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Eroda

I Mimiambi


Giovanni Setti
PROEMIO AI MIMIAMBI DI ERODA

SALUTE al poeta redivivo! Col favore di Apollo, il quale pur nelle sconsolate penombre dei regni inferi assiste i suoi alunni, egli ha rinavigato or ora la palude Stige, ed eccolo qui dinanzi a noi. Ha vinto il silenzio di venti secoli. E' una vera evocazione o resurrezione!
Ma chi è? A dire vero, non ha nome, così come ora, inatteso, ci si presenta davanti. Ma poiché il suo nome in quell'immenso naufragio di opere antiche, che all'animo di Giacomo Leopardi destava sì amaro rimpianto, non s'era perduto affatto, così egli se lo ritrova adesso, un po' incerto, fra i ruderi della povera tradizione e se lo ripiglia. Lasciando da parte il mito, il felice poeta esce, figura strana ed ignota, dalle misteriose tombe dell'Egitto, fide depositarie di memorie vetuste, le quali forse possono da un momento all'altro prepararci nuove sorprese. Guardate laggiù, oltre il delta del Nilo, oltre le famose piramidi di Gizeh, lungo le sabbie infocate del piano, tra i palmizi che ombreggiano le sponde del vecchio lago di Meride, a Fayoum: se vi preme di conoscere, a un dipresso il luogo, donde il poeta è risorto. I documenti preziosi della sua arte, affidati ad un mutilo papiro, hanno fortunatamente sull'ali della civile conquista attraversato il vecchio mondo dall'uno all'altro polo: e da Londra nel gennaio dell'anno passato corse prima la voce della geniale scoperta. L'occhio attento e sagace, che penosamente decifra le scialbe e lacere pagine, è sorpreso di risuscitare di tra quei segni malcerti ed evanescenti scene fresche e vivaci dell'antica vita: da quelle linee malsicure e confuse, che allo sguardo profano non altrimenti si rivelano che quali curiosi ghirigori, l'antica Grecia rivive in taluni de' più giocondi aspetti della sua storia reale. Una nuova luce, proprio inaspettata, ci rischiara tenebre, che credevamo inesorabilmente impenetrabili. Lode alla sagacia investigatrice dell'ingegno umano! Ma quelle scene ritratte sono una realtà vivente! Ma quei quadri o bozzetti, cosi fedelmente riprodotti dal vero, con quelle figure che amano e soffrono e sentono tutte, egualmente, il giogo dell'umano destino, hanno in sé, nella loro movenza drammatica, una verità psicologica che sgomenta ed impensierisce! Dunque l'arte antica non disdegnò la rappresentazione sincera e realistica dei momenti più comuni ed insignificanti della vita? Dunque sin d'allora la libera fantasia dell'artista non riconobbe freni al suo volo, e amò pure di scrutare, mentre spaziava nell'infinito regno del vero, la realtà più cupa e dolorosa? E noi che credevamo il realismo un trovato dei nostri tempi! Ha Emilio Zola precursori più antichi di quel che comunemente si creda.
Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
Non cresce, anzi si scema, . .
Noi siamo di ieri veramente. Dinanzi all'arte, che studia e coglie i tratti essenziali ed immanenti della umana natura, scompaiono le convenzionali divisioni di epoche e di civiltà: e le antiche passioni ed i vecchi ideali divengono ideali e passioni nostre. Nei nuovissimi carmi noi troviamo tipi e caratteri, che ci sembrano moderni addirittura. Cosi l'antichità, che poco prima ci aveva regalato un insigne documento della greca sapienza, ci esibisce ora saggi geniali d'arte che meglio non potevano rispondere al gusto del nostro tempo e a certe aspirazioni dell'arte contemporanea. Si tratta dunque di una novità vera e propria. Neppur questa volta si può dire, che la fortuna sia sempre cieca.
*

I nomi dei poeti hanno in sé ragioni di più felice vitalità, e sfidano il tempo meglio di quelli di re e di imperatori. Non si era smarrita del tutto, in duemila anni e più, la memoria di un certo Eroda od Eronda. Ma chi era egli? Quando era vissuto? Forse era stato contemporaneo di Ipponatte o di Senofonte o di Teocrito? Dove era nato? Nella Magna Grecia o in Sicilia o nell'Asia Minore? Malfermo il nome nella sua precisa grafia, la figura ondeggiava incerta nel tempo e nello spazio, tra i secoli VI e III avanti Cristo; e vagava, come ombra, tra le colonie greche della bassa Italia o della Sicilia e le isole dell'Egeo... Che cosa conservavamo della sua poesia? Qualche titolo di mimo: Molpino, Le donne che lavorano insieme, Il Sonno; e qualche tenue frammento: dieci in tutto, i quali davano in complesso una ventina di versi. Tanto dovevamo per la maggior parte ad un tardivo compilatore: a Stobeo, noto autore di un prezioso Florilegio.
Ecco qui un saggio di queste reliquie fortunate:
«Come avrai toccato la mèta del sessantesimo sole, muori o Grillo, Grillo, e diventa cenere; poiché buia è l'ulteriore curva dell'età, e già il lume dolce della vita vien meno».
Un'altra diceva:
«No, no, figliuola mia: non ti far saltare così d'un tratto la mosca al naso per una parola avventata. È da donna dabbene il tollerare ogni cosa».
Oppure:
«La mia donna, i capelli bianchi fanno rimbarbogire!»;
«.... perché abbia a versare le lagrime di Nannaco...»;
«Via, menalo all'ergastolo!».
Che cosa aveva egli scritto? Dei mimiambi soprattutto: che è quanto dire, dei mimi in forma giambica; ed anche degli emiambi. Doveva al suo tempo aver goduto di un certo favore: almeno stando alle lusinghiere testimonianze di Plinio il Giovane e di Terenziano Mauro. In verità non si può dire, che ne sapessimo molto sul conto di lui. Invano insigni filologi, tedeschi ed inglesi, avevano tentato di sollevare il velo, che involgeva malauguratamente l'arguta e geniale figura: degni d'essere qui almeno menzionati lo Schneidevvin, il Brink e lo Hanssen. Ma a che s'era riuscito? A capire appena, che poi tanto antico questo Eroda o Eronda non poteva essere: che doveva essere dell'età alessandrina. Si sospettava, che i suoi carmi fossero del genere dei coliambi di un Fenice colofonio o di Asclepiade, dei mimi di Teocrito. In tutto questo non si sbagliava molto, ma si era in un puro campo di ipotesi. I1 Susemihl, che era stato l'ultimo a parlarne nella sua storia letteraria dell'età alessandrina, ne parlava, or è l'anno, con un riserbo che fa davvero meraviglia. Lo dice «di incerta età», pur accennando alla probabilità che fosse contemporaneo di Teocrito e di Callimaco; e quanto alla patria non vi accenna neppure. È registrato fra Teocrito e Fenice da una parte, e Mosco e e Bione dall'altra.
La nostra conoscenza storica e letteraria per riguardo ad Eroda era a questo punto, quando l'anno scorso la nostra buona sorte ci ha fatto imbattere nel famoso papiro egizio­londinese.
*

