuose: Io fo conto, che io me r ò tratto delle calchagne.

252.
Antonio di Lionardo de’ Nobili et Simon Zati cittadini fiorentini, contendevano insieme per causa di confini. Antonio dixe a Simone, che l'aveva gravato in cose mancho che honeste. Simone rispuose: Io me ne verghognerei come un tristo. Allhora Antonio: El bisogno mio sarebbe, che tu te ne verghognassi com' un buono.

253.
Messer Jacopo della Sassetta, condoctiere di gente d'arme ne' suo tempi d' assai extimatione et prudentissimo, usava dire, che le cictà et terre grosse erano a' soldati come la calcina a' pesci. Domandato perchè, rispondeva: Perchè in esse e soldati, tra in piaceri et in altre cose, consumano le prese et il soldo; et poi, in campagna, mancano di suplire alle factioni per non havere denari.

254.
Carlo Carneseschi haveva tolto uno famiglio. Bernardo Manetti suo amico, non gli piacendo, ne lo biasimava. Al quale Carlo: E' non è moglie ! Inferendo, che quando e'non gli piacessi, lo poteva licentiare a suo posta, il che non adviene delle donne.

255.
Cosimo de'Medici usava dire ad alcuni che dicevano studiare in arte oratoria per sapere dire,et in facti poi parevano pulcini in stoppa, diceva: Imparate ad fare.

256.
Messer Rinierì di Maschi da Rimini, huomo prudentissimo et molto esperto, ragionandosi se Castel Sant' Angnolo di Roma era forte o no, come è comune oppinione; lui neghò essere forte. Domandato perchè, rispuòse, che non havendo fossi intorno, s'andava a piano alle mura; et la natura dell' huomo è che dove e' pone la mano, e' pone ancho el pié.

257.
Bernardo del Nero quando sentiva dire di alchuno che fussi uno poltrone: egli ha paura de’ nimici; diceva: Egli ha paura di sé, non de' nimici.

258.
Bernardo Gherardi, cittadino fiorentino, nobile, et ne' suo tempi molto reputato et exercitato nella administratione della sua republica; fu oppinione che havessi accumulato danari et roba assai per ogni via et modo; et perchè era huomo vivo, et si faceva temere et riguardare, nessuno in suo vita se gli scopriva contro in parole, o in facti. Venendo a morte, et stando lui in extremis, vedendosi innanzi uno capo de’ bechini, chiamato Pulcino, il quale era venuto quivi per intendere da' sua l'ordine dell' esequie, lo chiamò a sé et dixegli: Vien qua, Pulcino: io so che la brighata, morto ch' i' sarò, raghiera assai; sotterrami bocconi, che io voglio mostrare loro el culo.

259.
Messere Jacopo della Sassetta, condoctiere di gente d'arme di grandissima riputatione et virtù, fu facto cavaliere dalla Signoria di Firenze, al soldo della quale allhora stava; et perchè non gli pareva havere condocta, secondo che gli pareva meritare; et, secondo che diceva, vi metteva del suo; dixe uno giorno ad alchuni cittadini di Firenze: Voi m'avete tracto l’oro di borsa, et messomelo al pecto.

260.
I Genovesi non si contentando già delle loro conditioni, o vero che non confidassino sapersi reggere né ghovernare, nel 1470, mandorono imbasciadore a Luigi re di Francia, offerendogli el dominio deHa loro terra. Il prefato re, sappiendo come sono facti et conoscendo la natura loro, détte buone parole al decto imbasciadore et intentione di acceptargli; et uscito fuora del suo palazo per ire a piacere,. et essendogli adpresso il decto imbasciadore, montato a cavallo, gli dixe: io v’ò presi et acceptati per mia: hora io vi do et ne fo carta al trenta mila diavoli. Et dato subito di sproni al chavallo, lasciò quivi il prefato imbasciadore tucto beffato, il quale poi fu urtato et schalcheggiato da tutta la turba, che seguiano sua maestà.

261.
Messer Gian Luigi dal Fiescho diceva, che in Italia erano tre città che facevano i loro provedimenti in questo modo: i Fiorentini inanzi al facto: i Vinitiani in sul facto: i Genovesi doppo el facto.

262.
Piero di Lorenzo de'Medici, essendo anchora di tenera età, et trovandosi in compagnia di molti sua amici et compagni alla possessione di Alexandre Nasi a Ripoli, et per festa et per motteggio dicendosi a un solenne et consueto bugiardo, che dicessi 4 bugie, le maggiori sapeva, per dare piacere alla brighata; et rispondendo quel tale, che non ne sapeva alehuna; dixe subito: E' n' à decta una grandissima: questo è, che non ne sappi alehuna.

263.
Trovandosi uno giovane a Firenze, chiamato Checho da Montedoglio, el quale piativa la Signoria di detto Montedoglio con Luigi della Stufa; et havendo ciascuno di loro chiamato uno dottore che giudichassi questa chosa; et non la giudichando, presono uno terzo, chiamato messer Nicholò Altoviti. Dettono la sententia non a proposito di detto Checho: per questo, disse, che messer Nicholò era fatto chome el ghambero; inferendo, che haveva fatta la ragione al chontrario.

264.
Messer Nicolò Angèlio dal Bùcine, huomo di gran doctrina et ingegno, trovandosi in un circulo d'huomini doctissimi, dove andavan per sollazo atorno festivissime dimande; essendo da messer Christophano Landini domandato, perchè li funghi tucti portassino el capello, rispose: Per difendersi dalle piove, al cui tempo quelli usono venire; Et messer Bartolomeo Scala sogiugnendo: Qual ti pare el più dolce suono che tu senta ? Rispose el decto ser Nicolò: Quello delle mie ampie lode.

265.
Nofri Camaiani, cittadino aretino, vedendo.la dona [sua], una domenicha, stare con altre donne in su l'uscio a gambe larghe; per uno ragazo le mandò a dire, che, essendo festa, non era bene tenere la boctega aperta. Va, digli, rispose, che el difecto è el suo, perchè gli a la chiave secho.

266.
Messer Francesco d’Arezo, primo doctore che fusse a' suoi tempi in legie, vaghegiando a Pisa (dove legieva) in sua senectù; dicendoli la dama non si convenire l amore in uno capo biancho per anticho pelo, rispose: sé esser facto come el porro, che ha el capo biancho et la coda verde.

267.
Ser Chello dal Bùcine, huomo d'acuto ingegno, vaghegiando una gentil donna a Bologna, col pigliare 1' aqua benedecta in chiesa, le dixe: Io non vidi mai la più bella donna di voi. Voltatasi a lui, rispose: Messere, io non posso già dire così di voi. Sogiunse ser Chello: Madonna, si, potete: mentite per la gola come me ).

268.
Philippo delli Alberti, giovane da bene et liberale, havendo havuto male, strecto dalla sete, mangiava una melagrana dolce in sul canto della via del Cocomero, vicino a Santa Liparata, in domenicha, mentre si diceva el vespro; dove, passando una bellissima et ornatissima fanciulla, guardava costui come cosa indecente che mangiasse in tale luogo. Di che Philippo, vedutosi così guardare, la dimandò, se ne volesse. Rispose la fanciulla: Parti questo viso da melagrane?

269.
Messer Nicolò Angèlio dal Bùcine, essendo a una mensa d'huomini da bene, dove si ragionava delle victorie et delle rocte de' capitani et de' popoli della Italia; et racolto ogni cosa insieme, trovavasi che le genti della Chiesa erano state assai volte rocte. Nicolò Benci replicando più volte: Io mi maraviglio che la Chiesa sia stata tante volte rocta; dixe ser Nicolò: Et io non me ne maraviglio puncto. Perchè? dixe Nicolò Benci. Rispose: Perchè ella ha le finestre di vetro.

270.
Messer Nicolò Angèlio dal Bùcine, trovandosi con certi giovani da bene alla Trappola, castelluccio sopra el Valdarno assai sterile, dove, per carestia del companatico et della cena, ser Antonio delli Alberti [l’uno di quella compagnia) mercatava cacio cor un contadino del luogo; et non essendo del pregio con quel d’ acordo, dixe decto ser Nicolò: De ! non te ne curare, perchè sempre troppo costa el cacio che si mangia nella trappola!

271.
Essendosi maritata nella inclita città di Firenze una fanciulla nobilissima, et non mancho virtuosa che bella, per povertà, a uno giovane più riccho che virtuoso o d'assai, et nero, seccho, brutto et sparuto; vedendo Theodoro (1) una simile fanciulla a lato a uno simile mostro di natura, disse: Chi sarebbe che non ridessi, se vedessi quella cicala in su quel fico dimenarsi ! Anco motteggiando con alcuni giovani, disse: Voi volete che io pur dica, che lui parrà a dosso a lei una moscha in uno mortaio pieno di savore, o vero uno bufolo in su una montagnia di neve.
(1) Questo Theodoro, ricordato anche più innanzi, come già notai nella prefazione, è forse lo stesso possessore del codice.