La biografia dello scrittore non si avvantaggia gran che dal fortunato ritrovamento: ma intanto è un poeta nuovo, che ci si rivela: ed un poeta arguto, spiritoso, verista. È insomma una nuova stella, che rifulge sull'orizzonte della poetica idealità. Ringraziamone gli dèi dell'Olimpo, tanto benigni a questa fin de siècle,
al quale incombe
tanta nebbia di tedio,
da consolarci ancora con l'eco della voce dei padri nostri!
Ma poi anche i contorni dell'uomo si vanno via via determinando meglio. Il nome del nuovo poeta s'ha a riconoscere nella forma più probabile, se non certa, di Eroda. I1 poeta è di certo del secolo di Teocrito: solo è alquanto più giovane del siracusano. Un accenno storico, inserito incidentalmente in uno di quei mimi, consente di fissare l'età del fiorire di lui intorno al 250 o 240 circa avanti Cristo. Visse dunque a, tempi dei primi Tolomei: durante il regno del Filadelfo e dell'Evergete. Quanto al luogo di nascita, è forza rinunciare all'idea di una origine italiota o siciliana: riconducendoci quelle sue scene alla Grecia insulare ed asiatica. Se egli non è proprio di Coo, dovette per lo meno dimorare qualche tempo in quella fertile e gentile isola, che appunto allora era centro glorioso di cultura, e vide accorrere alle sue liete spiagge Teocrito ed Apelle, Fileta e Nicia, Arato...; deliziosa terra dell'Egeo, mentovata da Omero, e celebrata in tutta l'antichità per i suoi vini ed unguenti, per le fini mussole ed i vasi leggiadri, per l'illustre scuola medica fondata da Ippocrate, e per l'insigne tempio di Esculapio, in cui le genti, estasiate, ammiravano la Venere Anadiomene di Apelle... Eroda, nato un po' tardi per sentire il fascino delle vecchie leggende mitiche o eroiche, e come i Greci in generale non accessibile agli incanti ineffabili della natura eterna, si piacque meglio di ritrarre le scene popolari della vita quotidiana, avvivando la rappresentazione di un arguto senso di umorismo. La vita greca di quelle società d'allora sembra che fosse corrotta e raffinata parecchio. I facili approdi e gli scambi commerciali, almeno per il gruppo di quelle Sporadi che prospettano, a cosi dire, le coste dell'Asia e sono come attratte nell'orbita di quei golfi ed istmi e promontori, dovettero ben presto far affluire la ricchezza e la prosperità tra quelle genti della più sana ed operosa stirpe dorica. Le ricchezze promossero le industrie indigene, e con la dolcezza del clima contribuirono a dare ai costumi quel carattere di sensuale mollezza che si può anch'oggi ravvisare nelle consuetudini dei popoli orientali. Coo poi, che giace dirimpetto alla Caria ed è da uno stretto canale separata dalla penisola di Alicarnasso, aveva in sé tutti gli elementi per svolgere una condizione civile, di cui possono anche far fede le iscrizioni recentemente pubblicate. Anche oggi Stanko vede passare accanto alle sue erte scogliere i battelli che da Smirne e Chio vanno in Siria.
A interpretare e illeggiadrire condizioni siffatte di vita doveva l'arte piegarsi a forme semplici e facili. L'ispirazione poetica affievolitasi nel corso dei secoli si contentava ora d'esprimere nel breve àmbito dell'epigramma o dell'idillio o dell'egloga l'idea erotica, il capriccio galante, il senso frivolo, l'ideale sereno e romantico che commoveva gli animi. Così pittura e scultura s'erano acconciate alla riproduzione di soggetti tenui e graziosi, dando origine a quelle forme d'arte, così dette di genere, che soddisfa in gran parte anche oggi ai nostri bisogni spirituali. Conscio di questi gusti ed ideali, Eroda ripiglia la forma del mimo, che già nell'età classica aveva avuto un insigne cultore in Sofrone, cui Platone rese alta testimonianza di merito; abbandona a Teocrito l'esametro che aveva incominciato col cantare gli dei, gli eroi ed i re, cioè i pastori di popoli, e aveva finito per cantare i pastori reali di mandre e di greggi; e rimette in voga il coliambo, ricollegandosi così in certa guisa, degli antichi, ad Ipponatte ed Ananio. Ai contemporanei non dispiacquero questi bozzetti sceneggiati, che a poco a poco venivano a sostituirsi alla maggiore rappresentazione della commedia o del dramma. Menandro era morto da un pezzo, e con lui s'era spenta l'ultima e la maggiore forma d'arte che i Greci avessero creato. E da un pezzo s'erano allogate sulla scena quelle forme ibride e degenerate, che furono le ilarotragedie e le farse. Non restava ormai più, che le Muse, inorridite, disertassero del tutto il teatro. Non mancò quindi il favore alla geniale opera di Eroda; ed egli stesso si compiacque delle sue argute invenzioni. A noi piace di sentirlo, consapevole alla pari di Archiloco, di Anacreonte, di Ennio e di tanti altri poeti, della gentile virtù de' suoi carmi, intonare il non omnis moriar di Orazio, mentre canta:
«[avrò] gloria, per la Musa: sia ch'io componga dei giambi...,
sia che m'industri a far risuonare all'orecchio dei discendenti
di Suto li strani accenti ipponattèi».
La lusinghiera speranza, che egli concepì circa le sorti avvenire del suo nome, ha un tardo ma felice compimento oggi, grazie alla gelosa custodia degli ipogei egizi ed alla illuminata valentia dei filologi inglesi che primi lo rivelarono. La profezia si è oggi fatta realtà.
*

Come l'Inghilterra sia venuta in possesso degli insigni testi nuovi, noi non sappiamo. I1 fatto è, che noi dobbiamo alla sua sagace attività commerciale e civilizzatrice questa che è la più recente e maggiore scoperta letteraria del secolo. Fosse vivo il Leopardi, egli ci ricanterebbe ora a maggior ragione la famosa canzone ad Angelo Mai! Giustamente i nuovi papiri, che oltre la Costituzione di Atene aristotelica ed i Mimiambi di Eroda contengono frammenti di altri autori greci, sono andati ad arricchire quel British Museum, che per la qualità di certi cimeli si può proclamare la più insigne collezione antiquaria del mondo.
Il papiro che contiene l'Eroda era in un sol rotolo: lungo m. 4,50 circa ed alto m. o,12. Comprende 41 colonne, di un numero di linee che varia tra le 15 e le 19. Vi manca la fine: e sebbene sia qua e là svanito o róso, pure si può dire relativamente abbastanza ben conservato. Anche è scritto abbastanza correttamente: la scrittura è onciale; e, secondo il Kenyon, risalirebbe al II o III secolo dell'èra nostra. Non ci mancano però né gli errori né le interpolazioni: un'ignota mano ha emendato il testo qua e là. È anepigrafo ed anonimo: oscuro il nome dell'amanuense, quello dell'autore si è potuto scoprire e identificare, ricorrendo tra quei versi ben cinque dei frammenti erodiani superstiti. L'importantissimo manoscritto ha ricevuto nella serie diplomatica del museo londinese il numero d'ordine CXXXV.
Esibisce non più di sette componimenti o poemetti, che fino ad un certo punto si possono dir interi. Quelli che meno hanno sofferto le ingiurie del tempo o della sorte sono il 3°, il 4° ed il 5°. I1 1° ha una piccola lacuna verso la metà, e qualche guasto alle ultime linee. I1 2° è avariato nel principio, per un tratto di sedici versi dopo i primi quattro. I1 6° ha la chiusa malconcia: per un tratto però soltanto di sei righe. Maggior iattura ebbe a soffrire il 7°: il quale, dopo i primi sette versi ne ha una quarantina variamente mutili. Di altri due mimi (8° e 9°) non si hanno, oltre i titoli, che povere reliquie. Il sogno e Le donne a banchetto sono due nuovi titoli, da unirsi ai tre sopra citati, che conoscevamo già: e così si ottiene con quelli dei mimi ora scoperti una somma di dodici titoli o soggetti. Scrisse dunque il nostro Eroda una dozzina almeno di poesie giambiche: se, e quante più, non possiamo dire. Secondo il Crusius, la parte salvata e recuperata rappresenterebbe appena la metà dell'intera silloge.
La prima edizione del testo erodiano corredata di facsimili fu procurata l'anno scorso dal Kenyon, che era nome da breve tempo universalmente noto. Presto tenne dietro a quella principe una nuova edizione del Rutherford. Una terza edizione, olandese, si dovette, pur essa assai sollecita, alle cure dell'Herwerden. Intanto in Germania Francesco Bücheler divulgava la quarta edizione, che ha già avuto l'onore della ristampa. È corredata di una versione latina, semplice e letterale, la quale si deve segnalare come la prima traduzione di Eroda. Una quinta edizione si sta apparecchiando per la biblioteca teubneriana lipsiense da O. Crusius.
Contemporaneamente alle edizioni, comparivano in periodici e giornali annunzi, saggi, postille, articoli, monografie divulganti la conoscenza del nuovo poeta. La prima e più necessaria cura fu naturalmente rivolta a leggere il manoscritto più fedelmente che fosse possibile, a sanarlo e ricostruirlo, dove fosse incerto o lacunoso, e di
queste critiche fatiche il nuovo testo ha bisogno grande ancora, e ne avrà chi sa per quanto tempo. Già i tentativi di emendamento e di ricostruzione sono copiosi, e mettono a mal partito la diligenza del traduttore: il quale non solo ha da informarsi sollecitamente di ogni nuova proposta, ma con critica disamina vagliare e scegliere e rifiutare il vario contributo scientifico. A titolo di onore ci sia lecito di qui rassegnare i principali nomi di benemeriti filologi europei, alla cui dottrina paleografica, ermeneutica e critica dobbiamo una sufficiente interpretazione del testo. Oltre il Kenyon ed i signori Scott e Warner che l'assistettero, il Rutherford, l'Herwerden, il Bücheler che già mentovammo, dobbiamo citare l'Headlam, il Blass, il Weil, il Nicholson, il Sandys, il Jebb, il Kaibel, l'Ellis, il Tyler, il Jackson, l'Hicks, il Diels, il Piccolomini, il Bonghi, lo Stadtmüller, il Wilamowitz, il Crusius, lo Zielinski, il Blümner, lo Stahl, l'Immisch, il Mekler... e si omettono moltissimi altri. Le più notevoli monografie od illustrazioni letterarie d'Eroda, con saggi più o meno copiosi di traduzioni, sono quelle del Reinach: Hérodas le mimographe; del Weil: Les Mimiambes d'Hérodas; del Diels: Üeber die Mimiamben des Herodas u. ihre Beziehung zur alexandrinischen Kunst; del Bonghi: I mimi di Eroda, e La donna un venti secoli fa; del Piccolomini: I carmi di Eroda recentemente scoperti; e finalmente un anonimo: Il giambografo Eroda e i suoi nuovi carmi. Una notizia de l'ultima scoperta letteraria divulgò fra noi Giovanni Zannoni; un puro saggio dai mimiambi di Eroda dètte ai lettori italiani domenicali Giuseppe Morici. Ultimamente il Susemihl, licenziando alla stampa il secondo volume della sua opera, già da noi citata, credé opportuno di inserire in fondo al libro una nota su Eroda, come aggiunta o supplemento al volume primo. Infine dei vari contributi scientifici e critici, più particolarmente filologici, ragguagliò con pronta diligenza G. Müller in diversi fascicoli della nostra filologica rivista.
Traduzioni, oltre la citata latina del Bücheler, non so che sieno uscite ancora; ma non tarderanno molto ad apparire, e in varie lingue. Forse questa nostra sarà la prima che vegga la luce in Italia. È prevedibile, che al geniale mimografo non sieno per mancare i traduttori. Poi verranno i commentatori con le dichiarazioni singole e speciali: hanno già inaugurato la serie con le loro note acute ed erudite l'Herwerden ed il Bücheler. Ma che "verranno"? Correggevamo questi fogli, quando ci giunse un vero e proprio commentario: le Untersuchungen zu den Mimiamben des Herondas di O. Crusius, importantissime. Insomma, fra non molto avremo una vera e propria letteratura erodiana.
*

I sette componimenti poetici, che noi presentiamo tradotti in questo volumetto, sono di varia estensione: rispettivamente di 90, di 102, di 97, di 95, di 85, di 102 e di 129 versi. Settecento versi in tutto: di un altro centinaio circa, toltine appena una ventina, si hanno nel papiro tenuissimi resti. Si tratta dunque di scenette relativamente brevi: veri idilli nel senso antico della parola, o meglio, bozzetti. La piccola azione svolgesi sotto la forma del dialogo: pochi gli interlocutori od i personaggi della scena: due o tre con qualche figura muta. I versi sono coliambi: cioè trimetri giambici con lo spondeo al sesto piede. Per tal guisa il ritmo di siffatto metro, regolare per i primi piedi, muta bruscamente poi nell'ultimo, sì che pare zoppichi (scazonte). «L'andatura di simili versi ­ avverte un uomo versatissimo in materia ­ somiglia a quella di un uomo, che dopo aver fatto alcuni passi regolari inciampi per un urto improvviso e mal si regga in piedi. I1 verso adunque produce un effetto ridicolo e nello stesso tempo si accosta alla prosa». Non è mestieri dire, con quanta artistica opportunità Eroda scegliesse questo metro, che già aveva servito ad esprimere le virulente e beffarde invettive di un Ipponatte o di un Ananio, per le sue rappresentazioni realistiche e lievemente umoristiche. Dall'altra parte esso s'accosta molto alla prosa e al dialogo familiare: così che anche le fini ragioni del gusto e dell'arte son rispettate come non si poteva meglio. I1 dialetto è ionico: il poeta anche qui, sebbene egli fosse dorico di stirpe, adotta la forma tradizionale, in cui s'erano prodotti i generi poetici minori della elegia e dell'egloga, e che più si addiceva al carattere generale del pubblico per cui scrive. Egli è tutto intento, con una cura scrupolosa non superata dagli odierni romanzieri veristi, a riaccostare l'arte sua alla realtà: sì che vita e poesia si compenetrino e divengano una cosa sola. A rendere nelle più lievi particolarità il carattere popolare del dialogo fin nella pronunzia, il poeta fa un uso frequentissimo di elisioni e di crasi, di sineresi e sinizesi. Tutto ciò è documento del suo squisito senso artistico.
Vari gli argomenti dei mimi (vere imitazioni o riproduzioni dalla realtà): tutti però attinti alla consuetudine comune della vita domestica e popolare. Uno varia dagli altri per quel che è finzione rappresentativa: voglio dire, la forma stessa letteraria, che è quella dell'orazione. Due rivelano nella identità dei personaggi e nella qualità del soggetto una specie di continuità o legame: sono come due scene successive, due momenti di una stessa azione. Gli altri son quadretti a sé: e per la qualità dei soggetti veramente curiosi e interessanti. Gli sfondi delle scene sono appena segnati o delineati: quel che sta a cuore al poeta è la naturalezza, la verità e la vivacità delle figurine che in un modo del tutto drammatico ci mette sotto occhi. E così è semplice l'intreccio, che si compone e si svolge, si direbbe, da sé, quasi senza la cooperazione dell'artista, il quale è nascosto dietro alle sue singolari invenzioni. Son le cose che si muovono e parlano: la realtà vivente, che in piccoli quadri il poeta ha colto con rapidità istantanea e collocato davanti agli spettatori. I quali hanno appena tempo di meravigliarsi di quella immediatezza di rappresentazione artistica: trasportati come sono, per tal guisa, proprio in medias res.
*

Ecco qui la raggiratrice o mezzana (n. I). La scena ha luogo, secondo le plausibili congetture del Reinach e del Weil, nell'isola nativa del poeta. Immaginiamo una casetta semplice e borghese... e basta: che una maggior determinazione topografica sarebbe arbitraria. Si sente picchiare all'uscio. La schiava va ad aprire. Chi è e chi non è. Gillide entra, e si mette a conversare con Metrica, che è una donna come un'altra. Segue il solito cicaleccio vano, convenzionale, futile, che accomuna gl'incontri o le prime visite di tutti i tempi e di tutti i luoghi. A1 lettore moderno vien subito in mente Teocrito, che fra i suoi idilli ha un vero e proprio mimo, Le Siracusane, il quale si apre allo stesso modo:
GORGO
C'è Prassinoe?
PRASSINOE
Ci sono: perché sei venuta sì tardi? Non t'aspettavo più a quest'ora bruciata. Una scranna, Eunoe, con un cuscino.
GORGO
Non fa di bisogno.
PRASSINOE
Via, siedi.
GORGO
Oh, c'è voluto il mio coraggio! Non so come ho fatto ad arrivar qui salva fra quella gran calca, quel via­vai di cocchi. Per tutto c'è crepide e clamidi: è stato, credi, un viaggio: sai che stiamo di molto lontane! .....