272.
Anco diceva, ohe haveva conosciuta una fanciulla, la quale, la prima volta che carnalmente con lo huomo pecchò, sentendo lo piacere dello amoroso effetto, disse: Ohimè! io mi sento tutta consumare: cavatelo! cavatelo! cavatelo! perchè io voglio andare a pisciare. Et lo huomo, che non haveva ancor satisfatto alle sue voglie, a lei rispose: Piscia pur d'altrove, che, per hora, di qui non piscerai tu.

273.
Anco diceva haver hauto notitia di uno giovane, lo quale, havendo ( secondo si diceva) la sua masseritia assai più grossa et lunga che l’ordinario; usando con una femmina, forse vergine o semplicetta , che si rammaricava che lui li rimescolava insino le budella, li disse: Non dubitare; ma apri bene la boccha, acciò che elli tocchi insino alli denti et escha di quassù.

274.
Essendosi uno nobilissimo et ricchissimo nostro cittadino fiorentino in sua vecchiaia innamorato di una bellissima sua vicina, né possendo, doppo assaissimi presenti et imbasciate a lei mandate, ottenere lo suo desiderio, fattosi quella con li doni amica, prese ardire di dirle a boccha lo animo suo. Et quella li rispose: Se io ho a peccare, io voglio peccare con quelli, che, oltre alli premij, mi cavino le voglie. Ogni donna s'innamora più di uno giovane, che d'un vecchio.

275.
Essendo dimandato Theodoro, chi lui credessi che havessi maggior piacere della copula della carne, o la femmina o lo mastio, rispose: La femmina. Dimandato perchè, disse: Perchè In festa si fa in casa sua.

276.
Anco diceva, che era stato alli suoi tempi uno giovane, piccolo, brutto, sparuto et scrigniuto, lo quale, per essere di nobilissima famiglia, et sopratutto giovane solo et ricchissimo, si vantava che si era con li suo assai danari cavate tutte le sue voglie. Ma pure advenne, che innamorandosi di una bellissima et gentil donna nostra fiorentina, havendo lui usati tutti li mezzi si possono usare inverso le femmine, né essendoli giovati li presenti né imbasciate né lettere, sonetti o pistole, né alcuna altra humana arte o corruttione; ardendo sempre più dello amore di quella; quoniam nitimur inventum, et pensando semper cupimus quae negata, che le nobili et pudiche donne fussino come le altre (prosuntuosamente); in parte pure conoscendo la sua bruttezza non convenire con tanta bellezza, a lei disse: Alle donne sogliono pure venire di strane voglie. Et quella a lui rispose: Quella femmina haverebbe più che strana voglia, alla quale venissi voglia delli fatti tuoi.

277.
Il medesimo, havendo lungo tempo desiderata una altra nobilissima et bellissima giovane nostra fiorentina, né possendo in modo alcuno havere copia di quella, prese audacia di dire a quella: Io non viddi mai la più bella femmina di voi. Et quella a lui rispose: Et io non viddi mai lo più brutto huomo di voi. Et lui soggiunse: Le belle sogliono essere piacevoli et amorevoli. Et lei, sdegniosamente, con prudenzia, per levarselo totalmente d'intorno, a lui rispose: Si, ma non inverso di te.

278.
Lo medesimo passando da uno uscio, dove alcune gentil donne, per il caldo, stavano a coscie aperte, disse: Elli è hoggi festa, e queste donne tengono la bottega aperta. Et una li rispose: Non già per te.

279.
Martino Scharphi nobilissimo et prudentissimo homo della inclita nostra città di Firenze, essendo diventato assai corpulento, o vero havendo fatto del ventre una valigia maggior che corpo alcuno di sua età; essendo fuora di casa, et havendo bisognio di orinare, liberamente (vivendo nella età dell' oro), si ritirò per orinare in un canto. Onde uno semplice fanciulletto lo guardava; et lui ti disse: Fa' festa a questo mio membro disutile, perchè sono molti anni che io non lo ho potuto vedere, et dimi buone nuove delli fatti suoi .

280.
Lo medesimo, andando imbasciadore, et passando per Siena, essendo come ho detto di sopra corpulento, uno Sanese disse: Vedi quello Fiorentino, che porta la valigia dinanzi ! Et lui, come prudente, rispose: In terra di ladri bisognia far così.

 

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