Si direbbe, che la vecchia megera sia capitata li a caso. Invece è venuta a tentare la virtù e fedeltà della buona Metríca, la mala consigliera! La serena figura di Teocrito riappare di nuovo agli occhi del lettore, quando Gillide, parlato del marito lontano che è in Egitto, celebra la gaia prosperità e le seduzioni incantevoli che la regione fruisce sotto il provvido regno dei Tolomei. È lo stesso motivo, quasi senza variazione: le stesse lodi celebrano nei due poeti il sovrano, sia esso il Filadelfo o l'Evergete. Basti anche qui segnare soltanto il riscontro. Dice un idillio teocriteo:
E non v'ha terra
Tanto feconda, quanto l'imo Egitto,
Quando il Nilo trabocca e la bagnata
Zolla risolve; e non v'ha re che tante
Abbia città d'industriosi artieri... ecc. ecc.
Sentiamo il nostro Eroda:
«... Tutto quello che mai di buono v'ha sulla terra, in Egitto c'è: ricchezza, palestre, fasto..., il buon re.... Ogni ben di Dio quanti ne vuoi... ecc. ecc.».

L'onesta donna non cede né alle lusinghe, né alle maligne insinuazioni, né ai franchi incitamenti: e cosi la morale è salva. Dico questo, non per manifestazione di senso puritano: noto soltanto la cosa, perché altri non pensi subito che il poeta nostro si dia la briga di fare il moralista. Tutt'altro! Egli ritrae qui una moglie virtuosa, come più avanti ci dipingerà la libera improntitudine d'un lenone, la spietata inumanità d'una madre o le smanie febbrili d'una padrona gelosa. Quel che piace è la evidenza e sobrietà e naturalezza della squisita pittura. Del resto il motivo non è (né vuol essere) originale o peregrino. I1 mio bravo Morici ha qui molto opportunamente richiamato un gentile epigramma di Amaru (un poeta erotico indiano, il quale è forse più antico, ma che si può pur immaginare sia contemporaneo di Eroda), nel quale è presso a poco la stessa situazione. Mette conto di qui riportarlo:
«O grulla: che ti giova passar tutta la vita nella tua sciocca idea? Scuòtiti, decíditi: caccia via gli scrupoli, o cara». Ma alla amica, che così la sollecita, risponde la fanciulla in viso spaurita: «Parla piano - ella dice -: ché non ti senta il signore dell'anima mia, che è qui nel mio cuore».
Io potrei anche addurre un epigramma di Asclepiade: in cui il malo invito, fatto ad una giovane, è fondato su argomenti del più libero ed audace epicureismo. I1 motivo, svolto con più abbondanza di particolari e vivacità di colorito, si incontra a sazietà nei novellieri nostri del Cinquecento: con questo divario peraltro, che la donna non sempre resiste, né la ruffiana fa di solito «un buco nell'acqua». Veggansi, ad esempio, le novelle del Bandello, del Fortini, del Giraldi...; io non voglio ricordare che una di Giustiniano Nelli, autore senese della prima metà del secolo XVI: nella quale Giulio, giovane (il Grillo del mimo nostro), innamorato pazzo di Metrìca... voglio dire, di Angelica moglie di Aurelio, spedisce a costei una Gillide esperta e famosa: una Bonda bigottona, la quale «aveva la gioventù nei servigi d'amore spesa».
*

Col Padron di bordello (n. II) si lascia la modesta casetta di un villaggio o di un sobborgo, e si passa in un tribunale di città. Assistiamo ad una vera arringa o requisitoria: l'accusa è di violazione di dimora e maltrattamento. «O giudici, voi non dovete... ecc.». È Battaro, che dinanzi ai caporioni del paese (siamo nell'isola di Coo) difende risolutamente i suoi diritti contro la prepotenza di un forestiero, un villan rifatto, un mercante di granaglie, arricchitosi nel commercio, soprannominato Talete: il quale, di notte entrato nel bordello, ha rapito al padrone una di quelle inquiline. La scena giudiziaria è rappresentata in tutti i suoi particolari realistici: ci sono i giudici, l'accusato, l'accusatore, più il cancelliere, il quale a suo tempo dà lettura degli articoli di legge. La clessidra segna l'ore.
«Se un libero bistratti una schiava o la seduce, facendole violenza, pagherà doppia la multa della querela».
Par di leggere uno squarcio della insigne iscrizione di Gortyna, edita ed illustrata dal Comparetti:
«Se alcuno usi violenza carnale ad un libero o ad una libera, pagherà cento stateri...; se un servo ad un libero o ad una libera, pagherà il doppio ecc.»
A1 Weil questa singolare orazione parodica ha richiamato in mente quella ­ nientemeno ­ di Demostene contro Midia. Dice Demostene:
«L'oltraggiosa baldanza, o giudici, che Midia usa sempre contro tutti, credo non sia ignota ad alcuno di voi e degli altri cittadini... ecc.»
Più ovvio e faceto riesce il parallelo con Iperide: ché alla fine anche il nostro Battaro (un Iperide da strapazzo!), a commuovere gli animi dei giudici, mostra loro la sua Frine: una femmina questa di assai peggior conio, che non fosse la famosa etèra antica. Tanto il Weil quanto il Crusius esaltano questo come il più bel componimento della piccola silloge: Battaro ­ soggiunge il Weil ­ vale il Ballione di Plauto. Non credo, che il giudizio sia in tutto vero: certo questo secondo mimo, vario di intonazione, ora visibilmente austera ora sfacciatamente plateale, ha più d'ogni altro una esilarante vena d'humor. I1 poeta inoltre è tutto volto a ritrarre fedelmente quel che si dice l'ambiente in tutta la sua verità: e fin quei nomi artisticamente foggiati di Battaro (una specie di Tartaglia), di Sisimbra e di Sisimbrisco hanno la loro particolar significazione conveniente...: senza dire dello strano contrasto che fanno coi nomi venerandi di un Minosse o di un Caronda. Senonché per me quella scena della commedia latina in cui il cinico ruffiano, sfruttatore indecente dei vezzi delle sue donne, è messo di fronte a quell'ingenuo Calidoro, combattuto dall'amore e dalla miseria, è di un realismo e di una comicità inarrivabili. Ma usciamo ormai da tutto questo ambiente di aria malsana e fetida.
*

Il maestro di scuola (n. III) è un soggetto singolare ed anche nuovo: almeno nella poesia greca che noi conosciamo. Scene di scuola invece non mancano figurate sui vasi o pareti. Diciamo subito, che il quadro messoci innanzi da Eroda non è molto confortante. Vi campeggia, per sua mala sorte, un monello di ragazzaccio, Cottalo di nome: il quale lì in presenza dei suoi compagni, fustigato di santa ragione, riceve il premio delle sue scapestrate monellerie. I1 guaio è che alla scena brutale è spettatrice la madre: una donna ritratta alquanto duramente, dalle viscere non tenere e seguace della massima che la madre pietosa fa la piaga cancrenosa. È essa, che con le sue spietate ragioni alimenta e rinfocola l'attività del nerbo in mano del maestro: il quale è alla sua volta un tipo un po' forte, un vero precursore del plagosus Orbilio oraziano. A siffatto metodo di pedagogia antica, rimasta viva per secoli e purtroppo non scomparsa ancora da certe aule di scuole rurali, si deve quel senso di ostile paura o inimicizia che regola tuttavia i rapporti di pedagogo e discepolo. Che il mondo, anche per questo rispetto, non sia mutato molto da tre o due secoli avanti Cristo a diciannove o venti dopo, fa fede un sonetto romanesco del Ferretti, citato al proposito dal Bonghi «perché rassomiglia tanto a questo poemetto di Eroda». Io ne riferirò soltanto la chiusa, la quale è davvero spiritosa e gustosa:

E si Dio guardi, nun vo' fa' er dovere
de casa, voi, sor maestro, menate!
Menate! ve lo chiedo pe' piacere.
Er nerbo!... com'usava a tempo nostro;
m'arricomanno, sor maestro: fate
conto come si fussi un fijo vostro.

I1 Rutherford volle collocare l'azione del mimo a Cizico; ma il Crusius dimostra che tutti gli accenni stanno invece, anche qui, per Coo.

*

Passiamo in più spirabil aere. Senza peraltro lasciar l'isola egea. Ecco qui, nel sobborgo della città, il famoso tempio del Dio della salute. Vi sono entrate or ora alcune donne, che stan dedicando e sacri/icando ad Esculupio (n. IV). Silenzio: esse pregano.

«Salve, o re Peane: che imperi su Tricca e un dì abitasti la deliziosa Coo ed Epidauro... ecc.»

Simile invocazione abbiamo in un frammento di Ananio, pure in versi coliambici:

«O Apollo, che tieni Delo o Pitona o Nasso o Mileto o la divina Claro, vieni... ecc.»

Esse sanno, che al dio si suole sacrificare un porcello: ma povere, come sono, offrono, alla pari di Socrate, un gallo. Compiuta la devozione, le due donne, Cinno ed un'altra innominata, seguite dalle loro ancelle, si mettono in giro pel tempio ad ammirare le sculture, le opere d'arte, i voti che l'ornavano. Ammirano: «O come è bella questa, come è graziosa quest'altra...» son le espressioni che escono loro dal labbro, mentre osservano a destra e a sinistra. Quel che le colpisce, è la naturalezza e la evidenza «viva e parlante» di quelle imagini. Piacciono le effigie o statue divine, ma più piacciono i lavori vari di genere: proprio anche nelle arti plastiche o figurative il gusto del tempo. Le formule della loro intima compiacenza sono semplici e uniformi: par di leggere i cento, i mille epigrammi dell'Antologia greca, in cui con poca originalità il poeta esce in siffatte espressioni: «quella Venere parlerà», «quella statua è spirante», «quel toro o quella vacca mugghieranno» e simili. Nel nostro mimo son mentovati di artisti «i figli di Prassitele» ed «Apelle»: con una consueta frase epigrammatica anche di questo artista è detto che «non mente la natura». Fra le varie opere d'arte che vi si menzionano è notevole quella del «putto che strozza un papero»: gruppo noto, ricordato anche da Plinio il Vecchio, opera di un certo Boeto, e di cui si ha una bella riproduzione nel museo Capitolino. Nella storia dell'arte è tipica, come saggio dell'arte di quel secolo. Ma come mai non è mentovata la famosa Venere Anadiomene di Apelle? Uhm! Nessuno sa dirlo. Anche le siracusane di Teocrito, che lasciammo ad Alessandria intente ai loro frivoli chiacchiericci, uscirono di casa e fecero, più che lungo, uggioso cammino tra la folla, sino al tempio dove la regina Arsinoe aveva preparato una festa in onore di Adone. Anch'esse stanno entro il tempio e ammirano. Tutto le nostre donne erodiane!

GORGO
Guarda, Prassinoe, guarda, che arazzi superbi! la tela paion d'Aracne, paion trapunti da mani divine.
PRASSINOE
O veneranda Atena, or quai tessitrici han potuto
tesserli? quai pittori dipinger sì vive figure?
Vengono, stan, si movono: oh no, non son cose tessute,
son creature vive, parlanti: che mai non può l'uomo?

Una siffatta esposizione di opere d'arte, accompagnata dal coro monotono di quelle epifonetiche ammirazioni a lungo andare riuscirebbe stucchevole. E per vero dire, il soggetto del mimo è in sé ben poco drammatico. Ma d'altra parte osserva il Crusius, che motivi siffatti si trovavano già nella tradizione di questo genere letterario: non solo Sofrone, ma anche Epicarmo aveva messo in voga simile forma per svolgere la descrizione dei tesori artistici conservati in celebri templi o santuari. Epicarmo anzi avrebbe nei suoi Visitatori rappresentato, secondo Ateneo, una visita ai doni votivi di Delfo. Comunque sia, a variare un po' l'argomento il nostro Eroda ricorre ad un espediente che egli predilige: nel più bello immagina che Cinno interrompa la sua artistica esposizione per dare all'ancella una lavata di capo con tutte le regole:
«... Cidilla, va, e chiama il custode. Con chi parlo? E stai lì a bocca aperta? Uff! Non ti spicci a fare quel che ti dico?... ecc.»

Non altrimenti nell'idillio teocriteo garrisce la padrona alla serva:

Festa è sempre per gli sfaccendati.
Eunoe, portami l'acqua: non far quelle smorfie; su via,
mettila qui nel mezzo. Vorrebbon dormir nel cotone
anche le gatte. Presto, su, moviti: l'acqua, qua l'acqua
prima di tutto. Dammi il sapone; da, qua; basta, basta.
Or versa l'acqua; oh! brava! perché m'hai bagnata la veste?

Concludendo, come arte questo mimo è forse e senza forse il più fiacco e il meno colorito: ma è invece poi molto interessante per la storia dell'arte ellenistica.
*

La scena del quinto mimo è, si può dire, occupata tutta da un carattere di gelosa (n. V), che al Piccolomini parve (e giustamente) il meglio dipinto. I1 poeta non ci fa saper nulla di questa Bitinna, tutto intento com'è a ritrarre la passione amorosa della donna, la quale non sa darsi pace che un suo schiavo, Gastrone (come se noi dicessimo Pancione), sia infedele verso di lei a causa di una schiava. Più il povero disgraziato, reo o no, s'atteggia a vittima, e più s'acuisce nel petto della donna il feroce furore. Poi quando essa ha dato fuori in terribili minacce ed in comandi spietati, allora incomincia il dibattito angoscioso e sanguinoso dell'anima. È inutile riaddurre qui a commento della situazione scene analoghe: troppi esempi e documenti esibirebbe al proposito l'arte antica e l'arte moderna, che dalla grande passione d'amore è tutta quanta agitata come da un soffio gigantesco di bufera. Dato il concetto antico della schiavitù, il povero Gastrone fa la più compassionevole figura dinanzi alle smanie rabbiose di quella padrona sensuale e passionata, la cui fantasia eccitata si sbizzarrisce nell'inventare nuove forme di tortura. Tanto lo schiavo era una cosa: così in Grecia come a Roma, è fatto segno, nel fermento della indignazione, alle più crudeli minacce e pene. Nelle Rane aristofanesche Santia, arrogatisi i diritti di padrone verso Diòniso che ha indossato gli abiti di schiavo e dinanzi ad un servo di Plutone (la scena è nell'Averno), ordina che del pusillanime dio si faccia il più spietato governo:
SERVO DI PLUTONE
E come l'ho da torturare?
SANTIA
In tutte le maniere: tu legalo alla scala,
e sospendilo, e dàgli lo staffile,
e scorticalo e torcigli le membra,
e poi versagli aceto nelle nari,
e opprimi le anche di mattoni, e infliggigli
qualunque altro tormento...

In Roma il rigido concetto del dispotismo rincarò la dose alla efferatezza dei popoli orientali: e basta scorrere Plauto, per imbattersi ad ogni scena in ordini severissimi di maltrattare i poveri servi. C'è un repertorio svariatissimo di penalità di cui sono esecutori i lorari od aguzzini: dalla fustigazione alla marchiatura bollente, alla incisione anatomica, all'impiccagione della forca o della panca o della gualca. Valga per tutte le altre l'ultima scena dello Smargiasso: la quale riferiamo brevemente qui perché illustra questo quinto mimo non meno che la seconda parte del terzo.
PERIPLECOMENE
Conducetelo fuori: se non vien colle buone, portatelo di soppeso, su in aria, tra cielo e terra: squartatemelo.
FRACASSA
Pietà, Periplecomene.
PERIPLECOMENE
Inutile .... Prima sia frustato ben bene.
CARIONE
Volentierissimo ....
FRACASSA
Aspetta che dica.
PERIPLECOMENE
(Agli aguzzini) Animo, che fate? ... . . . . . . . . .
FRACASSA
Ahi! ahi! ne ho avute abbastanza: pietà, misericordia.
CARIONE
(Agli aguzzini) Dategliene un'altra dose, e poi si lasci andare ....
AGUZZINO
Lo picchio ancora?
FRACASSA
Misericordia! son maturato dalle percosse.
PERIPLECOMENE
Scioglietelo!

Per fortuna non di rado, sbollita l'empia collera, le minacce rimangono minacce, e le vane parole se le piglia il vento. Così è nel caso sopracitato della commedia latina, cosi è nel caso del mimo erodiano. Bitinna, dopo aver dato ordini e contrordini, dibattuta dalla rea passione, i cui vari momenti son ritratti dal poeta con gran verità psicologica, finisce con l'arrendersi...: un senso umano di pietà, provocato in lei dalle intercessioni della amata ancella, la quale le ha saputo destramente richiamare alla mente l'immagine soave della diletta figliola, la invade ad un tratto; e la scena si chiude con una fievole voce di non temibile minaccia.
*

Ritorniamo in compagnia di donne che amichevolmente e intimamente conversano (n. VI): chiacchiere qui ancor più vacue, frivole... in fondo salaci. Una donna, Metro, va a far visita ad una sua amica, Coritto. Seggono: ma prima la padrona deve fare una ramanzina alla serva pigra e scioperata. La conversazione, dopo essersi diffusa discretamente sulla sorte trista che fa alle padrone la scioperataggine di quelle povere innominate (anche qui par di assistere a scene moderne), piglia una mossa più spigliata e interessante. Anche oggi in simili casi le prime riflessioni s'aggirano intorno alla toilette o alle mode o a siffatte frivolezze. Non ci abbandonano neppur qui quelle siracusane teocritee, alle quali dovevamo sino ad oggi l'unico esempio di mimo antico. In verità quell'idillio di Teocrito è un mimo addirittura; e nessun altro componimento della greca letteratura poteva valerci a preannunziare l'arte di Eroda, e a darcene un saggio vivo e caratteristico. Gorgo e Prassinoe non hanno ancora smesso (né li smetteranno tanto presto) i loro vivaci cicalecci.
GORGO
Sai, Prassinoe, che proprio ti torna a pennello cotesto peplo? quanto ti costa? la stoffa soltanto, s'intende.
PRASSINOE
Non me lo rammentare. Mi costa due mine d'argento; anzi, più, Gorgo, e credi, mi sono ammazzata a cucirlo.
GORGO
Ma t'è venuto come volevi.
PRASSINOE
Di questo hai ragione...

Le nostre due donne invece ragionano di un'altra cosa: di un oggetto misterioso, un "baubon" chermisino, che doveva essere di cuoio, ma che non si sa bene che cosa sia. Incoraggiati dal difetto lessicale e dall'incertezza, i dotti hanno potuto sfogarsi in una quantità di congetture. Chi ha pensato che fosse una cintura, chi un tòcco, chi una benda pe' capelli, chi un giubettino o una calzatura, chi in generale un ornamento muliebre. Ma i più riconoscono con più probabilità un oggetto osceno, uno strumento di lussurie, che soltanto Aristofane poteva nominare nella sua Lisistrata con un sinonimo ed una perifrasi. Ed è certo cosi. Se no, che sapore avrebbe l'intero dialogo? Nella sua essenza è fatto di nulla, sta bene; ma il poeta doveva pur avere un intendimento, ritraendoci quella scena, la quale (sia detto fra parentesi) per la storia del costume è di capitale importanza. Doveva mirare a rivelare un aspetto intimo e scurrile della vita del tempo. Del resto i cultori dell'arte antica figurata sanno che somiglianti rappresentazioni oscene non mancano su vasi greci. Soprattutto una coppa del museo britannico, in cui è raffigurata un'etèra con in mano un paio di strumenti di quel genere, vuol essere almeno citata qui, se non riprodotta in incisione. Ci par d'essere nell'ambiente, che con non minor verità Luciano più tardi ci dipingerà nei suoi Dialoghi delle etère. Alla intellingenza di Eroda e in particolar modo di questo mimo, quelle scene lucianee sono di una importanza che finora nessuno ha notato. Parecchie situazioni, parecchie locuzioni, molte reminiscenze, molti nomi sono o uguali o di molto simili. Ma ora non vogliamo divagare.
Con buona pace del Van Leeuwen, il quale, seguendo una vieta consuetudine retorica, s'è creduto in dovere di salvare senza pur l'ombra d'un argomento l'onestà dell'arte e dell'autore, noi non dubitiamo punto di ammettere che quel ninnolo chermisino è un oggetto innominabile fra persone per bene. Mi pare che il "baubon" menzionato da Luciano e poi da Alcifrone, e che non vedo ricordato da alcun illustratore di Eroda, possa giovare qualcosa a chiarire la questione.
Fermato questo punto, si può facilmente immaginare qual piega prenda la conversazione tra quelle due donne poco scrupolose in fatto di morale. Cresce a questo punto nella coscienza del traduttore, che non si riconosce l'arbitrio di falsare la verità storica in omaggio della moralità, il suo imbarazzo e l'esitazione. Più d'una volta fu tentato di essere infedele! Almeno intralascieremo qui i commenti: dopo peraltro aver soggiunto, come anche la lettura delle erotiche epistole di Alcifrone conferisca moltissimo a dischiuderci il senso storico e sociale della poesia del nostro Eroda.
Se si potessero accogliere le poco persuasive induzioni del Diels' noi dovremmo pensare di trovarci con questa scena nel cortile di una contadina. I1 che, certo, sarebbe significativo per la storia del costume. Ma lasciando questo, in che città o contrada si svolge l'azione? I1 Weil vorrebbe vedersi trasportato da Coo a Cizico, sulle rive della Propontide: città di qualche rinomanza per le sue monete d'oro e le ostriche ed i marmi, e che poi divenne il convegno galante dei Romani. Senonché non vi sono nel mimo accenni sufficienti per affermarlo. I1 mimo ha per chiusa il commiato con i soliti saluti ed auguri: proprio come il già più volte raffrontato carme teocriteo.
Eroda:
Stammi bene, Corituccia mia: .... è tempo d'andarcene ....
Teocrito:
Ma ritorniamo a casa:. . . .
*

Dove si svolge l'azione del sesto, svolgesi pure quella del settimo mimo; il quale senz'altro ci introduce nella bottega d'un calzolaio (n. VII).
Con la stessa indifferenza, onde prima discorsero di gingilli osceni e di uomini o mariti più o meno abili, vengono le medesime donne nella scena successiva (che dicemmo strettamente connessa con la precedente) a discorrere di sandali, di pianelline, di tartaglie. Cerdone (anche questo nome caratteristico per un individuo che tira al guadagno), è un amabil uomo, e la sua bottega non potrebbe esser fornita di un maggior numero di confezioni: a un certo punto delle trattative con quelle graziose donnine, che non sembrano di facile contentatura, egli fa tirar fuori e metter loro dinanzi ben diciotto specie o fogge di calzature femminili. La nostra conoscenza lessicale, dirò meglio, la abilità tecnica dei nostri moderni cordonniers non riesce a somministrare la congrua e sufficiente nomenclatura a tanta varietà di stivali. Altro imbroglio pel povero traduttore che ogni momento è messo a mal partito!
L'azione non potrebbe essere più semplice e comune: per essa noi assistiamo ad una delle più usuali scene della vita: ad una compera ed al relativo contratto in una bottega pubblica. Le donne, bellocce e vanerelle, vogliono roba buona ed elegante; lui, l'operaio, che ha da mantenere tredici lavoranti, dice l'ultimo prezzo, e poi mette le spalle al muro. Questa tutta la contenenza del leggiadrissimo mimo. Ma il poeta appunto non vuol altro: ritrarre modestamente con la più gran naturalezza azioni semplici e volgari. Ché questa è l'essenza del mimo: una specie di riproduzione, direi quasi fotografica, di un avvenimento qualunque. Se l'artista è abile, anche con poveri mezzi saprà conseguire un grande effetto. Ed Eroda riesce in questa scena veramente magistrale. Perché il tenue disegno è colorito con una naturalezza mirabile, variato di figurine vispe e graziose, e che sembrano vive realmente, e per dove circola una sottile vena di bonario umorismo. Qui si, che io m'accordo pienamente col Diel: il quale giudica questo come «il più amabile ed umoristico saggio della raccolta». Non si crederebbe, ma neppur qui manca quel tratto caratteristico del rabbuffo padronale ad uno dei garzoni, che serve a dare un po' di intonazione vivace alla modesta scena. Quel «dàgli sul muso, o Pisto», che risuona nei primi versi del componimento, ci avverte della realtà dell'azione, e ci assicura che Eroda non ci ha lasciato: è lui, lo si sente, e si può giurare che non si smentisce. Grazioso il soggetto ed originale: anche qui per illustrarlo in qualche modo, mancando qualsiasi riscontro letterario, bisogna ricorrere alla pittura vascolare. Ma meglio lo illustra il reale uso moderno, il quale da Eroda a questa parte non è mutato punto: così che noi gustiamo questo mimo in tutte le sue particolarità, come una rappresentazione artistica del nostro tempo. Lo stesso non possiamo dire del secondo, per esempio, del quarto e del quinto mimo: i quali ci richiamano al pensiero condizioni sociali di altre età. La modernità più calda ed umana sentiamo noi in questo settimo mimo, nonché nel primo e nel terzo.
Peccato, che si sia quasi interamente perduto l'ottavo: il cui titolo ci prometteva una situazione curiosa e nuova. I1 Sogno. Non ne possediamo, di intelligibile, altro che il principio: una dozzina di versi, ne' quali (neanche a farlo a posta) è contenuta (il lettore stenterà a crederlo) una sgridata, anzi due, che una padrona fa a due sue servacce dormiglione. È un rabbuffo modello, e val la pena che qui lo si traduca, riuscendosi inoltre per tal guisa alla integra interpretazione di quanto la sorte ci ha salvato dell'opera di Eroda pur nei suoi maggiori frammenti:

«Su, lèvati, Psilla: quanto ti starai ancora sdraiata costì ronfando? C'è la maiala, che muore dalla sete! O aspetti tu, finché il sole, passando per la finestra, ti venga a scaldare il culo? E come, poltronaccia, non ti stanchi neppure di logorare i lombi nella poltroneria? Le son notti di nove ore! (Dopo un po' di pausa) Su, lèvati, dico, e accendi un po, la lucerna: e porta a pascere la maiala, che è stanca di star rinchiusa. Borbotta
pure, e gràttati: fin che io non m'accosti col bastone ad ammmollirti la zucca... (Ad un'altra schiava) Pigrona d'una Megallide! Anche tu dormi il sonno di Endimione. Non sono le faccende che ti struggano... Ma intanto non abbiamo un cencio di benda pe' sacrifizi, e nella casa non c'èpiù un bioccolo di lana... Pigrona, lèvati! ...» .

Decisamente il poeta non sacrifica alcuna delle sue artistiche predilezioni, uguale a sé dal principio sino alla fine.
*

Tale è il poeta, che gli ipogei egizi hanno in buon punto rivelato al mondo letterario. Dico in buon punto, perché se ogni età ha i suoi gusti ed ideali artistici, questa nostra è la meglio acconcia a intendere e gustare l'arte verista o realista del nuovo poeta. I1 quale, fra i molti e vari poeti greci di quella felicissima letteratura antica, ha ancor questo vantaggio: che è un tipo singolare e nuovo. Soltanto in Teocrito, il quale è del resto poeta di tutt'altra tempra e natura, avevamo uno specimen del mimo con il carattere che aveva assunto nell'età alessandrina. È proprio l'arte tutta, in tutte le sue molteplici manifestazioni, che in quell'età si umanizza e si fa universale, a scapito della sua antica divinità e idealità. Si iniziano allora i tempi nuovi, che si son perpetuati sino ai nostri giorni. Eroda più che poeta è artista. Ama la realtà, e non vuol altro che riprodurla fedelmente. Tutte le espressioni della vita contemporanea lo interessano ad uno stesso modo: preferisce peraltro, come certi pittori olandesi del cinque o seicento, le scene umili della vita popolare. Noi lo vediamo aggirarsi in quel piccolo e basso mondo di mezzane e di schiavi, di donne frivole, di massaie e di operai: tra le viottole e le vie campagnole, tra la scuola e l'ergastolo, tra le officine e i templi e i tribunali. Come Anteo, si sente legato alla terra, e non se ne vuol staccare. Quasi tutti i caratteri che egli ci ritrae son femminili; e non di rado la scena ci conduce fuori di città in fattorie di campagna. La sua geografia è tutta orientale: i luoghi che egli menziona sono l'Egitto, Tiro, Coo, Abdera, Faselide, Delo, Chio, Eritre... Singolare nei suoi quadri la mancanza quasi del contorno o dello sfondo. Meraviglia poi affatto di non trovare in un contemporaneo di Teocrito traccia alcuna di quel sentimento della natura, che cosi puro e fresco trionfa e canta negli Idilli. Non un albero, non un ruscello, non una linea sola di paesaggio in tutti quei mimi. Come ci siamo dilungati dalla grandezza di quell'arte antica, in cui l'eroe combatte e muore, in cui sotto l'alito caldo e gagliardo della passione l'anima umana si dispera o folleggia, canta o spasima nelle strette dell'agonia sotto il peso irremovibile del destino, e s'abbandona alle più spensierate ebbrezze e alla sensualità più raffinata del realismo comico! Ma sempre e dappertutto, attorno a quelle figure esuberanti di vita e di passione, mescono l'incanto della loro eterna bellezza le infinite scene naturali del mare e delle montagne, con gli scogli aprichi e inaccessibili, e le correnti dolcemente rumoreggianti di fiumi e ruscelli, con le foreste formidabili e serene, stormenti all'alito poderoso de' venti! Ma il poeta è quel che è, e quale i tempi lo formano ed ispirano. Ad Eroda piace lo studio dell'uomo; e a noi basti che in questo egli si dimostri maestro. Non è, s'intende bene, un autore di primo ordine; egli non ha, per esempio (anche a ragguaglio con ingegni del suo tempo o posteriori) né la serena idealità d'un Teocrito, né l'attica arguzia ed il fine umorismo d'un Luciano. Ma è un felice temperamento artistico: originale ed anche simpatico per noi. Forse le sue poetiche creazioni hanno per noi più un valore storico che letterario. I1 fine senso che egli possiede dell'arte lo conduce a scegliersi i più acconci strumenti per le sue pitture: e per l'etopea di quei caratteri tutto, anche i più minuti accessori formali, sono messi in opera. I1 Reinach ha opportunamente ravvicinato questi mimi ai piccoli quadretti fiamminghi dell'Ostade. Chi è stato ad Amsterdam, a Leida, a Bruxelles,... non può a meno di ricordarsi, leggendo Eroda, di quelle graziosissime tavolette di genere. Per questa qualità loro e per la esattezza o fedeltà della riproduzione ci sono documenti importantissimi per la storia del costume antico. Naturalmente, in riguardo a questo punto di vista etico, egli va giudicato come un greco ed un antico: ché nulla sarebbe più falso ed ingiusto ad un tempo, quanto il recar giudizio dell'antica vita e morale con criteri moderni.
Che quei mimi fossero rappresentati? Taluno ha creduto di sì, e quelle rappresentazioni avrebbero avuto luogo in pubblici ritrovi, forse su piccoli teatrini di sobborghi o di villaggi. Ma più ragionevolmente altri crederà, che fossero destinati alla lettura. Alcuni tratti o atteggiamenti o toni di quell'arte ci ricordano volta a volta o Ipponatte o Aristofane e Sotade, o Teocrito o Teofrasto o Asclepiade e Meleagro, o Plauto o Alcifrone o Luciano... Alcuni hanno notato somiglianze con versi di Virgilio e Catullo: coincidenze affatto eventuali. Le sue vere fonti dovettero essere l'ultima forma della comedia attica, oltre Epicarmo e Sofrone, suoi principalissimi autori. A me ha più d'una volta fatto venire in mente quel Leonida di Taranto, epigrammatista si può dire contemporaneo del nostro mimografo, il quale pure amò aggirarsi nel basso mondo della vita popolare, tra tessitrici e cacciatori, tra etère ed artefici, tra lenoni e contadini: vero poeta di origine, di gusti e di aspirazioni plebee. Anche poté egli non di rado riferirsi alla poesia contemporanea erotica, elegiaca ed epigrammatica: la quale, se non ci fosse stata invidiata dal tempo, ci darebbe modo di meglio gustare quell'elemento parodico, che il Crucis ha argutamente riconosciuto nei carmi erodiani.
Appena giova qui mettere in rilievo l'importanza grande che i nuovissimi carmi hanno pel lato formale: essi vengono in buon punto ad arricchire i lessici e le raccolte di proverbi, ed a meglio informarci sull'uso e sulla storia dei dialetti. Ad agevolare in qualche modo l'interpretazione del poeta sono state raccolte e pubblicate ora, contemporaneamente all'Eroda, le Inscriptions of Cos dai signori Paton ed Hicks.
*

Non pare che il mimo avesse nei tempi che seguirono all'alessandrinismo, sorti molto prospere. Per trovare un successore ad Eroda, bisogna venire ai tempi romani. Solo nel secolo che precede l'età di Augusto, fra i vecchi contemporanei di Catullo e di Publio Siro, troviamo un certo Mazio, di cui Gellio decanta ripetutamente la dottrina e l'erudizione, e che scrisse dei mimiambi in senari giambici, anche questi zoppi. È un periodo, in cui pur a Roma, come in Grecia sotto i successori d'Alessandro, le ragioni della vita s'impongono e fanno valere i loro diritti nel campo della poesia. Basti ricordare, che accanto ai mimiambi del nostro Mazio si dettano delle Atellane da Novio e da Pomponio; mentre Levio tenta di riprodurre in scherzosi carmi erotici le svariatissime forme della melica greca. Del carattere dei mimi maziani siamo così poco informati, come eravamo un anno fa di quelli di Eroda. I pochissimi frammenti, sette in tutto, con una somma di dodici versi, non ci dicon gran che: si sente qua e là (o almeno par di sentire) qualche eco o nota idilliaca e passionata. Forse non erano sì realistici, come gli erodiani; ma se si pensa alla indole ed al gusto del romano in siffatta materia, saremmo indotti a crederli piuttosto grossolani e buffoneschi.
*

A questo punto ci bisogna chieder scusa al lettore tradizionalmente benigno d'aver noi osato di cimentarci con l'arte, modesta sí, ma fine e delicata del poeta redivivo. Le difficoltà d'ogni sorta, che ad ogni passo si affacciano all'interprete e lo sgomentano, avrebbero dovuto all'ultimo fargli abbandonare l'idea di dare un Eroda italiano. Più ancora avrebbe dovuto distoglierlo dal temerario ed ambizioso proposito la notizia, arrivatagli malauguratamente tardi, che alla grave fatica di presentare Eroda agli italiani attendeva l'illustre maestro Enea Piccolomini. Ma, per iattura dei lettori, quando le esitazioni e la necessità di una gara terribile si affermavano, il traduttore non era più libero di sé. Tanto, che ora mi conviene ringraziare, e di tutto cuore, l'editore davvero solerte, e questa volta anche coraggioso, se il presente volumetto s'è deciso a veder la luce.È merito tutto suo, se l'eleganza esteriore dei tipi e delle illustrazioni supera di gran lunga quella stilistica di cui l'autore avrebbe voluto che s'ornasse il suo proemio e la traduzione. Alle Muse chiedo venia di aver tradotto un poeta in prosa: il desiderio di rendere nell'ardua interpretazione con quanta maggior fedeltà e vivezza i graziosi quadretti mi ha fatto venir meno ad un principio artistico che io riconosco, e contro cui vorrei poter qui citare l'autorevole esempio di Giosuè Carducci. D'altra parte il trimetro coliambico, per quel che è ritmo e movenza, s'avvicina tanto alla prosa, che i lettori condoneranno la stonatura o violazione in grazia di quel maggior sentore che per caso fossi riuscito a dare di quella singolare arte antica. Traduco dalla edizione del Bücheler: ma in più punti mi scosto da quella lezione e seguo interpretazioni più recenti o che mi paiono più probabili. Lingua e forma avrebbero dovuto nella traduzione risentirsi un po' più di quella grazia vivace e natural spigliatezza che è propria del comun linguaggio toscano: ma come fare? Persin quel poco di proprietà o naturalezza che altri si argomentasse di ravvisarvi non si deve tanto alla mia ormai non breve consuetudine di vita col popolo di Toscana, quanto alla amorevole e gentile cooperazione di alcuni miei amici, che m'è debito di qui ricordare: Idelfonso Nieri e Francesco Carlo Pellegrini. Molto benevolmente l'egregio prof. F. Zambaldi mi favorì qualche schiarimento e qualche notizia bibliografica; e con maggior bontà il caro e dotto amico mio professor L. A. Milani volle sulle bozze riscontrare la versione col testo.
Ed ora che i mani dello sfortunato Eroda ed i responsi della critica sagace ed imparziale mi sieno propizi. Salve, o lettore benigno!
Modena, agosto 1892.
FINE
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